Se nasci in un posto lurido come il mio; un quartiere di anonimi, informi palazzoni dove d’estate cuoci e d’inverno geli. Senza neanche un campetto spelacchiato dove giocare a pallone. Un miscuglio di cemento, rifiuti conferiti in discarica una volta ogni morte di vescovo e isole di asfalto dentro oceani di buche. Dove se vuoi vedere un bel po’ di verde non ti rimane che guardare nelle tasche dei residenti. Dove la disoccupazione regna sovrana e l’arte di arrangiarsi viene praticata nelle sue forme più abbiette. Dove sei costretto a giocare a pallone in mezzo alla strada, insieme a quelli che hanno il doppio dei tuoi anni… che se poi, per caso o per bravura, un giorno ti riesce un tunnel ti becchi, come minimo, pure uno sganassone. Perché mica te lo puoi permettere di prendere per il culo chi è nato quando ancora tu eri solo un’ipotesi di marmocchio nelle palle di tuo padre. Se nasci qua da noi, dicevo, hai due possibilità: o meni, o ti fai menare. Ce ne sarebbe anche una terza; se sei abbastanza vigliacco da rasentare la furbizia, lecchi il culo al tipo più grosso e cattivo del quartiere.
E se devo dirla tutta; all’epoca mi ritenevo molto vigliacco. Il più scaltro di tutti, essendo riuscito a entrare sotto l’ala protettrice di Marco.
Marco mi piaceva, aveva la faccia giusta: da delinquente! Lo sguardo torvo, il volto butterato, il capello unto, il vocione cavernoso, la sigaretta sempre all’angolo destro della bocca e quella voglia perenne di menar le mani. E poi aveva quell’intercalare che mi faceva impazzire. «Prima che sorga l’alba!», era solito mettere un po’ in ogni argomento; e questo - chissà poi perché - me lo faceva sentire tanto uno di quei ragazzi perduti, stile “gioventù bruciata”, protagonisti di molti film made in USA.
«Passa quella palla… prima che sorga l’alba, se ti è possibile.» Oppure: «Vediamo di farla fuori… prima che sorga l’alba». O ancora: «Prometto di spaccarti il muso… prima che sorga l’alba». E via andare di questo passo. C’è un altro motivo che me lo faceva apparire come un dio; ora me ne vergogno ad ammetterlo, ma quando sbraitava o picchiava un nero piuttosto che uno zingaro, lo ammiravo. «Gli zingari sono la razza che odio di più… subito dopo i negri… e prima dei pellerossa», era solito dire. E se per caso gli chiedevi perché i pellerossa? Ti rispondeva serafico: «Perché hanno fatto fuori Custer e tutto il settimo cavalleggeri!»
Era proprio uno stronzo, Marco. Uno stronzo, razzista di merda! Ma era il mio dio… allora… prima che sorgesse la mia alba.
«Ma in fondo», aveva detto un giorno l’Alcide, «un po’ razzisti lo siamo tutti. Chi è che non nutre una punta d’antipatia per quello che viene da fuori… da fuori dall’uscio di casa nostra, intendo. E’ insito nell’animo umano frignare contro chi ti sta davanti; non per niente i marmocchi appena lasciano l’utero materno cominciano a piangere appena il ginecologo o l’ostetrica si prendono cura di loro.»
Marco era nato per comandare, non soltanto su di me che c’avevo dieci anni di meno. Ma anche su Alcide che era della sua stessa classe.
Infatti l’Alcide divenne il suo luogotenente, quando cominciò a darsi da fare con i piccoli furti. Io ero ancora troppo giovane, avevo solo sette anni. Due lustri dopo, quando di anni ne avevo diciassette e l’Alcide e Marco ventisette, fui arruolato come terzo componente della banda. Dai furtarelli in chiesa, in casa, nei supermercati o nei negozi. Poco dopo il mio arrivo avevamo fatto il salto di qualità, passando alle rapine a mano armata negli uffici postali.
Fu allora che, visti i successi, Marco iniziò a voler essere chiamato: prufessur… rigorosamente in dialetto.
No, non si poteva certo definire un “intelligentone”, Marco… L’Alcide sì che aveva una gran testa… era uno che ti incantava con le parole, l’Alcide. Ricordo il giorno che gli domandai perché rubavamo… Lui, corrugando la fronte, mise su una faccia da gran pensatore e mi spiegò che: «Il mondo e diviso in due. Da una parte ci stanno i ricchi che rubano ai poveri… ma anche agli altri ricchi. Dall’altra i poveri che rubano ai ricchi… ma anche agli altri poveri. E se tu ti ostini a star fermo nel mezzo… va a finire che gli uni ti infilano le mani nella tasca destra, gli altri nella sinistra e tu passi la tua vita di merda a farti derubare senza mai derubare!» Era davvero una gran bella persona, l’Alcide. Ah! Se avesse avuto la fortuna di nascere altrove… sono pronto a scommettere che sarebbe diventato un filosofo di quelli tosti, l’Alcide. Glielo dissi anche, una volta… E lui, dopo una grassa risata, mi rispose che la filosofia è l’arte di sparare cazzate ammantandole di un’ipotesi di verità.
Una sera, seduti a tirar l’alba fumando roba rollata da Alcide sulla macchina del prufessur. Questi se ne venne fuori con una novità mica di poco conto. «Se vogliamo allargare il giro, dobbiamo trovare almeno un altro socio», disse con nonchalance, emettendo soddisfatte volute di fumo.
E quando io e l’Alcide obbiettammo che non potevamo mica mettere un annuncio sul giornale, e che sarebbe stato pericoloso spargere la voce nel quartiere; lui replicò dicendo che aveva già belle messo gli occhi sul tipetto giusto. E subito dopo ci annunciò il nome, lasciandoci allibiti, sconcertati.
Un ragazzetto di quindici anni, nemmeno del nostro quartiere. Uno che veniva a giocare da noi per sentirsi importante e poi vantarsi con gli amichetti, pensavo io. Un tipetto tutto compunto, vestito alla moda, che sarebbe scappato a gambe levate, quando e se, il prufessur gli avesse messo in mano la sua Beretta.
E invece no. Quando andammo giù al bosco, il nostro poligono privato, e il prufessur gli mise in mano la Beretta dicendogli di provare a colpire un tronco distante una decina di metri: «Prima che sorga l’alba, se ci riesci!» questo ragazzino dalla zazzera bionda, scaricò l’intero caricatore dentro quel povero tronco. Poi, ringalluzzito, esaltato dal successo, ci spiegò che si era allenato a casa con i videogiochi. Sghignazzava Rino, così si chiama, trascinandosi dietro anche l’Alcide, e poi anche me. Ma non il prufessur, che ingrugnito gli strappò la Beretta dalle mani e, puntandogliela alla tempia, lo cazziò: «Senti me, ragazzino! Sparare a un tronco o a degli uomini dentro un videogioco, non è mica come puntare la pistola alla tempia a uno e poi tirare il grilletto…» Tirò il grilletto, il ragazzino quasi svenne dalla paura. «E’ scarica, testina di vitello!» ghignò il prufessur. «La prossima volta che ci sarà d’ammazzare qualcuno, lascerò a te l’onore. Voglio proprio vedere se ce la farai a tirare il grilletto… prima che sorga l’alba!»
A dire il vero, se escludiamo un povero cane di guardia a una villa, non avevamo ammazzato ancora nessuno. Ma al prufessur l’aura di cattivissimo piaceva un casino. Non ad Alcide che andò su tutte le furie, innescando una diatriba che per poco non portò il prufessur a tirarglielo davvero un colpo in mezzo agli occhi.
Ecco, quel giorno lì, ho cominciato a vederlo sotto un’altra luce il mio eroe. E ho cominciato a rimuginare su come tirarmi fuori, e tirar fuori quel ragazzino in cerca d’avventure dal gorgo in cui si stava cacciando.
Si vedeva che non se la sentiva, un paio di volte ce l’aveva data buca, accampando le scuse tipiche di un ragazzino della sua età, senza mai ammettere che se la faceva sotto.
Ma il prufessur non voleva mollarla la preda. E, ridendo, progettava di fargli gambizzare qualcuno, la prossima volta. Sì, lo diceva ridendo, ma era una risata folle, che metteva i brividi… e non solo a me, eh! Il ben più scafato Alcide, in quell’occasione mi confessò che Marco aveva preso a farsi di roba pesante, quella che ti brucia i neuroni e ti fa dare di matto; per questo motivo era da un po’ di tempo che faceva di tutto per non farsi trovare impreparato, voltato di spalle, quando Marco impugnava la sua Beretta. Mi diceva che nell’occasione, osservandolo in tralice, teneva la mano nella tasca del giubbotto, ben stretta intorno all’impugnatura del suo revolver. E poi mi mise in guardia, facendomi dono di un’altra perla di saggezza: «Ricordati che esistono due tipi di follia. Una buona: quella del matto che si punta la pistola alla tempia e tira il grilletto. E l’altra cattiva: quella del matto che tira il grilletto e scarica l’arma sul primo o i primi che gli capitano a tiro. E siccome non ci è dato scegliere con che genere di follia confrontarci, e il novantanove virgola nove per cento delle volte ci capita quella del secondo tipo… ti conviene stare in campana!»
Marco, il prufessur, come ora ci obbligava a chiamarlo minacciando di spararci in bocca, era sempre più spesso ubriaco, se non sotto l’effetto di stupefacenti. Sbraitava contro tutti, se vedeva un nero per strada voleva sparargli, uno zingaro, uguale. Blaterava, diceva che quelli attiravano la polizia, che gli rovinavano la piazza. E questo, unito al resto, finì per stufare Alcide. Era preoccupato, il buon Alcide, per sé ma soprattutto per il ragazzino che si stava rovinando l’esistenza e non riusciva a capirlo; nonostante lui, l’Alcide, tentasse in tutti i modi di fargli entrare un po’ di sale in zucca.
L’altro giorno il prufessur ha affrontato il ragazzino a muso duro. «Se domani sera me la dai ancora buca… giuro che vengo a prenderti a casa e, prima di te, faccio fuori il tuo fratellino e i tuoi genitori… prima che sorga l’alba! Lo giuro sulle corna del demonio!» latrò a un alito dal suo sguardo. Nonostante sbavasse sputacchiandogli in faccia, Rino non si mosse. La paura lo aveva pietrificato, se l’era fatta lavare per intero la faccia, a forza di sputi. E lì sperai che, quando il prufessur l’avesse liberato della sua opprimente presenza, se ne fosse andato di corsa senza fare mai più ritorno.
Ma la paura fu più forte della ragione… paura per sé, ma soprattutto per i suoi cari, presumo. E ieri sera, da bravo soldatino, si è presentato davanti al suo comandante dicendo, con voce tremante, che non si sarebbe tirato indietro, che era preparato a tutto per dimostrare a quel mostro che non si era sbagliato sul suo conto.
Siamo entrati in questa maledetta villa all’una di notte… Sarebbe andato tutto liscio, se la domestica che non doveva esserci, chissà per quale misterioso segno del destino si trovava in casa.
Poteva andare tutto liscio ugualmente, se il ragazzino tremebondo non fosse inciampato, se la domestica non si fosse svegliata, se non fosse corsa in soggiorno e non avesse acceso la luce per capire se il gatto aveva rovesciato qualche vaso e, cosa ben più importante… se non fosse stata di colore! Troppi se, di cui l’ultimo grosso come una montagna, per svicolare dal destino avverso.
«Ci ha riconosciuti, la dobbiamo far fuori, questa negra di merda!» sentenziò Marco, premendogli la mano sulla bocca perché non urlasse. Gli occhi agghiacciati di quella povera ragazza, vagavano da uno all’altro di noi implorando aiuto.
«Sparagli, Alcide!» ordinò Marco, vedendo che stringeva ancora il revolver, estratto appena si era accesa la luce.
Alcide scrollò la testa rasata. «Non ci penso proprio!» esordì rimettendo in tasca il revolver. «Leghiamola e andiamocene», aggiunse usando il tono del comando.
Tono che finì per irritare ulteriormente colui che si riteneva l’unico depositario del segno del comando. «Cazzo! Alcide, con cosa ragioni, col culo?! Ci ha riconosciuti! Ci denuncerà! La dobbiamo far fuori, ora!» insistette digrignando i denti.
Alcide non fece plissé. Allora il prufessur chiamò a sé il ragazzino che, tremando come una foglia, si avvicinò. A quel punto estrasse la sua Beretta e gliela porse. «Toh! Fai vedere a quel traditore come si ammazza una sporca negra!» latrò.
«No! Rino, no!» proruppe Alcide. «Vattene via! Scappa da qui, svelto!» urlava facendosi avanti. Il ragazzino non sapeva come comportarsi, volgeva lo sguardo agghiacciato su l’uno e l’altro alternativamente. Da parte mia osservavo stranito quella scena surreale: pareva di assistere a un duello nel vecchio west. Le pupille dilatate di Marco certificavano che era strafatto. L’occhio vitreo fisso su Alcide, che ci trovavamo di fronte a un pazzo del secondo tipo, i più letali. Furono lunghi, interminabili attimi. Tremendi! Marco si liberò della ragazza spingendola di lato, puntò la Beretta addosso all’Alcide, che ebbe il tempo di estrarre il revolver dalla tasca del giubbotto e di urlare: «Mettila via…» prima che uno sparo assordante coprisse l’ultimo suo straziante acuto e l’odore di polvere da sparo invadesse l’ambiente.
La ragazza trattenendo dentro di sé l’orrore provò a sgattaiolare via. Marco se ne accorse e puntò l’arma contro di lei. A quel punto non potevo più tergiversare, dopo di lei sarebbe toccato a me e poi a Rino, gliela si leggeva in faccia la follia del secondo tipo, al prufessur. Dovevo sfruttare l’attimo di disattenzione mentre stava mettendo nel mirino la ragazza che cercava, allontanandosi a carponi, di nascondersi dietro il divano. “Ora o mai più”, mi dissi estraendo la rivoltella… Scaricai l’intero caricatore, addosso al mio dio. Lui, voltandosi mi guardò stupito, sorpreso, incredulo. Non si sarebbe mai aspettato che il suo docile leccaculo fosse capace di una tale mostruosità. Lessi nel suo sguardo e poi sulle labbra, all’angolo destro delle quali invece che la solita sigaretta sgorgava un rivolo di sangue, la mia condanna a morte, per delitto di lesa maestà. Stringeva ancora, con forza, la Beretta, ma un attimo prima di eseguire la sentenza, stramazzò a terra con la faccia sul pavimento. Emise un ultimo rantolo, vidi la schiena inarcarsi e poi ricadere pesantemente… e poi… più nulla. Era tutto finito.
Ed ora, eccomi qua, seduto su una sedia con la testa tra le mani, a osservare un ragazzino e una giovinetta che tremano come foglie piangendo come viti tagliate, e due cadaveri stesi sul parquet d’ulivo con due macchie rosse che si allargando sotto di loro. In attese che quelle sirene che sento avvicinarsi vengano a prendermi… prima che sorga l’alba.
FINE
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Ciao Margherita.
Giancarlo.
Complimenti!
Giancarlo
Giancarlo
Avvincente, ben scritto e di altissima moralità.
Il bullismo, il razzismo, l'onnipotenza...il gruppo
Ottimo
Un trhiller che mi ha coinvolto e tu poi sai che non è il mio genere preferito.
Mi ha appassionato sin dalle prime righe, sarà per l'incipit o per la caratterizzazione dei personaggi, ma hai condensato in un testo, poi non tanto lungo, una storia davvero convincente...
È sempre bello leggerti.
Ciao e buona giornata