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Alveari metropolitani

Alveari metropolitani


Faccio parte della miriade di api operaie che ogni mattina lasciano il loro alveare e fanno vivere questa città senza colore.
Beh, ape operaia è un termine frustrante, ape impiegata, suona meglio, mi fa sentire un gradino al di sopra del nulla, la qual cosa non è molto ma è sempre meglio di niente.


Sono uno dei mitici e invidiati, bancari! Sì proprio quelli delle mitiche quindici mensilità, delle pensioni da paperoni, del posto garantito a vita. Sì lo ammetto sono un privilegiato in giacca e cravatta, dal sorriso smagliante e la felicità permanente… Tutto falso! Come l’illusione di benessere che ti ammalia camminando per le vie di questo carnaio chiamato metropoli!
Abito in un monolocale (io lo chiamo: monoloculo, viste le dimensioni lillipuziane della mia celletta) al dodicesimo piano di un alveare color del cemento, diviso in ben cinquantasette appartamenti, tutti della dimensione di uno sputo.
L’unica finestra si affaccia su una foresta di tegole e antenne sotto le quali una selva di finestre si affacciano dentro altre finestre.
La mia vita ha uno svolgimento tragicamente lineare: colazione al mattino, corsa alla fermata della metro per raggiungere il posto di lavoro, rientro a casa, cena, televisore e poi letto.
Salvo rare eccezioni questa era la mia giornata tipo. Dico: era, perché da più di due anni ho iniziato a frequentare i residenti degli alveari dirimpetto alla mia finestra.


Stanco dei soliti programmi televisivi, iniziai a osservare… o per meglio dire: a spiare la vita degli altri, dei miei dirimpettai. E dalla mia postazione privilegiata ne avevo di finestre da visitare; alcune a un alito dal mio sguardo, altre un po’ più lontane.
Andai a curiosare sin dove la vista mi permise di arrivare, poi, per vedere meglio quelli che consideravo ormai amici di famiglia, e acquisirne dei nuovi, comprai un potente cannocchiale; uno di quelli appoggiati su un treppiede con il quale, stando comodamente seduto sul divano, puoi tirarti dentro casa la finestra e l’intero appartamento del vicino. Un vero spettacolo, altro che i reality!
E da quel giorno la mia, e forse anche la loro solitudine, finì.
Aprire una finestra sulla vita degli altri, vederli muoversi, parlare, infervorarsi senza poter udire nessun suono uscire dalle loro bocche cercando d’interpretarne il labiale, fu come assistere alla proiezione di un film muto agli albori della cinematografia; c’era pure il bianco e nero delle loro vite scolorite a completare il quadro e rendere il tutto molto verosimile.
Così, per donare un po’ di colore e di movimento al loro piattume, decisi di diventare sceneggiatore, regista e doppiatore delle loro tragicomiche gesta.
Scelsi le finestre che più m’ispiravano, assegnai un nome ai protagonisti che vi si affacciavano e iniziai a girare il mio personale film sull’alienazione degli alveari metropolitani.


I primi interpreti a palesarsi sulla scena furono due anziani coniugi, presumo sulla settantina o giù di lì. Andrea e Ginetta, così decisi di chiamarli perché mi ricordavano i miei litigiosi nonni paterni.
Mentre li vedevo discutere in cucina, li doppiavo passando dalla voce baritonale quando interpretavo Andrea, a quella in falsetto indossando i panni di Ginetta.
«Te lo ripeto ancora una volta: ho incontrato Riccardo, ha voluto a tutti i costi offrirmi un caffè, non ho potuto dirgli di no, così siamo entrati nel primo bar, ci siamo seduti e parlando del più e del meno, il tempo è volato», dicevo doppiando in tono esasperato Andrea.
«Non ci credo! Tu non me la racconti giusta! Hai perso tempo perché quella puttana della prestinaia ti ha fatto gli occhi dolci e tu ti sei sciolto in brodo di giuggiole! Ma questa è l’ultima volta che ci vai da solo a prendere il pane. Da domani ci andremo assieme, e se la vedo sbattere le ciglia come una farfalla in amore… glielo cavo l’occhio languido!» urlavo doppiando la voce stridula della Ginetta.
«Ma quali occhi dolci vuoi che mi faccia la prestinaia? Ha settantacinque anni, porta gli occhiali con delle lenti spesse un dito, quella schiaccia gli occhi per mettere a fuoco la vista mentre legge il peso sulla bilancia», replicavo ridendo, tornando a interpretare Andrea.
«Non ridere! Non prendermi in giro sai! Altrimenti vado là e gliene canto quattro a quella!» ribattevo infervorandomi, osservando l’infiammata Ginetta che lo scuoteva afferrandolo per il bavero della giacca.


Oltre alla vita di Andrea e Ginetta, sceneggiavo e interpretavo anche quella di Armando. Ma con lui il doppiaggio non serviva.
Armando viveva solo, il mutismo e la cupezza dello sguardo narravano una solitudine immensa. Ingrandendo all’inverosimile il suo volto cercai, penetrando nel fondo degli occhi, di leggerne il pensiero.
Il dolore di un giovanile perduto amore, forse un tradimento, oppure una disgrazia. In ogni caso una delusione così grande dalla quale non si è mai ripreso, e da allora vive solo nel ricordo guardando e baciando fotografie ingiallite che poi, come le carte di un eterno solitario, posa ordinatamente sul tavolo. Questo lessi nello sguardo pieno di struggimento di un cinquantenne.


Altre finestre accesero la mia curiosità, altri personaggi entrarono in scena, come protagonisti di una lunga narrazione, o comparse di una breve apparizione.


E poi c’era lei ad allietare cupi momenti. Viviana, così l’avevo chiamata in onore della mia collega di lavoro che se la tirava perché era la preferita del direttore.
Viviana, la venere della scala B dell’alveare prospiciente il mio. Se non ci fosse stata lei a donare un po’ di colore e calore al mio film, avrei smesso di girarlo da un pezzo.
Viviana, l’unica vera stella splendente nel firmamento della mia solitudine, entrava in scena preferibilmente il venerdì sera; solitamente in primavera ed estate, alcune volte in autunno e raramente d’inverno.
Il venerdì sera, prima di uscire con le amiche, Viviana si chiudeva in bagno, spalancava la finestra per far uscire il vapore, poi andava sotto la doccia e ci restava per una ventina di minuti; naturalmente con il freddo la finestra rimaneva socchiusa e allora d’inverno, e spesso d’autunno, addio spettacolo. Quando usciva dalla doccia, ponendosi davanti allo specchio del lavabo con indosso l’accappatoio, si asciugava i lunghi capelli, poi controllava minuziosamente ogni centimetro del viso e iniziava a truccarsi, concludendo con un finale epico!
Voltandosi verso la finestra spalancava l’accappatoio, e lasciandolo cadere a terra esibiva le sue grazie. Allargando le gambe si guardava il pube nero sapientemente aggiustato, ritoccandolo ai lati con il rasoio; poi prendeva una bomboletta spray e si spruzzava per bene il pube e fra le cosce: presumo con del deodorante intimo, sicuramente non con dell’insetticida. Infine usciva dal bagno e andava in camera a completare la vestizione adatta alla movida.
La serena bellezza e la voglia di divertirsi di Viviana m’illusero che sì, si poteva essere felici anche vivendo in un quartiere alveare. Ma mi sbagliavo, e lo scopersi nel modo più agghiacciante.
In un insolitamente caldo venerdì autunnale, la vidi aprire la finestra del bagno, salire nuda sul parapetto e, nonostante le urlassi di non farlo, lanciarsi nel vuoto allargando le braccia come se volesse volare via, lontano dalla città e da questa vita.
Il volo terminò pochi attimi dopo sul selciato, spegnendo con la sua vita le mie residue speranze che si potesse trovare la felicità in questo triste contesto.


Ho trascorso l’inverno riflettendo sul perché di quel gesto. Ed ora, con la nuova primavera sono qui, sul lastrico solare del mio alveare, pronto a planare in direzione dell’ultimo prato di margherite, prima che l’asfalto lo fagociti trasformandolo in una nuova immensa rotatoria, dove uomini alienati chiusi nelle loro scatole di latta si fanno centrifugare per lanciarsi nella via di fuga laterale che conduce alla prossima rotatoria, da dove proseguire dopo l’ennesima centrifuga verso un'altra e poi ancora un'altra, così fino alla fine delle rotatorie… o del tempo che la vita ha loro concesso.


FINE




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Racconto scritto il 28/08/2018 - 18:47
Da vecchio scarpone
Letta n.869 volte.
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Commenti


la metropoli non è solo il glamour del centro, della movida e del sorriso obbligato, falso come una banconota da un milione di euro. Ma, sopratutto, l'alienazione, quella sì vera, delle periferie, dove si trascorre una vita a contatto di gomito senza mai conoscersi, e il massimo della libidine è spiarsi dalle finestre immaginando realtà parallele, forse false forse vere. Un modo molto triste d'intendere la socialità, ma tra rabbia, disincanto e sete di rivalsa, così è! Ti ringrazio per l'apprezzatissimo commento (sopratutto per quel: vero!!! che m'inorgoglisce assai).
Ciao Margherita.
Giancarlo

vecchio scarpone 01/09/2018 - 09:44

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Una dura realtà o almeno dura nel senso della drammaticità...spesa dalle vite inutili che si consumano in una grande metropoli...quasi come un alveare strette strette a confondersi anche per respirare. Mi è piaciuto tutto dall'inizio alla fine...concludendo che la tua riflessione finale è splendida...a volte le vite non hanno davvero senso! Bellissimo racconto...aggettivo forse non adatto per esprimere un giudizio...perché è più che splendido, è vero!!!

Margherita Pisano 31/08/2018 - 21:55

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Me lo incornicio anch'io il tuo commento...
Buona notte, Giancarlo

PAOLA SALZANO 31/08/2018 - 21:31

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Oddio, arrosisco! Io, che sono solo un pensionato che si diletta a scrivere cose, a volte interessanti, altre volte meno. Non posso sicuramente insegnare nulla a te che sai davvero insegnare e lo fai di professione. Da te ho solo da imparare, ma, ringraziandoti di cuore, il complimento me lo tengo tutto. E questo commento me lo incornicio pure. detto ciò,alcuni miei racconti nascono d'istinto; questo era nato dopo aver letto un articolo sulle periferie delle città, e rammento che lo avevo buttato giù in mezza giornata, riletto un paio di volte e poi pubblicato. Grazie ancora, amica di pedivella. Pedalo ancora anchio, non faccio più i passi dolomitici, ma i miei cinquanta chilometri giornalieri tre o quattro volte a settimana, me li pappo ancora. Grazie ancora.
Ciao Paola, pedalare fa bene al corpo e alla mente, continua così che vai alla grandissima.
Giancarlo

vecchio scarpone 31/08/2018 - 21:18

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non pensavo di aver inserito un momento erotico così emozionante in questo racconto che tratta di tutt'altro, ma se così è, mi fa ritenere di aver ben descritto, usando poche e precise parole, ciò che provava il protagonista tirandosi dentro casa, con il binocolo, il bagno di Viviana quando lei fceva la doccia. Ti ringrazio.
Ciao gianfranco.
Giancarlo

vecchio scarpone 31/08/2018 - 21:00

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Ho sempre apprezzato, della tua scrittura, la versatilità.
Riesci a passare da un genere ad un altro con facilità, sarà per questo che, da quando ho iniziato a scribacchiare, ho letto molti tuoi racconti con la speranza di imparare.
È un racconto amaro, che però fa riflettere sull'inutilità delle nostre vite.
Forse è per questo motivo che, qualche tempo fa, ho rivisto il mio modo di vivere, onde evitare quella fine!
Io continuo a pedalare, spero lo stia facendo anche tu.
Ciao Giancarlo

PAOLA SALZANO 31/08/2018 - 18:46

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Bellissimo. La scena della doccia è il momento erotico più emozionante.

Gianfranco Cassia 31/08/2018 - 16:36

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