“Allora sei mio padre!”
Risuonarono nella stanza dell’ufficio le sue parole dette quasi sussurrando ma che erano ampliate dalla loro pesantezza.
Era arrivato il momento temuto e atteso da troppi anni.
Non erano le sue parole di rabbia ma di scoperta mista di contrastanti sentimenti; era una ragazza di diciannove anni, somigliante alla madre da giovane anche nel modo di essere – a quello che mi apparve alla prima impressione - i capelli lisci con la divisa nel mezzo non lunghi e non corti, il trucco un po’ pesante da anni settanta che contrastava con gli occhi verdi nei quali mi scorsi. Furono pochi secondi prima che si allontanasse senza dire altro e senza che avessi il tempo di reagire a quella frase.
Era davvero molto simile per il resto a sua madre conosciuta quarant’anni prima, alla fine degli anni ottanta, quando ci conoscemmo in un gruppo di amici che si ritrovavano per passare il loro tempo libero in una stradina alberata della periferia della città nelle ore che precedevano la cena e poi nei giorni festivi quando eravamo liberi dagli impegni universitari di alcuni e lavorativi per altri.
Era di febbraio e la sensazione fu subito così intensa che decisi di cominciare a tenere un diario, perché avrei dovuto ricordare ogni momento di quella storia che ero sicuro che per me si sarebbe sviluppata nel tempo. E non mi sbagliavo!
I diari si ammassarono con pagine di riflessioni e cronache giornaliere tanto da diventare uno zibaldone leopardiano, scritto senza interruzioni fino a quando, dopo la laurea, partii per il servizio militare; entravano considerazioni di tutti i tipi dalla cronaca giornaliera fino alle riflessioni sulla vita e le persone, non solo su di lei ma la motivazione iniziale fu quella.
I primi approcci in gruppo con gli amici per capire chi era, limitando gli incontri ai fine settimana cercando – in quelle pagine - ogni volta di fare il punto della situazione.
Cercai di ricordare dove fossero finiti quei diari, per riannodare i fili di una vicenda che si perdeva ormai nel secolo scorso e che durante tutti gli anni trascorsi e che a volte mi tornava alla mente.
Era il momento di ricomporre il tutto e fare il punto della situazione.
Al ritorno a casa feci le solite cose di sempre aspettando il momento di cercare in garage quelli scritti, ma non c’erano!
Dovetti cercare un po’ prima di ricordarmi che, dopo essere tornato nella casa attuale, li avevo lasciati in cantina da mia madre.
Avevo ancora le chiavi, per ogni emergenza, del portone del palazzo, così andai in cantina. Era la seconda volta, in quaranta anni, che avrei letto quei diari, una ogni venti ed anche quella volta sarebbe stato per fare un punto importante della situazione.
Risuonarono nella stanza dell’ufficio le sue parole dette quasi sussurrando ma che erano ampliate dalla loro pesantezza.
Era arrivato il momento temuto e atteso da troppi anni.
Non erano le sue parole di rabbia ma di scoperta mista di contrastanti sentimenti; era una ragazza di diciannove anni, somigliante alla madre da giovane anche nel modo di essere – a quello che mi apparve alla prima impressione - i capelli lisci con la divisa nel mezzo non lunghi e non corti, il trucco un po’ pesante da anni settanta che contrastava con gli occhi verdi nei quali mi scorsi. Furono pochi secondi prima che si allontanasse senza dire altro e senza che avessi il tempo di reagire a quella frase.
Era davvero molto simile per il resto a sua madre conosciuta quarant’anni prima, alla fine degli anni ottanta, quando ci conoscemmo in un gruppo di amici che si ritrovavano per passare il loro tempo libero in una stradina alberata della periferia della città nelle ore che precedevano la cena e poi nei giorni festivi quando eravamo liberi dagli impegni universitari di alcuni e lavorativi per altri.
Era di febbraio e la sensazione fu subito così intensa che decisi di cominciare a tenere un diario, perché avrei dovuto ricordare ogni momento di quella storia che ero sicuro che per me si sarebbe sviluppata nel tempo. E non mi sbagliavo!
I diari si ammassarono con pagine di riflessioni e cronache giornaliere tanto da diventare uno zibaldone leopardiano, scritto senza interruzioni fino a quando, dopo la laurea, partii per il servizio militare; entravano considerazioni di tutti i tipi dalla cronaca giornaliera fino alle riflessioni sulla vita e le persone, non solo su di lei ma la motivazione iniziale fu quella.
I primi approcci in gruppo con gli amici per capire chi era, limitando gli incontri ai fine settimana cercando – in quelle pagine - ogni volta di fare il punto della situazione.
Cercai di ricordare dove fossero finiti quei diari, per riannodare i fili di una vicenda che si perdeva ormai nel secolo scorso e che durante tutti gli anni trascorsi e che a volte mi tornava alla mente.
Era il momento di ricomporre il tutto e fare il punto della situazione.
Al ritorno a casa feci le solite cose di sempre aspettando il momento di cercare in garage quelli scritti, ma non c’erano!
Dovetti cercare un po’ prima di ricordarmi che, dopo essere tornato nella casa attuale, li avevo lasciati in cantina da mia madre.
Avevo ancora le chiavi, per ogni emergenza, del portone del palazzo, così andai in cantina. Era la seconda volta, in quaranta anni, che avrei letto quei diari, una ogni venti ed anche quella volta sarebbe stato per fare un punto importante della situazione.
La sveglia delle sette squillò, destandomi dal sonno, dal sogno e dalla sua trama fattasi avvincente. Rimanevo sempre a quel punto, ormai ricorrente. Anche stavolta il sogno si dissolse sulla porta di ferro della vecchia cantina, la chiave nella toppa era anche la fine del sogno.
Con gli occhi ancora velati dalle briciole del sonno, mi svegliai completamente con l’acqua fredda in faccia del rubinetto del bagno, ma era così del tutto immaginaria quella situazione?
Racconto scritto il 27/09/2018 - 14:13
Da Beppe Billi
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