La capsula stava portando a compimento la dodicesima orbita. E Tom Hans, l’astronauta al suo interno, sapeva che alla fine dell’orbita successiva dalla base sarebbe partito il segnale per far rientrare la capsula nell’atmosfera terrestre.
La sua prima missione spaziale volgeva al termine. Diversi test scientifici erano stati completati con successo e, in quell’ultima orbita, poteva finalmente rilassarsi e godersi la spettacolare visione del nostro pianeta.
Guardava con occhi stupefatti il pianeta azzurro scorrergli davanti, e compiacendosi per aver scelto la carriera militare, si rivide pilota di caccia in missione nei teatri di guerra, sganciare bombe su convogli e villaggi senza farsi troppe domande: perché quelli erano gli ordini e lui, uomo tutto d’un pezzo pregno d’ottuso spirito patriottico, era d’uso obbedir tacendo.
E in effetti, tanta devozione alla bandiera fu alfine premiata con una medaglia al valore, oltre che con un per lui ben più importante onore: quello di entrare a far parte dello sparuto gruppo di aviatori destinati a diventare astronauti.
Finalmente, dopo due anni di duro addestramento psicofisico, giunse l’ora del primo lancio in orbita gravitazionale terrestre. Ora, dalla sua postazione privilegiata, poteva guardare il pianeta azzurro con lo sguardo compiaciuto di chi ha realizzato il sogno inseguito per buona parte della vita.
Sarebbe voluto restare lassù, a girare attorno alla terra, per molto tempo ancora; ma non spettava a lui la scelta, così decise di godersela fino in fondo quell’ultima orbita appena iniziata. Gli occhi stupefatti sembravano voler lasciare le orbite oculari, uscire dal casco e andare fin oltre l’oblò della capsula per cercare nutrimento dalle immagini dei mari e delle terre emerse, dove fra poco avrebbe di nuovo posato i piedi.
Con un sol sguardo, lungo un’intera orbita, avrebbe abbracciato e conservato dentro di sé l’intero globo terraqueo. Questo era il suo programma durante quell’ultimo giro, e mentre immagazzinava immagini in sequenza, un benessere euforico invase la mente di Tom.
Improvvisamente, un colpo secco lo spinse con il casco contro l’oblò. In un attimo, come una pallina da golf colpita violentemente dalla mazza, la capsula partì a gran velocità per la tangente.
Ora gli occhi, non più stupefatti ma sbarrati dal terrore, vedevano pianeti, stelle, galassie farsi incontro e sparire alle sue spalle inghiottite dal nulla senza soluzione di continuità.
In poche decine di secondi la capsula, con Tom a bordo, percorse miliardi di anni luce; e in pochi minuti attraversò infiniti eoni, una distanza improponibile, fuori da ogni logica o teoria scientifica sino allora conosciuta.
Poi, così com’era partita, in un attimo si arrestò.
Tom riordinò le idee, provò a chiamare la base, ma tutti i collegamenti erano saltati. Preso dal panico perse il naturale aplomb dell’eroe, provò e riprovò urlando disperatamente, ma dalla Terra nessun segnale giunse a rinfrancarlo.
Con il cuore in gola ripassò mentalmente il manuale di sopravvivenza, cercando un’introvabile soluzione che potesse risolvere un problema mai menzionato, perché mai accaduto nelle precedenti missioni spaziali.
«Calmati… devi stare calmo… loro sanno del problema, troveranno il modo di risolverlo. Devi solo stare calmo e aspettare», si diceva facendosi coraggio, mentre l’ansia accorciava il respiro.
Cercò di rilassarsi. Distendendosi sul lungo sedile di pilotaggio chiuse gli occhi, fu in quel momento che percepì qualcosa di strano: come se la capsula perdesse quota lentamente. Lui lo definì effetto ascensore: perché era la stessa sensazione che, dopo le prove nella capsula posta in cima al razzo, aveva provato dentro la cabina della rampa di lancio durante la discesa.
«E’ impossibile!» esclamò incredulo, gettando uno sguardo fuori dall’oblò.
Davanti ai suoi occhi sgranati, una valle verdissima si faceva sempre più vicina. E più si avvicinava, più l’osservazione particolareggiata lo lasciava stupefatto: vide alberi, ruscelli perdersi nel verde e, risalendo con lo sguardo, scintillanti cascate precipitare da dirupi di rosea pietra.
Poi, la visione che lo lasciò esterrefatto: figure eteree dai contorni umanoidi, e altre che richiamavano alla mente animali dell’habitat terrestre, si muovevano all’interno della valle. «Ma che forma di vita è mai questa?» si domandò, seguendo con lo sguardo un gruppo di figure luminescenti levitare a mezz’aria.
«E ora, che succede?!» esclamò, più incuriosito che impaurito, quando la capsula arrestò la discesa a cinquanta metri dal suolo.
Una delle figure levitanti più in basso, si staccò dal gruppo e si diresse verso la capsula, le girò attorno, si fermò e puntò lo sguardo all’interno dell’oblò. Istintivamente Tom si ritrasse appiattendosi contro la parete opposta.
L’essere rimase a guardarlo, e Tom, riavutosi dalla sorpresa, fece altrettanto cercando di carpire il sesso dell’essere indagando i contorni luminescenti del volto.
L’essere appoggiò quella che dai contorni pareva essere una mano all’oblò, e una voce dolce, musicale, senza che l’immagine mostrasse alcun movimento labiale, invase la capsula.
«Qual è il tuo nome?» chiese l’essere evanescente.
«Tom… mi chiamo Tom… E tu, chi sei?» rispose lui rinfrancato dalla voce suadente, mentre staccandosi dalla parete avvicinava lo sguardo all’oblò nel tentativo di comprendere come potesse esprimersi senza apparentemente muovere un sol muscolo del luminoso viso.
«Sono un essere umano, come lo sei tu.»
Tom trasalì. «Un uomo! Non può essere. Sì, il tuo corpo, se così si può definire, assume fattezze umane, ma la materia di cui è composto non può essere umana.»
«La consistenza di quella che tu chiami “materia”, può mutare d’aspetto per adattarsi agli habitat dimensionali che deve attraversare… La materia del mio corpo è la stessa che dona forma e consistenza al tuo. Ma per entrare nella dimensione della beatitudine, ha dovuto subire una metamorfosi: passare dallo stato solido a quello di puro spirito.»
«Spirito? Mi stai dicendo che tu sei l’anima di un essere umano passato a miglior vita?»
«Cos’è per te: la miglior vita?» domandò la voce dell’essere.
«La morte!» rispose lapidario Tom.
«Lo supponevo… La vita, la morte… sono solo parole dettate dalla paura dell’uomo. Quella che tu chiami “vita”, è la prima dimensione dell’energia. Attraversai la prima dimensione molto tempo fa… e lo rammento felice quell’attimo. Anch’io pensavo che nulla di più bello di quello che tu chiami vita ci sarebbe stato dopo quel tempo. Poi arrivai qua, e tutto fu immensamente più bello.»
«Che storia incredibile… Mah, allora questo è il paradiso!» affermò, certo d’aver capito dove si trovava. Poi, riflettendo aggiunse spaventato: «Ma allora, se mi trovo qua, son morto!»
Volse lo sguardo in direzione del piccolo specchio posto sopra gli strumenti di pilotaggio, osservò il suo volto all’interno del casco. «La mia pelle. La materia non è mutata, allora sono ancora vivo», constatò, sospirando.
«Morte, vita, non è così che funziona. Se sei arrivato fino a qui, vuol dire che hai lasciato la prima dimensione. Ma se la materia non ha ancora subito alcuna mutazione, significa che sei solo di passaggio. E allora, la tua meta definitiva non può essere la seconda dimensione, ma la terza.»
«Esiste una terza dimensione? E su quale pianeta si trova?»
«Sulla Terra!»
«Sulla Terra! Allora potrò tornare indietro!» esultò Tom.
«Indietro non si torna, solo avanti si può andare. Il pianeta verde sotto di te è la Terra della seconda dimensione, destinata ad accogliere la materia mutante che possedeva i requisiti per non proseguire oltre. Gli altri, tutti gli altri, dunque anche tu, sono destinati a fermarsi un sol attimo a guardare le meraviglie della seconda dimensione e a riflettere sugli errori compiuti nella prima dimensione. Poi, dopo aver compreso cos’hanno perduto per sempre, ripartiranno verso la terza dimensione… è lì, nella dimensione dell’eterna espiazione, che si compirà la mutazione irreversibile.»
«Requisiti per non andare oltre… Terza dimensione… Potresti essere più chiaro?» domandò un confuso Tom.
«Lo sarò! I requisiti necessari per essere accolti nella seconda dimensione, sono le virtù che fan degno l’esistere. E si possono riassumere in tre sole parole: onestà, amore e carità.»
«Virtù che mi pregio di possedere!» precisò Tom.
«Virtù che ti abbandonarono nel momento stesso che dal tuo aereo sganciasti la prima bomba sui tuoi simili», obiettò l’essere, mutando il tono musicale dal dolce al grave.
«Eravamo in guerra. A noi piloti era chiesto di ubbidire agli ordini. Noi combattevamo per una causa giusta», si giustificò Tom.
«Non esistono cause per le quali sia giusto fare quello che tu hai fatto! Era alla tua coscienza che dovevi obbedire. Non l’hai fatto, hai sbagliato e ora ne subirai le conseguenze… Il tuo viaggio non è ancora terminato, mi spiace.»
Solo allora Tom realizzò qual era la meta finale. «Conseguenze… Ho dunque viaggiato sino al termine del paradiso, solo per vedere quello che non potrò assaporare nemmeno per un istante; e dopo aver compreso d’aver commesso errori imperdonabili, dovrò proseguire oltre, portando dentro di me l’insopportabile rimorso d’aver vissuto invano… E’ mai possibile che sia così terribile, l’inferno della terza dimensione?»
«Questo non te lo so dire. Io ho sempre agito secondo coscienza, oltre la seconda dimensione non mi è concesso andare, e nemmeno sento il bisogno di doverlo fare», chiosò l’essere staccandosi dalla navicella.
Mentre Tom riordinava le idee, cercando di capire cosa gli sarebbe toccato una volta giunto a destinazione, la capsula partì a gran velocità: come un proiettile sparato da un cannone.
Schiacciato dall’enorme pressione contro il sedile di pilotaggio, respirava a fatica, e qualche attimo dopo perse i sensi.
«Rispondi Tom… Tom rispondi…. Tom… Tom», una voce lontana sembrava chiamarlo.
A fatica riuscì ad aprire gli occhi, sentiva la testa pesante, le tempie pulsare. Quando la voce giunse chiara al suo orecchio, guardò fuori dall’oblò. «La Terra è ancora là!» esclamò sorpreso.
«Cosa? Puoi ripetere Tom?» chiese la voce, fattasi forte e chiara.
Solo allora Tom comprese che la voce era quella del tecnico che chiamava dalla base. «Non capisco… Devo essermi addormentato…» farfugliò.
«C’è stato un guasto all’impianto dell’ossigeno, devi essere svenuto. Abbiamo sistemato tutto, ora rilassati. Ti riportiamo a casa», lo rassicurò la voce calma e sicura del tecnico.
“Un incubo dovuto alla mancanza di ossigeno, questo è stato… Eppure sembrava tutto così vero”, pensava guardando i paracadute gonfi dall’oblò.
Un colpo secco, attutito dall’acqua, era il segnale dell’avvenuto ammaraggio. Dopo alcuni minuti il rumore delle pale degli elicotteri venuti a recuperare Tom e la capsula sciolse la tensione residua.
Tom respirò a fondo. «Bene, fra poco saprò in quale dimensione sono precipitato», fu l’ironica, conclusiva battuta, che spazzò via dalla mente gli ultimi rimasugli di tensione.
Già… chissà in quale dimensione era precipitato, l’astronauta Tom Hans…
FINE
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Ciao Atrebor.
Giancarlo.