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Una storia di paese( La fermata sbagliata)

Il vagone sul quale Rosalia aveva preso posto, era quasi vuoto, i sedili erano scomodi e dall’aspetto trasandato. Il vecchio treno regionale era sporco e puzzava di sudore e di terra. Era uno di quei convogli che portavano i braccianti agricoli nei grandi latifondi, dove venivano coltivati i pomodori.
Mentre il treno s’allontanava, l’angoscia aumentava sempre di più, stringendole le viscere in una morsa, all’improvviso una fitta dolorante al basso ventre, la fece contorcere dal dolore, per fortuna durò solo pochi attimi, ma questo bastò a sconvolgerla. Si accarezzò la pancia dicendo: ”Aù nicarìeddu nun jè chi mi vvoi fare ‘n bruttù scherzo?”
Poi si ricordò di non avere mangiato nulla e sicuramente, quelli potevano essere anche i morsi della fame, prese una grossa arancia e cominciò ad addentarla con gusto, il succo le colava dalla bocca e lei si ripulì con un gesto buffo come fanno i bambini, con il dorso della mano.
Dopo poco il treno si fermò in un’altra piccola stazione, dove salirono alcuni passeggeri. Fra questi un uomo in compagnia di una donna e di due bambini, questi le chiese: ”Scusate jè libero?” Rosalia fece cenno di si e l’uomo dopo aver sistemato il bagaglio si sedette. La donna che era con lui, presumibilmente la moglie, pur essendo ancora giovane, aveva il viso segnato dal sole e le mani indurite dal lavoro nei campi, questa stava zitta come si conveniva ad una femmina, teneva in braccio la figlia più piccola, che le cingeva forte il collo e fissava Rosalia, che le sorrise, ma la bimba spaventata, si aggrappò ancora di più alla mamma. Invece il bambino stava seduto dritto accanto al padre, con l’aria seria di chi è più maturo della sua età e di chi già sa come comportarsi.
Rosalia li osservava, domandandosi se mai anche lei in futuro avrebbe avuto una famiglia tutta sua. Erano appena ripartiti, quando l’uomo prese il tabacco e si preparò una sigaretta, l’accese aspirando profondamente.
Rosalia vedendolo le venne voglia di fumare così se ne accese una anche lei. Non l’avesse mai fatto, l’uomo la guardò come se avesse compiuto chissà quale misfatto, una donna che fuma in pubblico, non sia mai… non è una donna seria ed esclamò con disprezzo: ”Amuninni ca si respira aria lorda!”
A quel punto lei non riuscì a stare zitta e gli sbraitò: ”E’ già vuatri uomini putiti fari tuttu chiddu chi vulite, nuatri donne no, vìerù? Ma unni cc’è sta scritto?”
L’uomo alterato ribatté: ”Megghiù chi vi stati zitta farete mìenu danni.”
Così dicendo spinse la moglie verso il corridoio gridando ancora ”‘Uora macari (anche) i pulci hannu a tosse.”
Rosalia aprì il finestrino, aveva bisogno d’aria, si sentiva soffocare dalla rabbia…, lei no… non si sarebbe mai rassegnata a subire i pregiudizi della gente e a sottostare alle loro regole retrograde e maschiliste. S’appoggiò esausta, cercando di calmarsi, ripensò a Saro, alla sua bocca calda, che dolcemente accarezzava la sua pelle accalorata dalla passione ed ai momenti in cui tutto sembrava sparire, lasciando solo loro due.
La stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò, una voce insistente la stava chiamando: ”Signurina si svegli arrivamu.”
Era il controllore che l’avvisava che erano arrivati. Aprì gli occhi, non sapeva dove fosse ma poco importava, ciò che veramente contava era essersi allontanata il più possibile. Ed infatti per lei che non si era mai spostata, quel luogo le sembrava lontanissimo, era l’ultimo paese dell’entroterra della Sicilia orientale. Era quasi il tramonto ed il cielo aveva il colore del fuoco, a Rosalia venne in mente che a quell’ora, di solito usciva in terrazza e stava a guardare il sole che veniva inghiottito dal mare, affascinata da tanta bellezza.
Allontanò questi pensieri che la rattristavano e si avviò nel sottopassaggio, quando qualcuno la chiamò: ”Rosalia…Rosalia…” Lei sorpresa, si voltò guardando l’uomo, questi continuò: ”Nun sì a niputi ri Totuccia? Sunnu Ninu ricordi? Haju travagghiato cu vuatri pi arricùogghiri i arance.”
Rosalia ricordò quell’uomo educato che arrivava sempre prima al campo e se ne andava per ultimo e finalmente rispose: ”Mi dovete scusare…ùora ricordiu, comu stati?”
L’uomo si tolse la coppola in segno di rispetto dicendole: ”Beni beni, piuttosto vuatri chi vi fate cca?”
Lei tentò di non farsi vedere in difficoltà e rispose: ”Sunnu venuta a attruvari ‘na meo cugina, Santuzza.”
Nino continuò dicendo: ”E allura bona permanenza, ma si aviti bisùognu iu staju vicinu a la Cresia do’ Carmine.”
Detto questo si salutarono e lei restò da sola in mezzo alla piccola piazza dove si ergeva un’imponente statua di San Nicola.
Le prime luci dei lampioni si accesero, illuminando le viuzze che si diramavano a ragnatela, fra le case antiche dalle mura di pietre e dai balconi abbelliti di gerani multicolori. Rosalia s’incamminò senza meta, per una di queste vie, la gente incuriosita la guardava dicendo: ”Ma cu jè, nun jè ri chiste parti…”
Rosalia sentiva il peso di quegli occhi indagatori ma non si lasciò intimorire e continuò per la sua strada. Si fermò nei pressi di una fontana per rinfrescarsi, il caldo nonostante l’ora tarda, era insopportabile, giunse una donna con una brocca, Rosalia le chiese: ”Conoscete pi caso ‘npuostu unni pozzu iri a ruormiri? Nun sunnu ri ca.”
Questa la guardò con sospetto, non le piacevano gli estranei soprattutto le donne non accompagnate, rispose con diffidenza: ”Comu mai siti sula a ques’ora? Nun cc’è nuddu chi vi accompagna?”
Rosalia conosceva bene quel modo di pensare, non era bello che una giovane andasse in giro a quell’ora da sola, fece finta di non capire e richiese: ”Allora mu sapete diri unni putìa iri a alloggiare?”
La donna offesa di non aver ricevuto la risposta che desiderava, rispose con astio: ”No, nun conosco nessun posto, iri e vi u trovate.”
Rosalia ribattè: ”Grazzi u stissi, pi chistu nuatri donne nun annamu avanti picchì ci sunnu chidde chi a pensano comu vuatri.”
La donna non rispose e se ne andò di fretta, Rosalia la guardò con commiserazione, pensando a quanto ignoranza ancora ci fosse. Mentre stava per riprendere il cammino sentì qualcuno che sussurrava: ”Ehi dicu a vuatri, mi sìentiri… haju ascoltato sìenza vuliri chi cercate alloggio, venite cu me chi vi indico unni iri.”
Rosalia guardò la giovane che le aveva parlato, aveva più o meno la sua età, una bella ragazza bruna con una lunga treccia che le scendeva sulle spalle, questa continuò: ”Venite cu me… prestu chi si mi vede zia Nunzia, l’avete conosciuta…e certamente nun approva chi vi aiuto.”
Rosalia la seguì giù per una stradina fino ad arrivare ad un grande caseggiato circondato da un giardino incolto…le disse: ”Ecco pi chista notti putiti sistemarvi ca, i proprietari sunnu partiti e mi hannu datu i chiavi pi dargli ‘n’occhiata ogni tantu…ma scusatemi si mi permetto, comu mai da chiste parti?”
Rosalia non sapeva cosa risponderle, poi le inventò una bugia, le disse che era venuta a trovare una parente senza avvisarla e questa era andata nel continente da sua figlia. Continuò dicendo: ”Comunque diamoci del tu, siamo coetanee, io mi chiamo Rosalia e tu?”
“Io sono Masina…Uora haju scappare, vi videmu rumani.”
Rimasta sola Rosalia si guardò in giro, la casa aveva grandi stanze piene di mobili antichi e rosicchiati dai tarli, ma nel complesso non era niente male, tutto era in ordine, segno che Masina andava regolarmente a pulire. Si coricò, sfinita sul primo letto che trovò, pensando che forse aveva sbagliato a fermarsi in quel luogo, sembrava essere più arretrato del suo paese e con questo ultimo pensiero si addormentò.
Fu un sonno agitato pieno di fantasmi e donne vestite di nero che la insultavano: ”Svergognata havi a panza china e sìenza maritu… Deve morir iri fami…”
Si svegliò nel cuore della notte madida di sudore ed il cuore a mille, aveva paura di quello che l’aspettava e per la prima volta, desiderò morire, ma subito dopo si vergognò di ciò che aveva pensato, ora non era più da sola, aveva una creatura da proteggere ed amare.
Il sole non era ancora spuntato quando sentì dei passi, allarmata si nascose, ma tirò un sospiro di sollievo quando si accorse che era Masina. Questa la chiamò: ”Rosalia, sono io ti purtai ‘na tazza fi cafè e n’anticchia ri latte cu ‘n viscùottu, avirrai sicuramente fami da assira.”(da ieri sera)
Rosalia: ”Grazzi havi i raggiuni staiu murennu ri fami.”
Bevve avidamente, mentre Masina la guardava, pensando che non credeva assolutamente a quello che le aveva raccontato, c’era qualcosa di grave che non aveva voluto dirle. Improvvisamente Rosalia le disse: ”Haju bisùognu ri travagghiare, mi po’aiutari?”
Masina rispose: ”Quinni nun jè vìeru chiddu chi mi hai raccontato, ma tranquilla nun vogghiu sapiri nenti, ti aiuterò. Pi ùora stai cca, vìeru cùosa pozzu fari.”
Ritornò dopo circa un’ora dicendo a Rosalia: ”Haju attruvatu poca cùosa ma si ti va beni…Dovresti fari da badante a ‘n vìecchiu chi jè sulu, i figghi sunnu emigrati… c’è compreso vitto e alloggio. Ma ti haju avvisare u vìecchiu stira i mani pi chistu si ni vannu tutte.”
Rosalia rispose: ”Accetto nun pozzu fari a schizzinosa, so comu difendermi…”
Il vecchio, come lo chiamava Masina era un arzillo anziano di 80 anni che di una badante proprio non ne aveva bisogno, quello che gli serviva era solo compagnia.
Don Ciccio appena vide Rosalia esclamò contento: ”Ma chi bìedda carusa (ragazza) chi mi aviti attruvatu, trasi… trasa comu ti chiami? “
Lei rispose: ”Rusalia mi chiamu… Si mi prendete a travvagghiare nun resterete scontento, so fari tuttu.”
Don Ciccio disse: ”Va beni pruvamu, Masina fai vìriri a Rusalia a casa…”
Masina bisbigliò a Rosalia: ”Nzoccu (che cosa) ti avìa rittu? Stai attenta si nun tu vvoi attruvari nta lìettu.”
La stanza di Rosalia era adiacente a quello dell’anziano medico e la sera era costretta a chiudersi a chiave, infatti come l’aveva avvisata Masina questi non perdeva occasione di fare allusioni e toccatine. Rosalia avrebbe voluto staccargli le mani, ma non se lo poteva permettere, prima di avere trovato altro.
Una notte Don Ciccio la chiamò insistentemente: ”Rusalia, Rusalia vèni ca, mi sentu mali, portami dell’acqua fresca, spicciati…” Rosalia era abituata a queste chiamate notturne che poi in realtà era delle scuse per toccarla…anche quella volta andò con calma e gli chiese: ”Don Ciccio ma chi aviti? Vi fa càvuru vi apro a finestra?”
Lui ribattè: ”No vèni ca vicinu a mia, mi sentu accupari(soffocare).
Rosalia disse: ”Si vi sentite accussì mali chamu u medico…”
Don Ciccio disse: ”No, no ma quali medico mi basti tu…”
Così facendo l’afferrò per un braccio e la spinse contro di sé dicendo: ” Comu si bìedda, mi fai pìerdiri a tìesta, vèni vicinu a mia chi ti farò ricca…“
Rosalia si liberò con uno strattone gridando: ”Pi cu mi aviti preso? Vi li putiti tèniri i vostri sordi, mi fate schifu.”
Il medico rispose: ”Nun fari a santa tutti pi paìsi sannu chi si ‘na mala fimmina sula.”
A quel punto Rosalia lo guardò incenerendolo con lo sguardo e disse: ”E tutti pi paìsi sannu chi siti ‘n gran pùorcu.”
Non poteva stare un secondo di più in quella casa, preparò le poche cose personali e uscì sbattendo la porta mentre Don Ciccio urlava: ”Otinni otinni, nun troverai cchiù travagghiu ca, maledetta arrusa.”
Aveva il cuore che le scoppiava, ma doveva salutare Masina, si recò sotto la finestra della sua abitazione, lanciando delle piccole pietre al vetro della sua camera, lei insonnolita s’affacciò dicendo: ”Ma cu jè, chi rompe i cabassisi?”
Rosalia le disse: ”Sunnu io , nun potevo andarmene sìenza apprima salutarti.”
L’amica rispose preoccupata: ” Chi jè successu unni stai iennu?”
Lei rispose: ”Me ni a jiri u capisci?”
Masina scese in strada, abbracciò Rosalia dicendole: ”Mi raccomando riguardati e fammi sapiri unni ti sistemerai.”
Si salutarono e Rosalia si diresse verso la piccola stazione.
Camminava a passo veloce, in giro non c’era nessuno, solo qualche persona alla finestra che non riusciva a prendere sonno per il gran caldo.
Stava attraversando la piazza quando arrivò un furgone per caricare i braccianti e portarli nei campi. Spuntarono all’improvviso come fantasmi dai vicoli donne e uomini pronti per partire. Rosalia cercò di nascondersi ma il suo tentativo fu vano, una voce disse: ” Ma chidda nun jè a badante ri Don Ciccio, e chi ci fa peri peri a quest’ora?”
Un’altra rispose: ”Po ìessiri jè scappata, Don Ciccio i vuleva fari a festa.”
A questa ultima battuta tutti scoppiarono in una risata sguaiata che mortificò ancora di più Rosalia.
Tuttavia tirò dritta per la sua strada anche se gli occhi si riempirono di pianto, non sarebbe rimasta in quel posto nemmeno un giorno di più, purtroppo era caduta dalla padella alla brace.
Ed eccola nuovamente lì, in attesa di quel treno che forse l’avrebbe portata verso la libertà, la libertà di scegliere, di pensare, di costruire il suo futuro di donna e madre.



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Racconto scritto il 03/11/2018 - 08:25
Da Anna Rossi
Letta n.1117 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Racconto avvincente, coinvolgente e molto ben scritto!

Carla Vercelli 04/11/2018 - 17:36

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Sei bravissima Anna...nel raccontare storie di vita! Complimenti anche per il riconoscimento mensile!

Margherita Pisano 04/11/2018 - 15:47

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