Nota dell’autore. Le commemorazioni del 4 novembre si prestano a diverse interpretazioni: grande vittoria, vittoria mutilata, inutile carneficina… questione di punti di vista. Quello che si evince dal racconto, pretende di essere solamente il mio. Buona lettura.
Posando il piede sulla tavola di legno che copriva il gradone di terra ricavato nel parapetto della trincea, issandosi con decisione guadagnò subitamente una quarantina di centimetri in altezza; più che sufficienti a far si che l’imponente busto del generale Alberton (alto di suo ben centonovanta centimetri), incurante dei cecchini appostati a poche centinaia di metri, emergesse dalla trincea.
Un gesto che era solito mettere in atto per stupefare e motivare i soldati, invero non proprio incoscientemente se vogliamo dirla tutta: prima di issarsi come l’asta di una bandiera oltre il parapetto della trincea si premurava di controllare di avere il sole alle proprie spalle.
Tenendo il binocolo ben saldo davanti agli occhi usando entrambe le mani, lo fece scorrere lentamente lungo le linee nemiche. «No! Nessuna tregua, prima di un ultimo assalto… le loro difese sono indebolite, dobbiamo insistere ora!» sentenziò poi, tornando al riparo.
«Mi scusi se insisto, generale, la tregua è stata proposta dal comando austriaco dopo l’ultimo assalto, una carneficina immane. Durante il contrattacco anche loro hanno lasciato un numero considerevole di morti e feriti nella terra di nessuno…» provò ad argomentare sommessamente il capitano Gladio.
«Capitano Gladio!» proruppe il generale interrompendolo. «Lo so bene chi ha proposto la tregua per recuperare morti e feriti! Il più debole! Mi faccia capire, capitano: fino a ieri di lasciare i feriti a rantolare nel fango e i cadaveri a marcire sul filo spinato, non se ne erano mai preoccupati; ed ora che sono in palese difficoltà, che li teniamo in pugno, secondo lei dovrei lasciare loro il tempo di riorganizzarsi?»
Il capitano scosse il capo. «Non sto dicendo questo… li sente?» chiese tendendo l’orecchio, indicando con sguardo agghiacciato il pezzo di terra sopra le loro teste che separava le trincee; poco più di duecentocinquanta metri imbibiti del sangue dei morti e dei feriti gementi.
«La smetta! Capitano Gladio!» urlò con tono roboante il generale corrugando le spesse sopracciglia, grigie come i grassi baffoni risorgimentali vibranti di rabbia. «Se ne freghi della pietà! In tempo di guerra, è un lusso che non ci possiamo permettere. Un soldato che muove a pietà udendo i lamenti dei feriti nel mezzo della battaglia, è destinato a soccombere! Dopo l’assalto, quando avremo scacciato il nemico dalle sue postazioni ci saranno, oltre alla gloria, altri morti e feriti da raccogliere… faremo tutto un conto al termine della proficua giornata. Lei è giovane e inesperto, la sua compagnia è in prima linea da appena quindici giorni, e già da domani tornerà nelle retrovie per il primo avvicendamento. Lì troverete il tempo per piangere i camerati lasciati sul campo di battaglia, per riflettere e temprare il carattere. Quando tornerete, la pietà l’avrete sepolta accanto all’eroico camerata immolatosi per difendere i sacri confini» concluse usando, agli occhi dell’esterrefatto capitano, un’insopportabile retorica patriottica. Poi, tirando indietro la manica del pastrano militare, diede un’occhiata all’orologio. «Tra un quarto d’ora ordinerò all’artiglieria di battere a tappeto le linee nemiche. Quando terminerà il tiro di obici e mortai lanceremo l’assalto finale alle trincee nemiche… venga qui!» ordinò sporgendosi nuovamente dalla trincea.
Il capitano esitò. «Non abbia timore di mostrare il petto al nemico, capitano!» lo redarguì duramente l’impettito generale.
Il capitano sporse timidamente il capo coperto dall’elmetto: a differenza del generale che indossava solo il berretto da alto ufficiale.
«Il suo compito è di mettere a tacere al più presto quel nido di mitragliatrici laggiù. Mi aspetto che faccia un ottimo lavoro… ora vada a motivare i suoi uomini. In bocca al lupo, capitano Gladio!» ordinò, indicando la porzione di trincea nemica assegnata alla compagnia del capitano, prima di tornare al coperto.
«Crepi il lupo! Signor generale!» esclamò il capitano scattando sull’attenti, anche se, in cuor suo, l’avrebbe mandato allegramente a quel paese.
“Contadini, operai, brava gente prestata alla guerra che, impaurita, maledice il patriottismo tronfio di frasi e vuoto di contenuti che ci ha cacciato dentro questo inferno” pensava il capitano Gladio, osservando i suoi uomini rannicchiati nel fango sul fondo della trincea, a respirare miasmi di piscio e merda abbracciati al proprio fucile, mentre l’artiglieria martellava le postazioni nemiche.
“In quindici giorni, quasi un terzo di loro se n’è già andato al Creatore… quanti ne riporterò nelle retrovie domani?” si chiese facendo un rapido calcolo mentale: sottraendo ai duecento soldati inizialmente facenti parte della compagnia i settanta lasciati a marcire nella terra di nessuno.
La guerra, quella vera, anche per lui si era rivelata tutt’altra cosa di quella studiata all’accademia militare; le tattiche messe in atto sulla carta o durante le manovre in tempo di pace, alla prova dei fatti si erano rivelate inconsistenti giochi di guerra tra bambini cresciutelli.
Il capitano Gladio era uscito dal corso ufficiali con le stimmate del predestinato; eppure Il battessimo del fuoco, avvenuto appena due giorni dopo aver schierato la sua compagnia in prima linea, lo aveva traumatizzato a tal punto, da spingerlo a promettere a Dio che se l’avesse aiutato a portare a casa la ghirba, alla fine di quella carneficina mondiale avrebbe gettato alle ortiche la luminosa carriera militare che, in tempo di pace, i superiori gli avevano pronosticato.
Tutta colpa di quella testa, quel volto sporco di fango arrivato da chissà dove e rotolato ai suoi piedi sul fondo della trincea quell’uggioso tardo mattino, che gli si riproponeva ogni notte come un incubo: nel sogno si vedeva intento a raccoglierla incuriosito, a pulirla dal fango e rimanere agghiacciato notando emergere i lineamenti del proprio volto che subitamente si decomponeva, lasciandogli tra le mani un teschio putrescente.
Un tormento senza pari per il povero capitano; eppure, nei giorni a seguire, andando inutilmente all’assalto della trincea nemica, ne aveva calpestati di cadaveri, ne aveva visti di corpi orrendamente mutilati spargere sangue e urla di dolore nella terra di nessuno. Ma quella testa caduta ai suoi piedi il primo giorno che aveva assaporato l’acre sapore della guerra, colto come un gramo presagio, aveva annichilito fin da subito il suo ardore guerriero.
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Di primo mattino, il sette novembre, sotto una pioggerellina leggera, dopo che l’artiglieria aveva martellato per ore le linee nemiche, il capitano aveva dato il segnale d’attacco infilando tra le labbra il fischietto che teneva nella mano sinistra; poi, con la pistola ben stretta nella destra, aveva saltato il parapetto insieme ai suoi uomini e aveva iniziato a correre zigzagando tra i reticolati.
Gli austriaci, uscendo a loro volta dalle trincee, avevano contrattaccato respingendo l’assalto.
Dello scontro, durato una trentina di minuti, era rimasto solo l’odore acre della polvere da sparo e un silenzio irreale; rotto, qua e là, dai lamenti dei feriti di ambo le parti lasciati sul terreno.
Un’atmosfera da brividi, rotta poco dopo dall’artiglieria austriaca che aveva iniziato a tirare sulle postazioni nemiche.
C’era chi pregava, chi piangeva, chi bestemmiava e chi mandava un ultimo saluto alla madre, alla moglie o ai figli, tra i soldati che, appiattiti contro il parapetto della trincea, stringendo il fucile con la baionetta innestata attendeva che il bombardamento cessasse.
Un tiro di mortaio, impattando a pochi metri dalla trincea, aveva lanciato in aria e poi all’interno di questa, insieme a una gran quantità di fango, la testa mozzata di un soldato: probabilmente decapitata dal cadavere di un militare, caduto a pochi metri dalla trincea durante il contrattacco austriaco, dalla bomba di mortaio che lo aveva centrato.
«Capitano! Capitano!» aveva urlato agitandosi un giovane militare, indicando con mano tremante la testa rotolata ai suoi piedi che pareva fissarlo nello sguardo.
«Non è un fantasma, e non è dei nostri! Calmati!» aveva provato a tranquillizzarlo il capitano indicando l’elmetto che, ben allacciato sotto il mento, era rimasto ben calcato sulla testa caduta dentro la trincea. «Qualcuno la prenda e la butti fuori!» aveva aggiunto.
Nessuno dei soldati prossimi al macabro volto dagli occhi sbarrati si era mosso.
Allora il capitano, abbassandosi, lo aveva afferrato con due mani; ma nel mentre lo alzava per lanciarlo oltre il parapetto, gli era parso di vedere il proprio volto cereo disteso nel fango, riflesso nell’iride di quegli occhi azzurri carichi di terrore; per un lungo, interminabile attimo, era rimasto immobile con gli occhi fissi dentro quelli della testa tenuta ferma a pochi centimetri dal proprio volto. Poi, dopo aver derubricato l’accaduto a presagio di morte, l’aveva lanciata con rabbiosa veemenza oltre il parapetto.
Fu il ricordo sempre più vivido di quella visione e del presagio in essa contenuto che, tormentando l’inconscio, lo aveva destabilizzato a tal punto da generare il suo incubo ricorrente.
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Mentre i tiri dell’artiglieria, dopo alcuni colpi sporadici per aggiustare la traiettoria, s’intensificavano, il capitano vide un soldato osservare con sguardo meditabondo la baionetta innestata sotto la canna del suo fucile. “La carnagione chiara e le efelidi da ragazzino sfacciato, mal si accoppiano al ruolo che è chiamato a svolgere, alla paura e ai pensieri di morte che continuano a martellare la sua mente” rifletteva il capitano, rammentando lo scambio di opinioni avuto con lui dopo il primo sanguinoso scontro con il nemico.
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Dopo il battesimo del fuoco, mentre cercava di motivare un drappello dei sui sconfortati uomini, dicendo loro che la guerra sarebbe stata comunque vinta in tempi brevi, azzardando un improbabile: «Forse, anche entro Natale!» Il soldato con le lentiggini era saltato su, domandandosi: «Quanti di noi saranno ancora vivi, a Natale?» Poi si era rivolto con sfacciato sarcasmo al suo capitano: «Mi dica, capitano… lei è davvero sicuro di arrivare a festeggiare, se non la vittoria perlomeno il Santo Natale? Se sì, mi faccia capire: ha fatto forse un patto con Dio… o più probabilmente con il demonio? E quali sarebbero i termini dell’accordo, le nostre anime in cambio della possibilità di scavallare, perlomeno questo Natale? Se il patto è questo… beh, io non sono per niente d’accordo. Se permette, gradirei decidere in autonomia in quali mani lasciare, se non la vita, almeno l’anima!»
Il capitano, non trovando le parole giuste per imbastire una risposta all’altezza della domanda, si era ammutolito. Dopo aver riordinato le idee, e averlo informato che il suo modo sfrontato di rivolgersi a un superiore avrebbe potuto procurargli guai seri; ma che per questa volta, visto il contesto particolare, avrebbe fatto mostra di non aver sentito; aveva ripiegato chiedendo al milite quale fosse la sua professione in tempo di pace.
«Universitario… studente di filosofia, capitano!» aveva risposto questi gonfiando il petto.
«Uhm… materia ostica, complimenti!» aveva commentato il capitano corrugando la fronte. Poi, indicando il fucile che il soldato teneva tra le mani, aveva sentenziato sarcastico: «Non so in tempo di pace, ma in tempo di guerra, sicuramente meno utile di quella baionetta!»
«Concordo; inutile per combatterle, ma utile ad evitarle, le guerre, capitano» aveva ribattuto a tono il soldato.
Al che, il capitano aveva chiosato, sorridendo amaramente: «Allora cerca di non crepare, soldato! Né ora né dopo Natale. E una volta finita la guerra, vedi di laurearti al più presto… così portai evitare all’umanità la prossima e più cruenta carneficina» poi lo aveva salutato militarmente e se n’era andato alla riunione degli ufficiali.
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Ed ora, ripensando a quello scambio di battute, domandandosi quanti di quei ragazzi sotto il suo comando sarebbero arrivati a festeggiare il Natale, si era scoperto a chiedersi se lui stesso sarebbe sopravvissuto al prossimo, imminente assalto alla trincea nemica.
“Non sembra nemmeno novembre. Sarebbe un vero peccato andarsene in una giornata così” realizzò guardando il cielo finalmente terso dopo tre giornate di pioggia battente.
Quando i tiri d’artiglieria si fecero più radi, i soldati si appostarono a ridosso del parapetto; poi i comandanti delle compagnie che presidiavano la trincea, fischiando quasi all’unisono, diedero l’ordine di attaccare; allora i militari balzando allo scoperto, come tante formiche da un formicaio serpentiforme, iniziarono a correre sul terreno fangoso verso le postazioni nemiche, calpestando cadaveri e feriti dello scontro precedente.
Il capitano Gladio e la sua compagnia, ottemperando agli ordini ricevuti, avanzando a fatica nel fango puntarono dritti sull’obiettivo loro assegnato, sfidando il tiro incrociato delle mitragliatrici che, falciandoli come grano maturo, nel volgere di pochi minuti li decimò.
«Maledizione! Cercate un riparo! Buttatevi a terra!» urlava il capitano vedendo i soldati accanto a sé cadere come birilli.
Lui stesso, dopo essere stato colpito di striscio ad un braccio, si buttò dentro una buca scavata, chissà quando, dai tiri d’artiglieria che, da mesi ormai, come in un interminabile e inconcludente tie-break, le parti in conflitto si scambiavano ostinatamente.
Disteso supino nel fango, con gli occhi sbarrati a fissare un cielo che più azzurro non si poteva, attraversato da volute di fumo; con negli orecchi la cacofonia delle esplosioni e del canto sincopato della mitraglia; realizzò che la sua guerra sarebbe terminati lì, dentro quella buca: e allora paura e sconforto finirono per generare un effetto straniante.
«Chi mi chiama?! Il demonio?! Sono precipitato all’inferno… cosa vuoi da me?» straparlava ansimando, udendo una voce flebile e sofferente chiamarlo insistentemente.
«Capitano… signor capitano… capitano… sono io… capitano…» era un doloroso lamento, e proveniva da un inferno vero e presente.
Volgendo lo sguardo alla propria destra lo vide, rannicchiato in posizione fetale con le mani insanguinate strette sul ventre: non era il demonio ma bensì un soldato della sua compagnia gravemente ferito.
«Tu!» proruppe incredulo. Chiunque, ma non il soldato dalle lentiggini avrebbe pensato di trovarsi accanto in quella buca.
«Capitano… sto morendo…» fece lui con voce lamentosa e i lineamenti stravolti in un’espressione d’insopportabile dolore.
«Sei ferito? Fammi vedere!» replicò il capitano, provando a scostare le mani che il soldato teneva strette sul ventre.
Ma questi, stringendole con più forza, non glielo permise. «Lasci perdere, capitano… se tolgo le mani, usciranno le budella.»
Il capitano, rabbrividendo, annuì serrando la mascella. «Va bene, cerca di resistere» disse poi, prima di alzare con circospezione il capo oltre il bordo della buca per osservare cosa stesse accadendo.
«L’assalto è fallito, i nostri stanno ripiegando…» spiegò tornando al coperto «se quell’incapace del generale Alberton non cambierà idea, poi dovrebbe accettare la tregua per raccogliere i feriti…»
«Stia attento, capitano, se i suoi apprezzamenti dovessero giungere all’orecchio del generale… quell’incapace sarebbe capace di mandarla davanti al plotone di esecuzione» lo interruppe con sarcasmo, disegnando un sofferto sorriso.
«E chi glielo andrà a dire, tu? Sarebbe la tua parola contro quella di un ufficiale… non ti converrebbe, ci finiresti tu davanti al plotone d’esecuzione» replicò sorridendo il capitano. Poi, battendogli una mano sulla spalla, provò a confortarlo: «Non ti agitare, soldato! Non farti prendere dal panico, tra poco i barellieri verranno a prenderti. Stasera te ne starai a farti coccolare dalle infermiere nel letto di un ospedale.»
Il soldato con la faccia da ragazzino scosse il capo. «Non ci arriverò all’ospedale, capitano… per me è finita…»
«Ti proibisco anche solo di pensarlo!» proruppe interrompendolo il capitano. «Tu vivrai! Tornerai ai tuoi amati studi… e contribuirai a far si che in futuro, nessuno più debba mettere sul piatto di un inutile conflitto la sua giovane vita.»
«Non può nemmeno immaginare quando mi spiaccia deluderla…» disse a fatica con una punta di sarcasmo. Riprese fiato e concluse ansimando: «Non riuscirò a festeggiarlo il prossimo Natale… peccato, avevo programmato in tutt’altro modo il futuro… mi sa che dovrò rivedere i miei piani…» Sgranando gli occhi all’inverosimile inspirò profondamente; poi, espellendo l’ultimo refolo d’aria rimasta nei polmoni, concluse con un filo di voce arrochita: «E’ così illogico morire in questo modo stupido… che se ne avessi la forza… mi prenderei a schiaffi…» piegò la testa alla sua destra, chiuse gli occhi e si lasciò scivolare nel fango.
«Non lo fare, non lasciarti andare! Reagisci, soldato!» urlò concitato il capitano, scuotendolo vigorosamente afferrandolo per le spalle.
Questa volta il soldato non replicò… non lo poteva più fare.
Il capitano, guardando il volto, ora sereno, del giovane militare, da buon cristiano recitò una preghiera. Poi, sistemandosi all’altro lato della buca, in attesa che, se non la tanto agognata tregua umanitaria per recuperare morti e feriti, arrivasse perlomeno la notte per tentare di rientrare dietro le proprie linee, si mise a riflettere sulla stupidità degli ordini emanati da generali impettiti a caccia di gloria e potere; disposti a mandare al macello tante giovani vite per conquistare pochi metri di fronte, che probabilmente avrebbero dovuto cedere davanti al conseguente contrattacco.
La tregua umanitaria, accettata da ambo le parti, scattò nella luce crepuscolare di un vivido tramonto; un silenzio irreale accompagnava i barellieri dei due schieramenti che sfiorandosi percorrevano in silenzio la terra di nessuno alla ricerca dei propri caduti.
Il capitano, ferito solo di striscio, riparò dietro le linee camminando lentamente; scrutando tra i morti e i feriti che incontrava lungo il percorso, riconobbe in quei volti terrei molti dei suoi uomini. «Quando finirà quest’inutile massacro?» si domandò con voce rotta, osservando con sguardo sconvolto corpi straziati sparsi in ogni dove.
L’imponente figura del generale Alberton, in piedi all’esterno della trincea, osservava imperturbabile le operazioni. Il capitano passandogli accanto lo salutò militarmente; poi, superandolo, espresse con voce mesta, scuotendo il capo, la propria delusione nei confronti del superiore: «Erano in palese difficoltà, li tenevamo in pugno, non dovevamo lasciare loro il tempo di riorganizzarsi, eh? Stronzate!»
Il generale, sentendosi colpevolizzare, si volse. «Si fermi! Capitano Gladio!» proruppe irritato.
Il capitano arrestò il passo, senza peraltro volgere lo sguardo in direzione del generale; il quale lo apostrofò con rabbia: «Se gli ufficiali inetti e i soldati vigliacchi, pronti a disertare alla prima occasione, non fossero tutti dalla nostra parte… questa guerra sarebbe già stata vinta!»
«Ah sì?!» esordì il capitano volgendo appena lo sguardo, quel tanto bastante per osservare di squincio il volto livido del generale Alberton; poi indicò con il braccio teso e l’indice tremante la terra di nessuno. «Lo vada a dire a quelli che giacciono laggiù» aggiunse con voce fremente.
«Glielo vada a spiegare lei ai suoi uomini, perché non è rimasto là, insieme a loro!» ribatté acido il generale.
«Dunque, è questo…» fece il capitano, avvicinandosi con i pugni serrati al generale. «La mia colpa sarebbe quella di non essermi fatto ammazzare durante quel sciagurato assalto… e per questo, secondo il suo personale metro di misura, sarei un vigliacco.»
«E’ una sua interpretazione, io non l’ho mai affermato!»
«No, ma l’ha pensato… il che è anche peggio» ribatté in tono disgustato il capitano. Serrando la mascella e trattenendo a stento la rabbia dentro ai pugni fece per andarsene. “No questa non gliela posso lasciar passare a quel bastardo” pensò nel mentre. Si avvicinò ad un alito dal suo sguardo e, digrignando i denti, sibilò: «Durante il prossimo assalto alla baionetta, vorrei tanto averla accanto a me, per vederla all’opera in mezzo alla battaglia, come si addice ai veri condottieri… E se dopo aver udito i proiettili sibilare attorno alla sua testa, farà mostra di fermarsi, o, peggio, di darsela a gambe levate… giurò che la prenderò per un orecchio e la farò avanzare a calci in culo… caro il mio grande, eroico generale!» poi girò sui tacchi e si allontanò.
«Questo le costerà molto caro! La deferirò alla corte marziale per violazione della disciplina militare!» urlava l’iracondo generale Alberton, mentre il capitano Gladio, camminando lentamente, si avvicinava al parapetto della trincea.
Lì giunto, si voltò. «Vada al diavolo, generale Alberton» chiosò sommessamente, lasciandosi scivolare dentro la trincea.
FINE
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