Son seduto qui da mezz’ora, con lo sguardo fisso sui campi che scorrono di lato e, nonostante la malinconia, ancor non riesco a trattenere il riso se penso allo sguardo allibito del tipo della biglietteria alla stazione; al quale, dopo che mi aveva chiesto con fare annoiato dove volessi andare, risposi con distacco: «Dove arriva il primo treno in partenza, fosse anche all’inferno, mi andrà benissimo!»
Già, tanto mica sono intenzionato ad arrivare sino al capolinea. Alla prima stazioncina con un nome caruccio, scendo e mi sistemo per un po’… Giusto il tempo per passarci un altro spicchio di vita senza lasciarsi alle spalle troppi ricordi… rimpianti… o, peggio, rimorsi!
Sono più di dieci anni che scappo via da momenti di felicità, prima che incancrenendosi mutino in dolore.
L’errore mio, come quello di ogni bambino, credo, fu quello di pensare che il tempo felice che porta seco la fanciullezza sarebbe durato in eterno; ponendoci al riparo dal dolore.
Per quel che mi riguarda, la grande illusione si concluse drammaticamente quando la morte si portò via l’uomo, l’amico, il familiare a me più caro. Avevo dodici anni quando il mio vecchio nonno, con il quale trascorrevo le giornate nei campi e le serate davanti al focolare, se ne andò repentinamente lasciandomi sgomento… Ecco, quel mattino di luglio all’ombra della vecchia quercia, compresi cosa fosse veramente il dolore. E mentre mio padre mi allontanava, in lacrime anch’esso, da quel vecchio che sembrava dormire appoggiato al tronco, giurai a me stesso che non avrei più lasciato alla felicità il tempo di mutare in cupo rimpianto… Erano solo pensieri rabbiosi di un bambino, che il tempo dell’adolescenza e poi della giovinezza avrebbero potuto lenire, oppure alimentare.
Non spettava a me scegliere su quale strada indirizzare le mie paranoie. Sarebbero state le circostanze a decidere il cammino che mi ha portato dentro l’ennesimo vagone di seconda classe, per paura di soffrire.
Fu dopo la morte di mio nonno che iniziai a pormi domande, chiedendomi perché i miei genitori mi trattassero quasi con fastidio: più mio padre che mia madre, a dire il vero. Sì, c’erano anche i miei due fratelli; ma loro, data la differenza d’età (erano più grandi di sei e sette anni) e gli studi da portare avanti, mica potevano mettersi a giocare con me.
Mio padre faceva il mugnaio, ed essendo il vecchio mulino di famiglia sito in aperta campagna e a un’ora abbondante di cammino dal paese, era difficile per me frequentare gli amici al di fuori dell’ambito scolastico; anche perché mio padre pretendeva che, dopo aver fatto i compiti assegnatomi dalla maestra, lo aiutassi nel suo lavoro.
«Questo qui ha braccia forti e pelo rosso, è buono per lavorare, non per studiare!» l’ho sentii rispondere, mezzo sbronzo, con quella sua voce cavernosa, consona all’aspetto burbero che incuteva timore, a mia madre che gli chiedeva se avesse deciso cosa fare con me dopo le scuole dell’obbligo.
Che avessi braccia forti era palese. Ero grande e grosso il doppio, sia dei miei mingherlini fratelli che di mio padre, e sovrastavo di una volta e mezza l’etera figura di mia madre. Ma il significato del pelo rosso, continuava a sfuggirmi. “Forse i capelli rossi ispidi, l’incarnato chiaro e le efelidi, gli ricordano i possenti guerrieri vichinghi”, pensai, guardandomi allo specchio.
Così, grazie al fisico prestante… e forse pure al malpelo; terminata la scuola dell’obbligo, mentre i miei fortunati fratelli frequentavano l’università, oltre ad essere spedito a fare il manovale da un amico muratore di mio padre, una volta tornato a casa dovevo darmi da fare con le macine.
V’erano delle sere che, subito dopo cena, dovevo tornare nel mulino e darmi da fare sin oltre la mezzanotte per terminare di riempire i sacchi di farina che mio padre si era impegnato a consegnare il mattino seguente al cliente.
«Il lavoro, ringraziando Dio, non ti manca, perché non assumi un aiutante?» provai a chiedergli un tardo pomeriggio, quando rincasando esausto dopo aver trascorso l’intera giornata sopra un tetto, sotto un sole che spaccava i sassi, lo vidi farsi incontro, non per chiedermi come mi sentissi, ma bensì per ordinarmi di riempire venti sacchi di farina.
«Qua dentro, non voglio vedere estranei!» sbottò rabbioso, sputando per terra.
«Di cos’hai paura, che si porti a casa un po’ della farina che gli resta appiccicata addosso al sudore?» replicai con ironia, sorridendo.
«Cosa ridi, cretino!» mi urlò dietro, lasciandomi allibito. Poi, abbassando il tono concluse: «L’ultimo aiutante che ho assunto, s’è preso ben altro che un po’ di farina… I venti sacchi devono essere pronti prima di cena, avanti! Datti da fare!» E se ne tornò in casa a capo chino.
Cosa si fosse preso di così prezioso, d’accenderlo ancora d’ira rammentando, non lo disse; ma io lo scopersi per puro caso tre anni dopo.
Allora avevo ventidue anni e dopo una dura giornata di lavoro come muratore, mi ero attaccato alla macina per un altro paio d’ore prima di cenare e, subito dopo, tornare nel mulino a riempire altri dieci sacchi di farina.
Rammento che era una serata particolarmente afosa, per questo tenevamo l’uscio e le finestre della cucina che guardavano all’interno della corte spalancate. Uscendo dal mulino per recarmi nel magazzino a prendere i sacchi da riempire, udii mia madre dire a mio padre: «Non lo puoi trattare come una bestia, è tuo figlio!»
E lui chiedergli, con la solita rabbia: «Lo puoi giurare su Dio, che è davvero mio?»
«Sei una bestia!» l’urlo trattenuto di mia madre mi spinse ad avvicinarmi alla parete per sbirciare dalla finestra: mio padre era seduto con le braccia appoggiate sul tavolo, davanti a lui un bicchiere di vino rosso pieno fino all’orlo e un fiasco mezzo vuoto, mentre mia madre lo osservava in piedi dal lato opposto.
«Giurami che è mio figlio, se lo puoi fare», insistette mio padre, tracannando il vino dal bicchiere.
«Finiscila! Sei ubriaco!» fece lei, portando via il fiasco dal tavolo, prima che lui avesse il tempo di riempire un altro bicchiere.
«Rimettilo al suo posto!» ribatté mio padre, pestando l’indice sul tavolo.
«Non se ne parla!» replicò a tono lei, posando il fiasco sulla credenza. «Tutte le volte che ti ubriachi, ci va sempre di mezzo quel povero figliolo… Danilo è figlio tuo, fattelo entrare in quel crapone una volta per tutte!»
«Ah sì?» fece mio padre, alzandosi ciondolando dalla sedia. Prese il fiasco dalla credenza e tornò a sedersi. «Io avevo capelli neri, tu pure, Osvaldo e Franco, anche… ora prova a spiegarmi perché Danilo, oltre ai capelli ha preso pure il fisico di quel poco di buono che assunsi giusto ventiquattro anni fa?» diceva mentre si riempiva il bicchiere.
Mia madre scosse il capo e provò ad allontanarsi, mentre io, appiattito contro il muro, iniziavo a capire.
«E’ no, non te la cavi così!» proruppe mio padre, afferrandola per un braccio.
«Lasciami bestione! Mi fai male! Non c’è stato niente tra me e Ambrogio!» urlava con voce stridula.
«Come lo puoi dire, dopo che vi ho beccati nudi dentro il nostro letto!» urlò più forte lui, assestandole un manrovescio che l’ammutolì.
«Fermati papà, sei impazzito!» urlai a mia volta, entrando in casa, tirandolo via prima che potesse colpirla ancora.
Attesi che gli animi si calmassero, prima di chiedere ad entrambi: «Si può sapere cosa sta succedendo?»
Mia madre, vergognandosi come una ladra, stringendo il volto tra le mani corse in camera.
Mio padre, invece, dopo aver ingollato l’ennesimo bicchiere si levò finalmente il macigno che teneva dentro, raccontandomi l’intera faccenda.
«Ambrogio… è morto?» provai a chiedergli alla fine.
«Perché t’interessa saperlo?»
«Vorrei vederlo… per capire, se non tuo, di chi sono figlio», risposi confuso.
«Non serve che lo veda… guardati allo specchio, sei uguale a lui… è questo che mi manda in bestia. Osservandoti mentre lavori alla macina, vedo lui che mi saluta mentre io vado in paese… per ritrovarlo dentro il letto, con tua madre, al ritorno.»
«Dimmi la verità, papà… tu mi odi?» gli chiesi allora.
«No, odiarti no… ma nemmeno riesco ad amarti», fece, scuotendo il capo.
«Ti ringrazio per essere stato sincero», mormorai con voce increspata, ritirandomi in camera mia.
Riflettei l’intera notte sul da farsi. Ora sapevo che non avrei mai più potuto essere felice dov’ero nato; così raccattai le mie cose e le buttai dentro la valigia, presi il libretto di risparmio sul quale vedevo crescere piano piano il frutto del mio duro lavoro, il contante che tenevo nel cassetto e, infine, scesi a salutare mia madre.
«Tornerai?» mi chiese lei con le lacrime agli occhi.
«No, non tornerò!» risposi lapidario, senza tradire nessun tipo d’emozione.
«Ti voglio bene, Danilo», fece lei, abbracciandomi.
La staccai da me e, fissandola negli occhi, le chiesi: «Ambrogio, chi è?»
Sospirò, rifletté un attimo e rispose: «Ora lavora come barista, all’osteria del cacciatore».
«Grazie, mamma», dissi salutandola, lasciando per sempre il vecchio mulino.
L’osteria del cacciatore era sita fuori paese, lungo il percorso che portava alla stazione; così, essendo di strada, ne approfittai per vedere in faccia il mio presunto padre.
A quell’ora l’osteria era deserta; mi avvicinai, posai la valigia fuori dall’ingresso e, con il cuore che mi batteva a mille, spinsi la porta ed entrai: il barista, un uomo alto e corpulento, era dietro il bancone.
Mi accostai e lo ripassai dal basso verso l’alto, arrestando lo sguardo nei suoi occhi, azzurri come i miei; i capelli ora erano bianchi e ispidi, ma le efelidi sul volto rubizzo certificarono l’antico colore.
Lui rimase immobile senza fiatare, e il palpabile imbarazzo mi fece desumere che avesse ben compreso chi avesse davanti.
Più che sorridere, ghignai. Poi senza proferire verbo me ne andai.
La felicità che andavo cercando, non era sicuramente nel suo sguardo vacuo. Ora ero certo: non sarei mai più tornato indietro!
Il treno su cui ero salito andava lontano, molto lontano; ed io, mi ero accomodato in carrozza deciso a non scendere prima del capolinea.
No, non fu l’invitante nome del paese, scritto sul muro scalcinato della stazioncina, a consigliarmi di scendere una quarantina di chilometri appena da dove ero salito; ma la scritta a caratteri cubitali appiccicata all’esterno del grande cantiere, che per un lungo tratto procedeva parallelo ai binari della ferrovia, notato poco prima che il treno arrestasse la sua corsa. “ASSUMIAMO MURATORI E MANOVALI”, ci stava scritto.
Voglia di lavorare ed esperienza nel settore edile, non mi mancavano di certo; così fu un gioco da ragazzi farmi assumere dal titolare dell’impresa che aveva vinto l’appalto per realizzare una grande cartiera.
Trovato il lavoro, mentre mi davo attorno per cercare una casa d’affittare, mi sistemai in una pensioncina. Ci passai una settimana dentro l’angusta cameretta senza servizi igienici (il bagno in comune, con altre cinque camere, si trovava in fondo al corridoio), poi, grazie alla dritta di un compagno di lavoro, mi sistemai in una vecchia casa di corte (due locali più servizi) affittata per poche lire, da versare mensilmente: rigorosamente in nero!
Il tempo libero fuori dall’orario di lavoro, che prima, dovendo aiutare mio padre nel mulino, mi era precluso, mi permise di coltivare le prime vere amicizie. Frequentando il “Bar Balestra”, conobbi i ragazzi con i quali, oltre alle partite di biliardo, uscivo il sabato sera per andare in balera.
Eravamo quattro giovani ben affiatati e con una voglia matta di divertirsi senza pensare troppo al domani… così, com’è giusto che sia a quell’età? Boh! Non lo so, ognuno ha il suo modo di vedere e dunque vivere la metamorfosi: l’attimo breve e spensierato che intercorre tra il ragazzo e l’uomo.
Li rammento con affetto i miei primi veri amici: c’era Gino, il figlio del Balestra che lavorava nel bar del padre; Luigi, lo spazzino (oggi nobilitato come “operatore ecologico”) e Silvestro che si arrabattava facendo del facchinaggio per una ditta di traslochi, piuttosto che il giardiniere in nero.
“Quanto durerà questo momento magico?” mi domandavo un sabato notte seduto sul sedile posteriore insieme a Silvestro, osservando Gino alla guida ridere di gusto ascoltando da Luigi la disavventura capitatogli con una ragazza agganciata in balera. “La felicità non può essere eterna, si deve trovare il coraggio d’abbandonarla prima che ti porti a sbattere”, mi risposi, rimandando ogni decisione ad un ipotetico futuro che giudicai ancora di là da venire.
«Mi sa che Luigi l’abbiamo perso», mi disse Gino, mentre da dietro il bancone mi serviva il caffè. «S’è fidanzato ufficialmente», aggiunse amaro.
Così, poco più di due anni dopo il mio arrivo in paese, realizzai che il momento magico si stava rapidamente esaurendo e che, se non volevo soffrire, non potevo attendere inerme che pure Gino e Serafino si sistemassero, prima di adottare le necessarie contromisure.
Un mese dopo, i miei primi veri amici mi accompagnarono in stazione. «Fatti sentire!» si raccomandò Gino, salutandomi.
«Torna a trovarci qualche volta!» aggiunse Silvestro.
«Facci sapere l’indirizzo, così verremo noi!» concluse Luigi mentre il treno iniziava a muoversi ed io, guardandoli dal finestrino, annuendo commosso a tutti loro, pensavo: “Non ci vedremo più, ragazzi… la felicità è un momento irripetibile, replicabile solo andandosene prima che decada in dolore”.
In sette anni attraversai altri tre momenti di felicità, abbandonati prematuramente, lasciandomi alle spalle paesi e amici nel timore che il breve sentore di serenità franasse trascinandomi in un vortice d’insopportabile dolore, prima di giungere alla stazione da dove oggi, dopo quasi tre anni, sono salito sull’ennesimo treno; abbandonando un’illusione, o parvenza di felicità, molto più corposa di quella elargita dalla semplice amicizia.
“Il glicine fiorito che s’arrampica sulla staccionata che separa la massicciata dai campi, emana sentore di serenità”, pensai quando il treno si arrestò nella graziosa stazioncina. E tanto bastò a farmi decidere di fermarmi almeno un paio di giorni per verificare “de visu”, come si suole dire, se la prima impressione fosse quella giusta.
Poi fu la grande gentilezza, la disponibilità, il modo di porsi dei paesani nei confronti del foresto spuntato dal nulla, a fare la differenza convincendomi ad allungare il soggiorno.
Gente così pronta ad offrirsi per farti sentire fin da subito a casa tua, non l’avevo mai incontrata; quando spiegai al titolare della locanda affacciata sulla piazza, che se fossi riuscito a trovare un qualsiasi tipo di lavoro e una casa in affitto mi sarei stabilito in paese… egli si attivò immediatamente, dandosi da fare (con gli avventori che entravano per un caffè, piuttosto che per un aperitivo, un pranzo o una cena) per trovarmi un impiego consono alle mie esperienze lavorative.
Fatico a rammentarli, gli splendidi momenti del mio miglior vissuto, è ancora troppo fresca la ferita che mi sono auto-inferto; ma almeno questo seppur minimo riconoscimento, lo devo ad amici e semplici conoscenti di questo fantastico posto… Ma soprattutto lo devo a lei, la vittima del mio modo egoista d’affrontare la vita.
E’ sì, lo devo ammettere, se esistesse il paese della felicità… non potrebbe essere che quello appena lasciato alle spalle.
“In quale posto, se non nel luogo dove ho incrociato lo sguardo dell’amore, può essersi stabilita, la felicità?” mi domandavo la sera addormentandomi… sereno? Beh, molto spesso sì… però c’era sempre quel tarlo che non mi lasciava godere appieno dell’attimo.
Convinto che nulla può essere eterno, e men che meno la felicità, mi arrovellai per capire come sarebbe potuto finire questo, per me, nuovo modo d’interpretarla… la felicità.
“Con un tradimento, forse?” iniziai col chiedermi, tornando con la mente al mio concepimento, rivedendo il volto triste di mia madre, sempre e comunque in soggezione quando doveva confrontarsi con quello cupo e rabbioso di mio padre… Già, mio padre… forse lo dovrei chiamare in altro modo; ma nonostante ora sappia perché non mi abbia amato al pari dei miei due fratelli, lo ricorderò sempre e comunque con l’affetto che si deve all’uomo che mi ha cresciuto… mio padre!
No! Non lo potrò mai né amare né tantomeno considerare “padre”, quel bestione che pensando solo a far del sesso circuì mia madre, sporcando il suo ruolo di moglie fedele!
Pensieri confusi i miei, che accumulandosi nella mente, mi convinsero a fuggire ancora una volta, prima che il dolore palesandosi come tradimento, malattia o altro ancora, inquinasse la cristallina felicità che durava da un tempo, andato già oltre i parametri che mi ero imposto per non doverne soffrire.
Sono e resterò, un vigliacco che scappa via dalla felicità, per paura di perderla… Nemmeno il coraggio di dirglielo guardandola negli occhi, ho avuto. Stamane, dopo aver fatto le valige, le ho scritto una lunga lettera, l’ho infilata sotto l’uscio di casa sua e, come un ladro, sono scappato in stazione con la preziosa refurtiva: il suo cuore infranto.
Farei bene a scendere da questo treno, solo per attendere, steso sui binari, quello che mi porti dritto all’inferno!
FINE
Voto: | su 2 votanti |
Ti ringrazio.
Ciao Laisa, ti auguro un 2019 ricco di tutto, ma sopratutto, di una sfolgorante felicità.
Giancarlo
Mi hai fatta innamorare di questo personaggio così fragile e così dolce da nn riuscire a godere appieno della felicità. L'hai definito egoista. Io lo trovo estremamente generoso, fino a precludere a se stesso ogni attimo di gioia.
Stupendo Giancarlo, davvero stupendo
Ti ringrazio di cuore.
Buona giornata
Ciao Paola.
Giancarlo
Ecco, i tuoi racconti spesso fanno riflettere e quando ho un po' di tranquillità lì leggo con piacere.
Ricambio con affetto i tuoi bellissimi auguri e spero che anche per te il 2019 sia un anno sereno. Un caro saluto, Giancarlo.