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Una ragione per cui vale la pena vivere

Una ragione per cui vale la pena vivere.


A fatica, alle sei, puntuale come ogni mattina, si alzò dal letto, inforcò gli occhiali, infilò le ciabatte e, appoggiandosi alle grucce, strategicamente posizionate accanto al comodino, strascicando le ciabatte sul pavimento in cotto si portò accanto alla finestra.
Per la conformazione architettonica dell’edificio ottocentesco, il davanzale della finestra, incassata all’interno di una profonda imbotte ricavata nelle spesse mura perimetrali, era posto molto più in alto del solito; un gradino, creato appositamente, permetteva l’affaccio e, nelle pareti laterali dell’imbotte, due sporgenze rivestite in beola grigia, come il gradino, disegnavano le sedute sulle quali accomodarsi per leggere o compiere altre attività assistiti dalla luce diurna, oppure per guardare la vita scorrere più in basso, lungo la strada.
Con uno sforzo immane riuscì ad innalzare, lo stretto necessario per salire il gradino, prima l’uno e poi l’altro piede; infine, ansimando, si lasciò cadere su una delle due sedute.
La testa riusciva a sporgere appena dal bordo della finestra: di quel tanto bastante a guardare giù in strada. Ma non era quello l’obiettivo del vecchio.
Scostò lentamente un bordo della tenda, in lino ingiallito dal tempo, e, affacciando lo sguardo, mormorò: «Ecco una ragione per cui vale la pena vivere».
Puntò gli occhi sull’ampia portafinestra del palazzo di fronte e, in un silenzio mistico, rimase in attesa del miracolo giornaliero.
Trascorsero pochi minuti, forse due. «Eccola!» esclamò estasiato, sgranando gli occhi liquidi dietro le spesse lenti.
Una ragazza con indosso un accappatoio blu, arrivando dal bagno tornò nella camera, osservò la propria figura riflessa dall’ampia anta centrale a specchio dell’armadio, poi rovesciò la testa all’indietro e usando le punte delle dita ravvivò la folta capigliatura ambrata.
La tenda messa a protezione della sua intimità, un velo trasparente o poco più, agendo come una calza posta sull’obiettivo di una telecamera, donava alla scena una sensualità particolare.
Ravvivata la capigliatura tornò a guardarsi allo specchio. Pochi istanti dopo, soddisfatta del risultato aprì l’accappatoio e, facendolo scivolare dalle spalle, lo lasciò cadere sul parquet.
Il cuore del vecchio ebbe un sobbalzo, una violenta accelerazione: lo percepì nell’onda di calore che invadendo le stanche membra raggiunse le tempie e le fece pulsare.
Ora le opulente forme erano preda del suo avido sguardo; il colore ambrato della capigliatura, che ben si armonizzava con la tonalità leggermente più chiara della pelle, esaltava ulteriormente le classicheggianti, giovanili rotondità.
La ragazza, scuotendo la testa, pose le mani a coppa sotto il seno e lo alzò; poi mostrando uno sguardo corrucciato lo lasciò: le dimensioni e il peso lo fecero precipitare velocemente. Riteneva “l’accessorio” troppo ingombrante e avrebbe desiderato, al contrario di molte altre ragazze, possederne uno più contenuto (a sentire lei, un paio di misure in meno sarebbero state, usando un’espressione culinaria, “la morte sua”), in modo che riuscisse a contrastare con più successo la forza di gravità.
Il vecchio comprese il suo piccolo dramma, scosse il capo e, accennando un sorriso lieve, sussurrò: «Ragazza mia, tu non sai cosa darei per poterlo solo sfiorare, quel capolavoro».
Dopo aver osservato ancora per qualche istante il florido seno, la ragazza si girò verso la finestra, e ruotando lo sguardo a destra si osservò di lato, mostrando nel contempo agli occhi del vecchio satiro tutte le sue grazie.
«Quel filo di perle nere in mezzo alle gambe mi fa impazzire… Ma quanto tempo ci perderai per tenerlo sempre in ordine? Ma come fai a non lasciare nemmeno un pelo in più del necessario attorno al pube?» si chiedeva il vecchio, eccitandosi alla vista della curatissima strisciolina del nerissimo e lucido pelo che emergeva dal centro del pube: come un filo di perle nere posate sopra ad un espositore in pura seta.
Il nero lucido del poco pelo lasciato sul pube, certificava in modo incontrovertibile che il colore dei capelli era stato alterato artificialmente.
La ragazza si massaggiò il ventre, leggermente abbondante, e ancora una volta si mostrò insoddisfatta del proprio aspetto fisico.
«Ai miei tempi, le ragazze avrebbero fatto carte false per avere quelle forme… e tu…» commentò il vecchio, rattristandosi. E concluse, sospirando: «E’ proprio vero che chi ha il pane non ha i denti».
Poi la ragazza sparì alla vista, per riapparire poco dopo tenendo in mano un perizoma e un reggiseno, neri.
Indossò il reggiseno, si guardò nuovamente allo specchio: l’orpello, oltre al seno, sembrò sollevare anche la sua autostima. Abbassandosi fece passare il perizoma attraverso i piedi e, divaricando leggermente le gambe, lo fece risalire sistemandolo con perizia sopra il pube e fra le natiche.
«Una dea… una dea!» esclamò il vecchio, con lo sguardo appiccicato al vetro della finestra.
La ragazza sparì nuovamente dalla sua vista, per riapparire stringendo fra le mani un paio di jeans neri. Dopo averli infilati attraverso i piedi, li tirò su fino all’altezza dei glutei; poi, trattenendo il respiro, appiattì il ventre e, con uno sforzo immane, superò l’ultimo ostacolo: radunando le forze residue chiuse la cerniera lampo e, finalmente, poté rilasciare il respiro.
Finalmente lo specchio rimandava l’immagine di un ventre piatto. Ma ad ogni azione corrisponde sempre una reazione contraria.
Oltre al ventre, pressato da un paio di taglie in meno, anche i glutei avevano assunto una conformazione meno pronunciata: sembravano essersi spalmati come gelatina all’interno dei jeans. Ma questo non preoccupò eccessivamente la ragazza. Calzando un paio di sandali tacco dodici, ottenne un compromesso accettabile fra l’anteriore e il posteriore.
«Perché torturarti a quel modo per nascondere le forme. Dovresti andarne fiera, mostrare al mondo con orgoglio la tua opulenza classica, non imprigionarla dentro indumenti che sembrano camicie di forza», sbottò il vecchio, alzando il tono, quasi volesse far arrivare alla ragazza tutto il suo disappunto.
Dopo aver indossato una polo bianca, la ragazza prese la borsa e uscì definitivamente dalla scena.
Il vecchio rimase ancora qualche istante a fissare la camera vuota. «A domani», mormorò in un sospiro, prima di alzarsi, trascinarsi verso il letto e rimettersi a dormire.


Il mattino seguente, stesso orario, stessa finestra; il vecchio, dopo aver ripetuto il solito mantra: «Ecco una ragione per cui vale la pena vivere», scostò la tenda. «Che ci fanno quegli uomini dentro la camera?!» si domandò spaventato.
Guardò meglio: indossavano delle tute da lavoro e stavano smontando il letto, ma della ragazza nemmeno l’ombra.
Allungando il collo gettò lo sguardo giù, nella strada. «Se ne sta andando», constatò in un sospiro pregno di malinconica delusione, notando il furgone di un’impresa di traslochi parcheggiato davanti all’androne del palazzo dove risiedeva la ragazza.
Con le lacrime agli occhi tornò a infilarsi nel letto. «Ora, quale altra ragione mi rimane per continuare a vivere?» si chiese, chiudendo gli occhi per l’ultima volta.


FINE




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Racconto scritto il 06/01/2019 - 20:57
Da vecchio scarpone
Letta n.921 volte.
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su 1 votanti


Commenti


Un sogno che riporta il vecchio indietro nel tempo, a ciò che era stato e non potrà mai più essere... un sogno che lo aiuta a sopravvivere, forse. Ti ringrazio.
Ciao Giacomo
Giancarlo

vecchio scarpone 09/01/2019 - 16:21

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Una ragazza che rappresenta nell'immaginario del vecchio un bel sogno erotico...se questa è rimasta la sola ragione per vivere, ecco che nel lettore nasce una solidale empatia per il protagonista. la classe non è acqua, e questo brano è asciutto, quasi secco...5 stelle meritate.

Giacomo C. Collins 07/01/2019 - 17:07

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