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Il boia e l'impiccato

Il boia e l’impiccato


Bernardo… nome comune per un lavoro poco comune.


Bernardo esercitava la professione di boia nel piccolo regno di Pietaslemorta, la sua attività lo costringeva spesso a trascorrere lunghi periodi fuori sede, ma il fatto non gli era di particolare peso; non aveva nessuno che lo attendesse accanto al focolare, nemmeno una fatua fiammella riscaldava più il suo cuore di pietra, dal giorno che aveva aiutato l’anziana madre a passare a miglior vita.


Bernardo era d’uso eseguire il suo raccapricciante lavoro a regola d’arte (infatti mai nessuno, dopo essere passato tra le sue grinfie, ebbe a lamentarsi del servizio) senza porsi domande, o cedere il fianco a sentimenti d’amore, d’amicizia e altro ancora, di cui peraltro appariva del tutto privo.


La povera donna che aveva generato cotanto mostro, un giorno aveva accolto a legnate sul groppone il gabelliere venuto a riscuotere l’esosa gabella, decretando così la propria condanna.
Bastonare il gabelliere del re, era stato considerato dal giudice un delitto pari, se non superiore, all’omicidio, e la sentenza era stata di pari peso; condanna a morte per impiccagione (come da ultimo desiderio della condannata) da eseguirsi il giorno stesso sulla pubblica piazza, davanti agli sguardi soddisfatti del gabelliere e del suo re, pronti a gustarsi lo spettacolo dal balcone del palazzo reale.
Lui, il boia, quando aveva visto sua madre salire a tentoni il patibolo con occhi imploranti pietà, non si era scomposto; impettito, a torso nudo, con il volto occultato dal cappuccio nero forato in due punti in modo da far trasparire solamente gli occhi, neri e immobili come due biglie di vetro; aveva trascinato la povera donna, che urlando malediva il giorno che lo aveva messo al mondo, al centro del patibolo, afferrandola sotto le ascelle l’aveva alzata sistemandola senza troppi complimenti in piedi sopra lo sgabello, poi le aveva infilato un cappuccio nero a occultarne il volto e, di seguito, le aveva stretto il cappio attorno al collo.
Incrociando le braccia sul torace, volgendo gli occhi al balcone, aveva atteso un cenno del re, e insensibile al pianto dell’anziana genitrice, senza indugiare oltre aveva assestato un robusto calcio allo sgabello facendolo cadere, portando così a compimento il suo sporco lavoro senza che nemmeno una lacrima facesse capolino agli angoli degli occhi.


***************************************


Pioveva a dirotto il giorno che, di primo mattino, s’incamminò prendendo la strada delle colline, andando a caccia di sentenze da eseguire.
Per completare il giro dei paesi del regno avrebbe impiegato dalle due alle quattro settimane, il tempo, più o meno breve, sarebbe dipeso dal numero di condanne in attesa del suo operato lungo il percorso.
Funzionava così la giustizia del minuscolo regno: il giudice partiva tre giorni prima del boia, in modo che il boia, al suo arrivo, avrebbe trovato la sentenza emessa e la condanna pronta da eseguire. A quel punto il boia, come gesto di benevolenza, se così si può chiamare, avrebbe concesso al condannato un ultimo desiderio… la scelta dell’attrezzo con cui essere giustiziato; scelta non troppo ampia a dire il vero: corda, o scure!
Subito dopo aver eseguito il suo lavoro, a regola d’arte com’era d’uso scrivere redigendo il rapporto, riprendeva il cammino sulle tracce del giudice, che nel frattempo aveva già emesso altre sentenze in attesa di essere eseguite.


Stivaloni alti fino alle ginocchia, pastrano nero lungo fino alle caviglie, cappellaccio a larghe falde nero, zaino sulla schiena e ferri del mestiere sulle spalle: corda con cappio d’ordinanza sulla destra, grande scure a mezzaluna sulla sinistra.
La lama del miglior acciaio, lucida e ben affilata, riverberando la luce del Sole calante mentre il boia scendeva il sentiero delle colline a est, era ben visibile dal paese.


«Eccolo là, il bastardo!» sibilò il vecchio prima di entrare nella taverna, notando un riverbero intermittente calare dal sentiero.
«Sta arrivando… ho visto la lama della scure baluginare sotto l’ultimo Sole lungo il sentiero della collina, al tramonto sarà già qui!» annunciò in tono concitato.
Gli avventori si ammutolirono.
«E così, domani vedremo per la prima volta il boia al lavoro anche da noi», sentenziò l’oste, accigliandosi.
Un brusio di disapprovazione invase la taverna, e crescendo rapidamente si fece proposta. Ognuno aveva una sua personale ricetta per impedire il compiersi dello scempio, nessuna realmente praticabile.
Ma quando l’omone nero, grande e grosso, spalancando violentemente la porta fece il suo ingresso nella taverna con in spalla i ferri del mestiere, il vociare si spense all’istante.
Il boia si avvicinò al banco. «Oste! Una camera per la notte!» ordinò con voce baritonale, gettando una moneta d’argento sul banco.
L’oste osservò la moneta roteare prima di adagiarsi sul tavolaccio. Poi, con sguardo di sfida e tono fermo, rispose: «Non ho camere libere!»
Il boia volse lo sguardo all’intorno e lesse sui volti degli avventori quel che aveva visto nello sguardo arcigno dell’oste: lì dentro, e in paese, non era il benvenuto.
Abituato ad essere accolto molto spesso con fastidio, l’impatto lo lasciò del tutto indifferente. «Sai dirmi dove posso trovare un letto?» gli chiese, mantenendo lo sguardo da sfinge e riprendendosi la moneta d’argento.
L’oste ghignò, con l’indice indicò un edificio di legno dall’altro lato della strada. «Nella stalla… insieme alle bestie. Là dentro troverai un giaciglio di calda paglia!» rispose con tono rancoroso.
Lo sguardo del boia non evidenziò alcun accenno di rabbia o disappunto; abituato com’era a subire l’ostracismo della gente, nemmeno lo sfiorò il sarcasmo pungente dell’oste. «Grazie!» esclamò laconico, prima di girare i tacchi.
Uscì dalla taverna seguito dagli sguardi obliqui degli avventori, attraversò la strada, entrò nella
stalla accolto dai nitriti, forse di disappunto, dei cavalli, posò i ferri del mestiere accanto a un mucchio di paglia, vi si stese sopra, chiuse gli occhi e cercò, trovandolo, il giusto riposo.


Gli abitanti di Ammazzarnonègiustizia, così si chiamava il paese ai piedi delle colline dove il boia si era fermato per la prima volta, di assistere all’esecuzione, una prima assoluta per il borgo, avrebbero volentieri fatto a meno.
La naturale idiosincrasia di fronte a ogni tipo di violenza, unita al futile motivo che aveva portato il giudice ad enunciare l’orripilante pena da infliggere al condannato, fece sì che il mattino seguente il boia trovasse l’accesso alla piazza sbarrato da un muro umano; l’intera cittadinanza, con il borgomastro in testa, era schierata in mezzo alla via.
Il boia, senza scomporsi, posò a terra i ferri del mestiere, e rivolgendosi al borgomastro, esordì chiedendo: «Son qui venuto ad eseguir sentenza per ordine del re… dov’è il condannato?»
«In prigione. E lì resterà a scontar la giusta pena!» rispose senza tema il borgomastro, incoraggiato in questo dal brusio d’approvazione dei suoi concittadini.
«Se così ha deciso il giudice del re, mostrami la sentenza!» ribatté il boia, per nulla intimorito dal crescente brusio di disapprovazione.
Il borgomastro, agitando le mani, invitò il popolo alla calma e, quando il brusio cessò, così si espresse: «La sentenza del giudice del re, l’abbiamo bruciata e ne abbiamo emessa un’altra, infinitamente più giusta… quella del popolo sovrano».
«L’unica giustizia che riconosco, è quella del re!» esclamò a muso duro il boia.
«Beh, allora non ti è ben chiaro il concetto di giustizia… Sai almeno di quale grave delitto si è macchiato l’uomo che vuoi giustiziare?»
«No! E non m’interessa. Io son qui convenuto per esguir sentenza… sapere, giudicare, è compito che spetta ad altri.»
«E’ già… troppo facile eseguire senza sapere. Pure noi non saremmo qui riuniti se non sapessimo…»
«Non ho tempo da perdere!» lo interruppe il boia, alzando il tono baritonale: «M’attende una lunga marcia per giungere al prossimo paese. Poche ciance, andate a prendere il condannato!» ordinò spazientito.
«Non se ne parla! Prima devi conoscere il motivo per il quale è stato condannato», ribatté il borgomastro, senza flettere di un millimetro dalla sua linea.
Davanti a tanta ostinazione, il boia si vide costretto a concedergli un minimo d’attenzione: «Come vuoi, parla! Ma fai in fretta!»
«La colpa di cui si è macchiato l’uomo che tu vuoi impiccare, è quella di aver trovato un pollo caduto dal carro delle provviste reali…»
«Avrebbe dovuto restituirlo al legittimo proprietario!» obiettò il boia, interrompendolo.
«Hai ragione, per questo è in prigione, dove ha già scontato tre delle quattro settimane che il popolo ha deciso di assegnargli come giusta punizione… Ora che conosci l’intera vicenda, dimmi: ti par giusto impiccare un uomo per un pollo, nemmeno rubato, ma solamente raccattato per strada?»
«Sì! Se così ha deciso il giudice del re!» rispose il boia, mostrandosi refrattario alla clemenza.
Il borgomastro scosse la testa. «Come si può essere così ottusamente quadrati!» disse, evidenziando tutto il suo sconforto per non riuscire a trovare argomenti in grado di aprire una breccia nel cuore indurito del boia.
Fu a quel punto che, fendendo la piccola folla, una donna si fece avanti. «Vorrei chiedere io qualcosa al boia!» esclamò con voce fremente.
«Chi sei tu?» chiese il boia, abbassando lo sguardo per inquadrare meglio la minuta figura che gli si parava davanti.
«Sono la donna dell’uomo che vuoi ammazzare.»
«Giustiziare… giustiziare», la corresse il boia.
«Come desideri: giustiziare… qual è la differenza?» domandò la donna, tenendo lo sguardo ben fermo sul volto inespressivo del boia.
«La differenza consiste nel fatto, che chi ammazza sarà giudicato e giustiziato… mentre il giustiziere non sarà né giudicato né ammazzato», rispose, sciorinando con una punta d’orgoglio la lezioncina mandata a memoria.
Lo sguardo della donna s’illuminò, forse aveva trovato uno spiraglio dal quale incuneare, se non il dubbio, perlomeno la paura nei pensieri del boia.
«Tu, quanti uomini hai giustiziato… più di cento?»
Il boia annuì, gonfiando il petto.
Allora la donna affondò un micidiale fendente. Con un ampio gesto indicò i suoi compaesani. «Per tutti noi, tu non hai giustiziato, ma ammazzato più di cento persone… Per questo ti condanniamo a morte!» sentenziò, girandosi verso la folla.
Un sommesso brusio d’approvazione, nonostante non comprendessero dove stesse andando a parare, invase la via. La donna tornò a guardare negli occhi il boia, e alzando il tono proseguì: «Il popolo di Amazzarenonègiustizia, ha decretato che sia tu stesso ad eseguire la sentenza, impiccandoti al ramo del primo albero che incontrerai sul tuo cammino… dopo che avrai lasciato il paese».
Il boia attese imperterrito che la folla, ora urlante, si quietasse. Poi gelò il loro entusiasmo: «Eseguirò la mia condanna… dopo aver giustiziato l’uomo che tenete in prigione…»
«Perché prima lui?» lo interruppe la donna.
«Perché la sua sentenza è antecedente la mia», fu la spiazzante risposta.
La donna non si perse d’animo. «Il popolo ha deciso di non ritenere valide le tue motivazioni. Il popolo crede che sia giusto procedere per gravità del crimine. Converrai con noi, che l’omicidio plurimo è infinitamente più grave del ratto di un pollo?»
Il boia scosse il capo. «Ma agendo in questo modo, potrò eseguire solo la prima delle due sentenze… E’ una decisione illogica, e a mio avviso ingiusta», obiettò.
«Hai ragione. Per questo il popolo ha deciso di cancellare entrambe le condanne. Considera il tuo compito concluso… Ora, raccogli la tua roba e vattene!» terminò la donna, indicando la via che conduceva fuori dal paese.
«Quando lo saprà il re, non sarà contento… no, non lo sarà», bofonchiò, raccogliendo da terra cappio e scure.
La donna che stava per allontanarsi assieme agli altri, si girò, e fulminandolo con uno sguardo dolce sussurrò, con il sorriso sulle labbra: «Non è importante. Ciò che conta veramente, è che una giustizia giusta faccia felice il popolo».
Il boia non replicò e nemmeno sorrise, caricò sulle spalle l’inquietante fardello se ne andò.


Una prima, piccola crepa nel modo tirannico d’interpretare la giustizia era stata aperta; ben presto l’eco del fatto avrebbe varcato i confini del paese, e allargando la breccia a dismisura, avrebbe trascinato nel baratro l’ingiusto regno di Pietaslemorta.


FINE




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Racconto scritto il 03/03/2019 - 16:53
Da vecchio scarpone
Letta n.956 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


le nostre libertà, dopo averle conquistate le dobbiamo difendere con le unghie e con i denti, giorno dopo giorno... anzi: ora dopo ora, di questi tempi.
Ti ringrazio.
Ciao Grazia.
Giancarlo

vecchio scarpone 03/03/2019 - 20:56

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Originale...
fa riflettere, niente è scontato e le nostre libertà sono frutto di vite sacrificate...
Bel racconto, da leggere!


Grazia Giuliani 03/03/2019 - 18:01

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