Un accessorio, un oggetto del tutto superfluo, un esempio di ostentata ricchezza: negli Stati Uniti, da dove vengo io, lo indossavano le grandi dive di Hollywood, attorno al collo, come un farfallino.
Era circa la metà degli anni '60, il mio primo viaggio studio lontano da casa. Firenze.
Passeggiavo tra le strade affollate in un pomeriggio afoso d'estate e il mio occhio venne catturato da una nuova vetrina. Non vi era molto di esposto, solamente un lungo foulard, così lucente, ornato di disegni colorati ed armoniosi. Era posto lì come un trofeo, un qualcosa da bramare, non adatto a chiunque, ma indossabile solo da chi era capace di esaltarne l'unicità.
Come poteva un oggetto così semplice, essere in grado di attirare la mia attenzione in modo così travolgente? Ne ero affascinato, ma il ritmo frenetico della mia vita di allora non mi permise di approfondirne ulteriormente la conoscenza. Osservavo quella vetrina da lontano, tutte le volte che mi era possibile passare per il centro.
Quando tornai nella mia piccola cittadina natale, nelle campagne isolate del Texas, il ricordo di quel indumento così simile ad un'opera d'arte piano piano svanì.
Vent'anni dopo me ne innamorai nuovamente.
Ormai, negli anni '80, qualsiasi donna possedeva un foulard nel proprio armadio. Era diventato un oggetto quasi kitch, non mi affascinava più come in quell'estate fiorentina. Ma mi sbagliavo: non mi affascinava più nella sua caratterizzazione occidentale.
Nel 1982 dovetti fare un lungo viaggio di lavoro in Arabia Saudita. In quei due mesi entrai profondamente in contatto con la cultura locale, lo ritenevo inevitabile visto che apparteneva ormai alla mia quotidianità.
In questo paese chiamano generalmente il foulard, Hijab, ed esso assume un ruolo totalmente diverso da quello che apparteneva alla mia tradizione culturale. Veniva indossato da donne e bambine per coprire il capo, secondo le regole religiose della velatura femminile islamica.
Erano i primi giorni, non ero abituato ancora a questo, che per me era un nuovo mondo, ed è in quel momento che lo notai.
In realtà per prima cosa udii delle risate, delle risate di bambina, gioiose, piene di vita; poi vidi un vortice rosso, fluttuante, leggero e libero nell'aria. La bimba, che scoprii chiamarsi Sana, giocava con il suo hijab: aveva lasciato liberi i suoi lunghi capelli corvini per lanciare e roteare il suo foulard rosso. Era una visione visivamente inebriante: quel lungo pezzo di stoffa liscia, non decorata, così semplice, disegnava nuove forme nel caos cittadino, che sembrava indifferente a tale spensieratezza.
Sana venne subito ammonita dalla madre che, velocemente, avvolse il velo attorno alla sua testa, coprendola come fosse un gioiello prezioso che non doveva essere visto.
Ne vidi molti in quei giorni di hijab, di particolari, ornati, alcuni di semplici altri di vistosi. Ma nessuno di quelli fu in grado di stupirmi come quello rosso lasciato libero nell'aria, a disegnare nuove forme, leggiadro come se fosse senza sostanza. Era come un monumento che si ergeva sulla città, così morbido e fluido in contrasto con l'architettura ma che al contempo la richiamava nei sui dettagli caratterizzanti.
Pensavo di non essere più in grado di affascinarmi per un oggetto così quotidiano, normale, quasi invisibile ai miei occhi. Ma mi era bastato allontanarlo dalla suo connotazione a me conosciuta, ritrovarlo in un ambiente così differente dal mio, per scoprire un suo volto inatteso ed innamorarmene nuovamente.
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Complimenti, scritto molto bene!