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Occhi, vi vedo

Dovevo dirglielo o no?
Quella notizia, appena appresa, mi aveva rattristato il cuore.
Accarezzai la foto in bianco e nero su quella fredda carta ancora una volta, in cerca di consolazione, in cerca di un senso.
Io che ti ho amato, a suo tempo, a mio modo. Senza pretese. Ma tu non lo hai mai saputo.
Niente più di qualche sorriso, qualche sguardo.
Ora solo questo mi rimane.
I tuoi occhi azzurri mi osservano nel vuoto, mi ammiccano e mi consolano.
Mi invitano a non preoccuparmi per ciò che verrà.
“Va bene”, ti dico.
“Va bene”, mi dico.


Andai in cucina. Mi schiarii la gola.
“Cristina?”
“Sì, caro?”
Mi guardò in faccia. Ed io osservai le sue soffici rughe, i suoi capelli spettinati che le ricadevano con dolcezza sulla logora vestaglia, un tempo rosata, seduta su quella sedia ad adempiere all’unica attività che le sue stanche mani erano ancora in grado di fare.
Mentre faceva l’uncinetto, apprezzai quelle dolci rughe. Apprezzai, ma non amai. Non ho mai amato nulla di lei, ma l’ho sempre apprezzata. Almeno sin da sessant’anni fa, per il suo fisico prorompente. Anche cinquant’anni fa, quando la presi in moglie, e quarant’anni fa, dopo che nacquero i nostri due figli. Fino ad oggi, senza sosta. E ora forse più mai.
Ma non le ho mai detto che non andavo pazzo per i seni prosperosi, per i glutei da bikini, non glielo avevo mai detto.
Perché? Perché era proibito. Per la mentalità dell’epoca. L’uomo doveva essere virile, era impensabile che ad un uomo non piacesse una donna. E ora, dopo tutti questi anni, stavo per vuotare il sacco, grazie a quel triste necrologio.
“Cristina… ti ricordi di…?”
Lei alzò lo sguardo. Mi osservò incuriosita con i suoi fantastici occhi verdi, ormai semichiusi per il peso del tempo sulle palpebre, quelli che molti decenni prima avevano infranto molti cuori.
Che vita le ho dato? Che vita avrebbe potuto avere? Forse migliore, o peggiore, forse più sincera?
Come potevo dirle che sono stato innamorato di un uomo? Come potevo spiegarle il fatto che ho vissuto nell’ombra del silenzio per tutta la mia esistenza?
“...Giovanni” dissi infine. “Dimmi, ti ricordi di lui?”
Rimase un attimo sovrappensiero.
“Parli di quel ragazzo che veniva a scuola con noi? Era sempre stato un bel fanciullo, e poi aveva degli occhi…”
Sussultai. Allora lei sapeva, anche lei aveva notato quello sguardo glaciale, distruttivo, che tuttavia stregava, avvolgeva. Due enormi perle azzurre che si dondolavano dolcemente, due iridi in cui era facile perdersi, per un attimo, o per sempre.
“Cosa gli è capitato?”
Le mostrai il foglio, già consunto, che stringevo tra le mani.
“Oh, mi dispiace tanto, aveva settantotto anni, come noi del resto. Che peccato...”.
Continuò a leggere il necrologio.
“Vuoi andare al funerale?”
E rivolse il suo sguardo verso di me, incatenando i miei occhi ai suoi, in una morsa dalla quale era impossibile liberarsi. Non aveva senso farlo. Non aveva più senso mentire.
Non mi aveva mai guardato con tanta profondità e serietà.
E piansi.
Piansi per tutto ciò che non avevo mai detto.
Piansi per tutto ciò che avevo tenuto nascosto.
Piansi per tutto ciò che avevo l’obbligo di dire adesso, senza potermi tirare indietro.
Glielo dovevo. Sì, glielo dovevo.
“Io…” la voce rotta dai singhiozzi. “Io… lo amai” dissi, semplicemente.
Lei mi fissò, a lungo. Le sue iridi non si spostarono di un millimetro.
“Io lo sapevo”
“Cosa?”
E ora anche lei piangeva.
Le presi le mani, e lei mi abbracciò.
“Io, io sapevo tutto, ma ti amavo, sono stata un’egoista...”
Restammo lì a piangere per qualche minuto, qualche ora, qualche giorno, chissà.
Un pianto pieno, potente, liberatorio.
Un fiume in piena, una cascata, un oceano.
Lacrime su lacrime.
Strinsi il suo viso lieve tra le mie pesanti mani.
“No, angelo custode, tu mi hai salvato. Mi hai salvato”
E sussurrammo solo due parole, entrambi, all’unisono, simultaneamente:
“Mi dispiace”


Ricordo…
Ricordo quel suo sorriso, i suoi denti bianchissimi, carnagione scura, fisico notevolmente muscoloso per la sua età. Lo chiamavano l’africano. A tradirlo era solo il suo sguardo azzurro, incredibilmente gelido, ma al contempo immensamente passionale. In esso vedevi il mare, in tutta la sua vastità.
Era bello, una bellezza oggettiva, di quelle che implacabilmente mettono tutti d’accordo.
Un volto che sembrava scolpito dagli angeli.
Ma aveva l’animo di un camaleonte.
Timido e impacciato come solo un adolescente sa essere, a disagio con le ragazze, esibiva le proprie capacità sportive davanti ai suoi coetanei.
Ed era accettato, ben integrato, tutti gli volevano bene. Ma non era un leader.
Aveva lo scooter. Mi feci dare un passaggio un paio di volte. Solo perché abitavamo vicini. Non eravamo amici in realtà, non lo siamo mai stati. Solo semplici compagni di classe.
È assurdo pensare come si possa condividere cinque anni con le stesse persone, passando insieme cinque ore al giorno, ogni giorno dal lunedì al sabato, eppure non sapere praticamente nulla di loro.
Lui di me sapeva solo il mio nome, il mio cognome, i miei voti.
Io di lui pressappoco le stesse cose, nonché il fatto che lo amassi.
Amore. Che parola esagerata. Forse infatuazione, innamoramento, una banale cotta. Non saprei definire davvero quel sentimento, so solo che nel resto della mia vita non ho mai più provato niente di simile, di altrettanto semplice, ingenuo, di altrettanto spontaneo.
Ricordo la prima volta che mi portò in motorino.
Pioveva, anzi diluviava. Era autunno, forse inverno. Quelle giornate talmente grige a cui non penseresti mai di associare un ricordo così luminoso, così vivido.
“Ste, hai bisogno di un passaggio?”
Io ero alle prese con un ombrello rotto, imprecavo.
“Cosa?”
Mi girai, confuso. E fui investito all’istante dal suo fascino, il suo giubbotto che si intonava al colore dei suoi occhi, su quel motorino bianco e nero, come i colori della sua squadra del cuore.
Avevo paura, non ero mai salito su uno di quegli aggeggi. Non sapevo neanche andare in bicicletta.
Mi tenevo stretto a lui, le braccia attorno alla sua vita. Lui era un po’ a disagio, ma rideva della mia goffaggine, del mio pavore un po’ femmineo.
Per me quella fu la cavalcata più bella della mia vita. Forse per la pioggia che picchiettava rumorosamente contro il casco e mi faceva urlare di gioia, forse per il suo ampio sorriso, suscitato da quei miei piccoli attimi di piacere, e che sembrava durare in eterno…
I nostri corpi e le nostre anime non furono mai più così vicini come in quel momento.


Ormai cosa mi rimane di te?
Domenica prossima ti vedrò in chiesa per darti l’ultimo addio.
Sono quasi sessant’anni che non ti vedo, che non so nulla di te.
Eppure, una forza invisibile mi spinge a presenziare, lo devo a te, o forse a me.
Alla fine andrò da solo, Cristina reputa che sia più giusto così. Lei non ha mai fatto parte di quel sentimento platonico, virtuale, di cui forse non hai mai fatto parte neanche tu, Giovanni. Si è sviluppato tutto dentro di me, nella mia testa, nel mio cuore, nelle mie viscere.
Nei miei occhi.
Occhi.
Il mio rammarico più grande sarà non poter più vedere i tuoi, quanto meno con quel brillio, con quella miccia color iceberg che mi fece innamorare di te.
Chissà, forse riesco a leggerti ciò che ho scritto per te quando andavamo ancora a scuola insieme, per poi perderci con il tempo.


Occhi, vi vedo
Come gocce di rugiada la mattina
Per tanto tempi attesi
Agognati
Ma talmente vicini che si sfiorano
Intrecciandosi tra loro
E si lasciano
Così
Come un lieve tocco di libellula
La gioia per quell’immenso piacere
Per un canto sfinito
Ignorante d’amore
Inebriato dal calore
Di quei freddi occhi azzurri
Occhi, vi vedo




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Racconto scritto il 01/06/2020 - 23:07
Da Alessandro Venoni
Letta n.716 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Racconto molto intenso, completato da versi poetici molto struggenti e pieni di vissuto.

Andrea Paolo Lunardi 02/06/2020 - 20:40

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