Andai al telefono.
“Buongiorno, ci sarebbe l’incarico per una supplenza di un giorno, alle scuole Razzauti, in via Basilicata, per la sostituzione dell’insegnante di Inglese.”
Accettai, anche se l’inglese l’ho sempre trovato ostico. Si trattava comunque di una scuola elementare, via, me la sarei cavata!
Si trattava di fare un’ora d’inglese a diverse classi delle elementari, sarei stato lo specialista insomma. Era la legge del contrappasso. Io che pensavo che la Neda Rossi, insegnante alle superiori, avesse avuto ragione quando mi disse:
“…Ma oh, Glauco, si vive anche senza sapere l’inglese...” chiosando la fine del mio patimento scolastico nel liceo scientifico “Cecioni”.
Purtroppo anche all’università, invece, c’era stato l’esame di lingua inglese, ed era passato non senza preoccupazioni. Ora arrivava la supplenza che tornava a smentire la profezia; che l’inglese servisse davvero?
Parto, col mio bravino blu notte, alla volta delle scuole, puntuale, alla seconda ora dei bambini. Il fatto di fare una sola ora per ogni classe è in un certo senso positivo, ottimizzando, diciamo, l’effetto sorpresa, mi mantengo meglio nel ruolo d’insegnante, senza che i bambini prendano confidenza. Vado per tentativi sul cosa farli fare. Sento come si chiamano, ma non ho la necessità di fare appello, perché le presenze le prendevano alla prima ora le insegnanti che li accompagnavano nell’”Aula di Inglese”.
Peccato, qualche minuto se ne sarebbe andato così, invece c’è da impiegarlo inventandosi qualcosa.
Mi oriento sui numeri. Inizialmente li scrivo in lettere chiedendo alla classe la traduzione, poi, visto che su alcuni ho anche dei dubbi, le comincio a scrivere volutamente sbagliati, cosa che mi riesce benissimo, chiedendo a tutti di correggere i miei errori.
Questa tecnica paga con i bambini più piccoli. Per i più grandi c’è la tombola in inglese che mi dicono che a volte fanno con l’insegnante vera.
Per allontanare anche altri rischi, riesco a individuare, per ogni classe, il bambino più agitato, quello che potrebbe creare problemi, facendo estrarre a lui i numeri e dirli alla classe, accanto a me alla cattedra.
Un’idea davvero geniale.
Sull’ultima classe però, la tattica riesce parzialmente, così mentre il frastuono aumenta nel cercare di farli zittire, con una riga, di quelle per il disegno geometrico, colpisco sulla cattedra.
Il colpo sortisce l’effetto sperato. Eh, il bastone!
Alla seconda occasione però il colpo “cattedratico”, diciamo, spezza la preziosa riga. Inizialmente un silenzio aleggia sulla classe, poi una risata generale prende tutti.
“Era la riga preferita della maestra..” – dice il terribile bambino a mio fianco.
“Sì, figuriamoci…”- gli rispondo incassando la beffa.
L’ora comunque era finita anche con loro, menomale che era l’ultima.
Finivano le sette ore di supplenza con una vittima, anzi due. Una ero io, che uscivo senza voce e con la testa dolente, l’altra la povera riga da cinquanta centimetri, spezzatasi eroicamente per mantenere l’ordine pubblico.
Da quel giorno non ci furono altre repliche di supplenze alle scuole elementari, non era il mio mestiere.
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Questione di ritmo, credo.
È un'arte!
Un saluto