La stanza è vuota. C’è solo un lampadario che custodisce una luce calda, si sforza di imitare una candela, ovviamente. Il pavimento ha il fetore di vissuto seppur tenuto con cura maniacale, è di marmo pregiato ancora lucido, c’è una finestra ampia, ma è serrata.
La stanza è vuota ma ci sono due persone.
Non è dato sapere se è l’alba oppure il tramonto, però il sesso è noto:
Un uomo ed una donna sono uno dirimpetto all’altro, la postura è solenne e gli arti ritti:
Non ci sono letti, non ci sono sedie e non esistono stelle, la stanza è vuota e solo il marmo è decorato.
Non ci sono mobili dentro cui custodire segreti.
Le pareti sono pulite, la vernice è da poco asciutta.
L’uomo con una torsione del corpo che lo slancia, inizia a parlare:
-Cavami questi occhi, amata Marina, ti conosco solo da qualche giorno, non so niente di te, ma intanto senti qua:
Una volta, in viaggio di lavoro verso Benevento, l’automobile correva grintosa sull’asfalto lento.
Il dunque giunse dalla mia mano, decise di accendere la radio, non era mai successo.
Non era concesso, no-.
L’uomo guarda la mano e sorride, poi continua a raccontare:
-In quel frangente, di solito, io e mio padre sfruttavamo il silenzio per iniziare a gridare e litigare.
Io davvero volevo bene a mio padre, ma non riuscivo a non essere duro con lui.
Quella volta la mia mano accese la radio e la mia bocca iniziò a cantare.
Forse qualcosa di rock, non ricordo, tuttavia dal finestrino si palesarono tantissimi campi di grano.
Iniziavo a scorgere pecore che facevano l’amore nel soffio di una giovane primavera.
Mio padre restò in silenzio dinnanzi al mio canto. Un giorno di lavoro pesante, un cantiere delicato da portare a termine. Erano così quelle giornate in cui lavoravo per lui, giovane ed inconsistente.
Ma sai, amata, che bello sguardo che tieni, il tuo viso pallido mi distrae, dunque, dicevo,
Nessuno dei due aveva mai pensato di poter accendere la radio. Un lusso. Pensa te canticchiare!
La voglia di libertà mi invase fino a farmi sentire vivo, vederlo sorridere mi riempiva di gioia.
Eppure Marina, anche io stento a crederci, solo pochi giorni prima avevo firmato un contratto di subappalto per l’indipendenza della mia mano sinistra. Lei ha acceso la radio, non io. Con quel contratto proclamavo le cinque dita, il palmo, e parte del polso liberi per cento millecinquecento giorni, o meglio, un mero subappalto -.
La mano sinistra prende un sigaro dalla tasca e l’uomo riprende a parlare:
-Vedi Marina, tu hai un bel nome. Mi ricorda che le ancore hanno le ali ed i muri sono emotivamente fragili. Però tornando a noi, io voglio che tu mi cavi gli occhi. Quel giorno, tra le strade di Benevento, mio padre sorrise. E questo non succedeva oramai da tanti anni. Mi sentivo felice ed umiliato.
Proprio come lo sono ora.
Una stupida mano era riuscita dove io continuavo a fallire: aveva osato essere libera-.
L’uomo soffia nuvole di fumo che invadono la stanza. La sua mano sinistra lascia cadere il sigaro sul marmo pregiato che caratterizza il pavimento di questa storia; con violenta irruenza si avvicina a Marina e la costringe vicino al muro. La vernice prova a macchiare di bianco tutto il vestito rosso:
- Io non lo so perché ho sempre paura, di fare le cose, di lanciarmi, di provarci fino in fondo. L’uomo di base tiene il timore? E io che ne so, posso parlare per me, e dico che in giro ci sono troppi stronzi che vogliono fare i cantanti ma non sanno suonare, capisci? Io mi sono stancato di sprecare le occasioni, per questo l’ho lasciata libera la mano. E mi ha umiliato, perché della semplicità io ho peccato, anzi, non ho abusato. Troppi pensieri, troppe sciocchezze. E mo’ ci stai tu,
Tu mi fai impazzire donna, baciami ancora, baciami Marina, bacia questa bocca arrogante-.
Il fumo del sigaro crea un sottile strato di nebbia che trasforma la stanza in un vicolo buio di inizio ottocento.
Marina non riesce a vedere nient’altro che le labbra dell’uomo. Nota, tuttavia, che l’uomo dalla tasca estrae delle cesoie da giardinaggio.
-Nel subappaltare parti di me, ho scoperto il significato della libertà; Marina io ti imploro, prendi queste cesoie e cavami gli occhi, perché io sono arrivato al punto di voler subappaltare la mia stessa vita alla morte, pur di continuare a vivere questa libertà-.
La donna, tossendo, prova a liberarsi dalla morsa dell’uomo:
-Lasciami andare.
-Fermati! Il tuo neo, meravigliosamente vivo vicino alle labbra, rende il tuo sguardo assetato di curiosità, furbo, sorride, prende la mano dell’amante e l’accarezza, non avere paura. Per millequattrocento novantanove giorni la mia mano sinistra, libera da me, ha mostrato me cosa bloccasse me dal raggiungere la mia libertà. È lei che ti ha accarezzato la prima volta e ti ha dato piacere, io non ne sono capace. Marina, quello che io voglio dire, in questo palcoscenico che è una stanza senz’anima, è che io sono questa stanza, ma soprattutto la finestra serrata. E domani finirà il contratto di subappalto e la mano sinistra smetterà di essere libera, ed io ritornerò quello di prima, e anche tu tornerai dal marito tuo.
Ma io quello di prima non ci voglio tornare. Tornaci te a stare con uno che non ami più. Ipocrita!
Cavami gli occhi Marina, perché questi occhi mia amata, io non riesco a subappaltare, e quello che io vedo senza libertà non voglio più guardare-.
-Eppure è strano-. Fa lei -perché se la sinistra è libera, non dovrebbe essere la destra a stringere queste cesoie-.
Lo stupore riempie il volto dell’uomo, è un dettaglio a cui non ha pensato, la mano destra che stringe le cesoie è il colpo di scena, è quel momento della trama in cui il protagonista si rende conto di poter cambiare il copione perché è il suo copione.
La bocca è aperta, ansima, corre alla finestra a sradicare le tavole di legno che la serravano.
-Marina adesso scoprirai che, se la mia mano destra è capace di tanto, io posso donare il tempo a questa stanza, e puoi lasciare il marito tuo, che tanto non ami neanche più-.
L’uomo s’impegna per più di un’ora a liberare le assi di legno inchiodate alla finestra.
La donna intanto fa una doccia, liberandosi finalmente degli odori che colpevolizzano un tradimento.
L’uomo nella stanza intanto urla eccitato:
-Mia amata, io ti regalerò l’alba e poi il tramonto, ed infine le stelle. Dietro questa finestra non più nascosti, non più costretti, finalmente liberi di essere amanti.
Ma una volta liberata anche l’ultima asse, dietro l’ampia finestra compare solo un parato bianco finemente decorato.
L’uomo comprende che ormai è scoccata la mezzanotte, poiché la mano la sinistra è tornata in suo possesso.
È finito il subappalto, ed ogni cosa torna al suo posto, e gli amanti ritornano mogli
E gli amanti ritornano mariti.
E i padri odiano i figli, ed i figli odiano i padri.
E nel fingere di odiare sprecano tempo prezioso.
Ed i bambini giocano nel cortile della scuola, e le macchine suonano il clacson, ed i vecchi nei parchi tirano le bocce, e le foglie cadono in autunno perché non sanno mentire, e la sveglia suona ininterrottamente perché ogni ordine è una gabbia con le proprie regole.
Marina è una moglie, Marina è una mamma, sistema il vestito rosso e lentamente abbandona la stanza e ritorna alla sua vita di sempre, per sempre.
Così la mano sinistra torna al proprio posto, adesso stringe le cesoie, le lancia contro il parato. Queste lo bucano volando giù lungo i sette piani del palazzo in centro.
-Eccole- sussurra l’uomo.
Si avvicina alla ferita che le cesoie hanno inferto al parato, poco più di un forellino, e sbirciando con l’occhio a palla, il cielo stellato compare:
-Marina eccole, le ho trovate per te, le stelle- esulta.
Marina però non c’è più.
L’uomo violentemente si avventa sul parato stracciandolo.
-Marina eccolo, il cielo, l’ho trovato per te. Se guardi bene ci sta l’oscurità ma anche tutti i pianeti-.
Marina però non può ascoltare, giace morta sull’asfalto, le sue labbra sono ancora calde ed il suo neo risplende in tutta la sua bellezza, e le cesoie bevono il suo sangue silenziosamente.
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