Questa mattina la sveglia è suonata prestissimo ma io non dormivo più da un pezzo.
Non appena il sottile raggio di luce rossa disegnò l’ora sulla parete, piantai lì di rigirarmi tra le lenzuola e schizzai di sotto.
Il brontolio della caffettiera mi sorprese in cucina a guardare fuori dalla finestra: il sottile velo di foschia che veleggiava sui campi stava per essere soffiato via dal sole, già annunciato da un tenue e delicato riflesso rosa. Le colline, in lontananza, danzavano sopra la grande pianura appese a fili invisibili che scomparivano nell’immensità del cielo.
Il cellulare squillò intorno alle otto ed io ero fuori, a rigirarmi tra le mani la tazza vuota e fissare senza un perché l’immensa tavola verde. Prima ancora di leggere il display sapevo già chi era: mi aveva telefonato quando era successo il fatto e mi aveva detto che avrebbe richiamato.
Liquidai la chiamata in due o tre parole e lanciai il cellulare sul tavolo. Poi tornai a sedermi per farmi accarezzare ancora un po’dalla brezza mattutina.
Non potevo ancora credere che uno dei più grandi giornalisti sportivi voleva intervistarmi. Il motivo, però, lo sapevo fin troppo bene e, mentre una lacrima solitaria trovava la sua strada senza fatica, tornai indietro con la mente al telegiornale di tre giorni prima.
La notizia era stata data in apertura. Più delle parole dello speaker mi avevano colpito i filmati.
Uno era di repertorio e snocciolava un mix di goal ed interviste del più grande calciatore in attività.
L’altro no. L’altro era in diretta e mostrava una rinomata via del centro, una sagoma disegnata con il gesso sul marciapiede, un lago di sangue non ancora lavato e il solito carosello di transenne, lampeggianti e troppi curiosi.
Di tanto in tanto la telecamera zoomava in alto, verso l’attico di un lussuoso palazzo, su di una finestra spalancata, mentre l’inviato, ad un passo dalla crisi respiratoria, mitragliava dati, resoconti e testimonianze.
Lo speaker chiuse aggiungendo che il grande campione era arrivato in ospedale ancora vivo, che era ubriaco fradicio e che medici avevano potuto fare ben poco prima che per lui finissero anche i tempi supplementari.
Spensi la TV con una violenza tale che quasi la ribaltai. Non riuscivo a togliermi dalla mente quelle immagini: il lenzuolo, il sangue, i lampeggianti. E quel nome. Quel nome che da più di dieci anni era sulla bocca di tutti e significava apoteosi del calcio, ma che qui in paese significava poco e niente perché per noi lui è sempre stato “il Rosso”.
Nei giorni successivi TV e giornali non parlavano d’altro. Tutti si chiedevano come mai un calciatore che a trentatré anni era tutt'altro che finito e che aveva guadagnato una fortuna, avesse preso il volo dopo essersi scolato una bottiglia intera di whisky. Tutti volevano sapere perché un personaggio famosissimo, che aveva una tecnica ed un tocco di palla di un altro pianeta, avesse deciso di scendere in strada prendendo la via più breve.
E queste pensavo fossero le cose che il grande giornalista voleva sapere da me perché aveva scoperto che conoscevo bene il Rosso, “Devo trovare una spiegazione valida per quello che è successo!”, si era raccomandato chiudendo la chiamata.
Rientrai in casa a vestirmi pensando a cosa diavolo avrei potuto raccontare al grande giornalista, come se la sua fama potesse dipendere da quelle due o tre frasi che sarei riuscito a balbettare.
Ma che cavolo di spiegazione avrei mai trovato per giustificare il fatto che il mio amico di infanzia, il mio compagno di squadra in tante partite su campetti di terra battuta dura peggio del cemento, non c’era più?
Non c’era molto da dire. Nessun particolare sconosciuto che potesse scaldare le discussioni nei bar o nei talk-show popolari, nessun pettegolezzo da raccontare sottovoce o da sbattere sui rotocalchi da quattro soldi.
Era una storia come un’altra.
Una storia come tante.
La storia di un gruppo di bambini che, tanti anni fa, si sono trovati insieme in un paesino di campagna e insieme sono cresciuti.
Tutto qui. Niente misteri, niente retroscena piccanti. Solo ricordi di terra, sudore, polvere, gioia, gioventù e tanta, tanta adrenalina.
Il Rosso, lo chiamammo subito così per via dei capelli, capitò qui quando aveva circa 6 anni.
Dalla città veniva dai nonni per trascorrere le vacanze estive e, spesso, anche qualche fine settimana.
Amava molto correre e stare all’aperto tutto il giorno. Al contrario di quello che faceva in città, dove non c’erano campi ma solo cemento, non c’erano prati su cui correre, ma solo interminabili stradoni pieni di auto e non c’erano amici con cui giocare ma solo compagni di scuola, vestiti bene, ma perennemente imbambolati davanti alla televisione.
Io, lui e gli altri, abbiamo condiviso tutto quello che allora passava il progresso: automobiline, fionde, biglie, biciclette, bagni nel fiume, fumetti e canne da pesca. Quanto eravamo scemi! Pescavamo e ributtavamo in acqua i pesci. Osservare quei poveri esseri a terra spalancare la bocca e le branchie a scatti era troppo per noi. Nessuno ha mai resistito e i pesci tornavano a nuotare dopo pochi minuti.
Ma ci bastava poco, allora, per radunare tutta la nostra felicità infinita e proteggerla.
E poi, naturalmente, c’era il pallone.
Il Rosso aveva talento. Eccome se ne aveva. Era il migliore e, quando si organizzavano le interminabili partite nel campetto dietro la chiesa, la squadra che lo aveva in formazione aveva la vittoria praticamente in tasca. Se poi, modestamente, nella stessa squadra, c’ero io in porta allora per gli avversari non c’era proprio più niente da fare.
Riuscimmo addirittura a mettere insieme una squadretta che vinse praticamente tutti i tornei serali che si disputavano d’estate nel circondario.
Ho ancora la fotografia sul caminetto: il Rosso è quello in piedi a sinistra con i capelli a caschetto color fuoco, io invece sono quello in mezzo, con i guanti, vicino a me c’è Claudio che è andato ad abitare lontano perché suo papà aveva cambiato lavoro. A destra c’è Stefano che qualche anno fa, una sera con nebbia fitta, ha attraversato in moto un incrocio al momento sbagliato.
Poi ci sono tutti gli altri: Gigi, Chicco, Fabio, Mario, Adolfo.
Loro ci sono ancora però non giocano più.
Nemmeno io gioco più. In porta sapevo il fatto mio e avrei potuto salire più gradini se solo, quel giorno, avessi tirato meglio il freno a mano del trattore.
Mi ricordo che un pomeriggio d’estate eravamo andati giù alla spiaggetta del fiume. Qualcuno aveva portato le canne da pesca, qualcuno voleva fare il bagno. Il Rosso, naturalmente, si portò il pallone. Dopo aver cazzeggiato un po’iniziammo a tirare quattro calci e, al primo corner battuto da Mario, con la potenza di Mike Tyson, il pallone sorvolò a razzo tutta la piccola area disegnata sulla sabbia e finì in acqua, proprio al centro del fiume.
Il Rosso si tuffò e con poche bracciate lo recuperò. Stava tornando a riva con il pallone ben stretto quando venne sopraffatto dalla corrente. Iniziò subito ad annaspare perché con una mano teneva il pallone e con l’altra non ce la faceva a vincere la forza della corrente.
Mi gettai anch'io in acqua, lo raggiunsi e presi io il pallone cercando anche di aiutarlo ad arrivare fino alla spiaggia.
Ma lui si era fatto prendere dal panico, si agitava e si dibatteva. Per evitare di andare sotto tutti e due dovetti lasciare andare il pallone con la corrente e tirare su lui.
Mentre frequentava le medie entrò in una piccola squadra di dilettanti, qualcuno lo notò e gli propose un provino per una grande squadra.
Mi raccontò con entusiasmo: “Ci crederesti? Mi fanno fare un provino, e se va bene sfondo!”, ma poi subito si fece scuro in viso, “Però non so se ho fatto bene ad accettare…”, confessò a voce bassa, “Mi sa tanto che non tornerò più e non giocheremo più insieme….”.
“Non ti preoccupare!”, lo rassicurai sghignazzando, “Vedrai che dopo due o tre partite, quando ti avranno provato per bene, ti faranno tornare a giocare con me sulla spiaggia del fiume!”.
E invece, sulla spiaggia del fiume ci tornai da solo. Il Rosso, a diciassette anni, giocava già in serie C e, mentre io trascinavo il puzzle della mia gamba da un ospedale all’altro, a venti anni faceva il suo debutto nella massima serie.
Non si fece più vedere per un lungo periodo. Morti e sepolti i nonni, di lui sapevo solo attraverso i giornali e la televisione.
Un giorno, però, inaspettatamente e senza preavviso capitò in paese.
Lo incontrai di sfuggita e gli chiesi come andava: “Bah, lascia stare!”, rispose, “Ci crederesti? Mi sembra di essere un detenuto! Tutta la giornata spesa tra allenamenti, palestra, lezioni di tattica. Si gioca di Sabato, di Domenica e di Lunedì! Ma anche di Martedì e di Mercoledì!”.
Non seppi cosa rispondere. Mi limitai ad osservare con crescente interesse la curvatura delle unghie della mia mano destra.
Poi presi coraggio e gli domandai, da profano, se proprio non poteva ritagliarsi un po’di tempo.
“Qualcosa riesco a limare…a volte...”, rispose, “Ma è difficile ed è sempre troppo, troppo poco….”.
Lo rividi tre anni dopo, quando giocarono in casa le semifinali di ritorno di Champions League.
Avevano vinto proprio con un goal dei suoi. Stop di tacco a mezza altezza col destro e tiro simultaneo di sinistro, diretto nel sette, come faceva da ragazzino, quando davanti gli capitava Mario che, grosso come un armadio, di spazi di manovra ne lasciava sempre ben pochi.
Ma quel goal da antologia non bastò. Sommando il punteggio dell’andata furono eliminati. Finita la partita non tornò a casa: dallo stadio si precipitò, nel cuore della notte, a dormire qui in paese, nella sua vecchia casa delle vacanze, chiusa e disabitata da secoli, per sbollire da solo, in mezzo a muffa ed umidità, la rabbia e l’umiliazione.
Lo trovai per strada al mattino dopo, prestissimo, mentre stava facendo ritorno in città.
Accostò, abbassò il finestrino e con gli occhi arrossati sentenziò: “Ci crederesti? Se c’eri tu in porta eravamo in finale di sicuro!”.
“Non sparare cazzate!”, lo rimproverai, “E la prossima volta cerca di passare di più la palla!”, aggiunsi mentre la sua fuoriserie stava già sgommando e lui mi salutava con la mano tesa fuori dal finestrino.
Da allora, prendemmo l’abitudine di sentirci più spesso, per telefono. Ce ne stavamo ore a ricordare le nostre peripezie di ragazzini e a parlare di calcio, di calciatori e di tutto quel mondo più o meno sommerso che ci gira intorno.
Quando toccavamo quell’argomento il Rosso si bloccava. Non era fatto per la vita mondana e sfarzosa di certi suoi compagni, sempre sotto i riflettori.
Era uno dei personaggi più in vista ma, in fondo, era rimasto sempre il bambino di un tempo, che preferiva la vita sobria ma genuina del paese, che aveva nostalgia dei vecchi amici, delle mille melodie degli uccelli, del profumo sottile dell’erba, dei fiori e della terra appena smossa e del sole che, alla sera, scende rosseggiando dietro le file dei pioppi mentre le rane nei fossi scandiscono il passare del tempo.
“Ci crederesti?”, concludeva, “Mi piacerebbe tanto rivedervi, ma per me è sempre difficile muovermi. Perché non venite voi a trovarmi? Guarda…ti mando io il pulmino e con tanto di autista e….”.
E io ogni volta mandavo lui a quel paese. E gli rispondevo bruscamente che non avevo tempo e dovevo pensare alla mia azienda agricola. Che, volente o nolente, quello era il mio lavoro e, a differenza sua, era tutto quello che avevo. E che anche tutti gli altri non erano messi meglio, sempre alle prese con fatica e tasche vuote.
“Hai ragione…!”, mi rispose una volta, “Ho fatto un sacco di soldi, mi sono comprato una casa immensa e lussuosa e potrei fare cento volte il giro del mondo. Ma dopo gli allenamenti o la partita sono sempre da solo! Non posso neanche mettere fuori il naso dalla porta perchè, quando già a 21 anni guadagni 100 mila euro al mese, la prima cosa che accade è che ti ritrovi circondato da una pletora di persone che vogliono trascinarti in giro, che insistono per sfoggiarti come fossi un trofeo, per portarti a cena al ristorante che tanto poi il conto lo pagherai tu, perché sei ricco! Centinaia di persone, che manco conosco, che ti segnano col dito, che vogliono l’autografo o un selfie o mi chiedono di mettere una buona parola per un provino. Gente che si gonfia come un pallone e non sa che viviamo in un mondo pieno di spilli. Senza contare i giornalisti, buoni quelli, che mi fanno le domande più idiote solo per la loro fottuta audience, come se io avessi la sfera di cristallo, come se io fossi un pezzo di legno senza sentimenti!”.
Fissai lo schermo del telefono con la stessa faccia da ebete che assumono, di solito, gli spettatori dei numeri di lap-dance.
“Ma soprattutto, lo sai qual’è il vero problema?”, incalzò con l’affanno sempre più evidente.
“Il vero problema è che ti circondi di gente che ti dà sempre ragione. E quando ti abitui così, finisci con l’allontanare i veri amici, gli unici che avrebbero il coraggio di dirti quando stai sbagliando o di avvertirti se ti stai cacciando nei guai.....”.
Ci fu un attimo di silenzio durante il quale potevo percepire il ritmo del suo respiro gareggiare con i battiti del mio cuore.
“E allora, la vuoi la morale della storia?”.
Ascoltai la domanda come se nel mio stomaco si rotolasse un porcospino.
“La morale della storia non c’è, o forse sì, ed è quella che mi insegnavano mamma e papà quand’ero bambino: la vita ti mette davanti a scelte giuste o sbagliate: spetta a te imboccare la strada corretta. E se non ce la fai sono cavoli tuoi, perché alla fine c’è sempre un prezzo da pagare!”.
“Beh, non durerà mica per sempre!”, buttai là, “Tra quattro o cinque anni, potresti già ritirarti e vivere di rendita. Allora non avresti più bisogno del più lussuoso palazzo della città, potresti andare tranquillo dove cavolo ti pare e mandare affanculo tutti!”.
“Si è vero! Ma non ce la faccio a tirare ancora così tanto!”, sbottò, “E dopo? Cosa cambierebbe dopo? Spenti i riflettori avrei tutto il tempo libero che voglio. Per rimanere da solo. Proprio come adesso!”.
L’ultima volta che lo sentii fu due giorni prima che si buttasse. Al solo pensiero la gola mi si stringe come se avessi ingoiato una manciata di sabbia.
La Domenica precedente era l’ultima di campionato ed avevano giocato contro la capolista: dopo una lotta serrata, con sorpassi e controsorpassi durata per quasi tutto il campionato, il distacco tra le due squadre si era ridotto ad un solo punto.
La Domenica precedente era l’ultima di campionato ed avevano giocato contro la capolista: dopo una lotta serrata, con sorpassi e controsorpassi durata per quasi tutto il campionato, il distacco tra le due squadre si era ridotto ad un solo punto.
Vincere significava portarsi a casa lo scudetto.
Il Rosso segnò una rete fantastica, una delle sue, bellissima: mezza rovesciata al volo, di collo pieno, da fuori area, come aveva escogitato al campetto qui in paese, perché non voleva mai entrare in area e trovarsi a tu per tu con Adolfo e Chicco pronti a mangiarselo vivo.
Nel secondo tempo, però, gli avversari pareggiarono.
A quattro minuti dal termine aveva sul piede il pallone del vantaggio.
Dopo una lunga galoppata, dove aveva scartato anche gli stewards, come se sentisse ancora il fiato rovente di Claudio e Fabio sul collo, si era trovato da solo davanti al portiere.
Scartato anche quello, doveva solo appoggiare la palla in rete. Per lui era un gioco da ragazzi e ce l’avrebbe fatta ad occhi chiusi.
E infatti il suo tocco, di sinistro, a girare, al limite dell’area piccola, fu eccezionale e non lo avrebbe preso nemmeno Superman.
Però fu troppo angolato.
La palla schizzò via a fil di palo e addio scudetto.
La stampa e la televisione lo misero in croce: il grande giornalista scrisse un articolo di fuoco definendolo, solo per una rete sbagliata, addirittura “Il campione venduto” mentre sui social si faceva a gara a chi postava la vignetta più bastarda.
Lo chiamai e gli dissi di non preoccuparsi, di non badare alle chiacchiere, alla carta stampata ed alle cazzate di quattro idioti sul Web. Un solo errore non può cancellare dieci anni e passa di successi.
“Ci crederesti?”, rispose il Rosso, “Quando ho avuto sul piede la palla del vantaggio ho chiuso gli occhi e mi sono trovato nel nostro vecchio campetto al paese. Fa ridere, vero? Non ero più davanti a ottantamila persone ma ero ancora là, in mezzo a polvere e sassi, insieme a te, Claudio, Fabio, Mario, Adolfo e tutti gli altri!”.
Stavo per rispondergli che, in effetti, così poteva tranquillamente partecipare al prossimo casting di Zelig, ma la sua voce cambiò prima di tono e poi si ruppe, “Quando sono arrivato davanti al portiere ho visto te…. e allora….ho tirato come facevo quando eravamo ragazzi. Ho cercato di fare un tiro speciale, imprendibile, perché vedevo che in porta c’era il migliore di tutti. Ma quando ho riaperto gli occhi tu non c’eri….cazzo….non c’eri!!”.
Obiettai che era bella da ridere. “E io sarei migliore di un portiere che gioca in serie A?”. Che la andasse a raccontare a qualcun altro! “Come no!”, lo canzonai, “Io che a trentacinque anni cammino già col bastone devo perdere del tempo ad ascoltare le balle del capocannoniere di serie A!”.
Il Rosso ritornò serio: “Certe volte è meglio camminare col bastone che lottare da solo contro un mondo che amavi ma che ora ti opprime e non ti appartiene più. Certe volte è meglio impiegare mezzora per fare una rampa di scale, ma avere una moglie che ti vuole bene e ti aiuta, a differenza delle donne che ho trovato io, che stavano con me solo per i soldi. Certe volte è meglio avere pochi amici, ma sinceri, piuttosto che trovarsi accanto decine di persone belle, ma vuote, che pretendono di cucire le tue ferite con dei punti di vista e che stanno con te solo per mettersi in mostra!”.
“Beato te!”, esclamò poi, “Che puoi andare dove ti pare senza che nessuno ti dia fastidio! Beato te che puoi ricordare le nostre partitelle, nel campetto dietro la chiesa, senza metterti a piangere anche se riesci a malapena a camminare!”.
E prima di riattaccare, sibilò: “A conti fatti, credo proprio che quel pomeriggio di tanti anni fa avresti fatto meglio a portare a riva il pallone e lasciare andare me.…”.
Ma, in definitiva, queste non sono le cose che contano. Quello che conta è che tutti quei bambini non ci sono più perché sono diventati grandi.
Quello che conta è che il Rosso si è buttato e io non ero là a prenderlo come avevo fatto tanti anni fa.
Quello che conta è che lui anche oggi aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a vincere la forza della corrente.
Ma queste non sono nemmeno le cose che interesseranno al grande giornalista.
Lui ha già detto e scritto abbastanza e i milioni di sportivi avranno concluso che il grande campione ha perso l’equilibrio dopo una serata, come dire, un po’ allegra. I milioni di sportivi avranno concluso che non vale la pena piangere un grande atleta che butta uno scudetto nel cesso e poi se ne va a ballare ubriaco sul davanzale della finestra.
Ed io preferisco pensare che sia andata veramente così: “Ci crederesti? Ho inventato un nuovo passo di danza e adesso lo provo sul davanzale dopo essermi riempito come un mastello....!”.
Preferisco pensare che il Rosso lo abbia fatto veramente, piuttosto di credere che si fosse convinto di essere stato abbandonato da tutti, anche da me, e di non avere più nessuno che lo aiutasse a vincere la forza della corrente.
Non vorrei che lo avesse pensato davvero perché avrebbe significato che io non avevo capito niente.
Se lo avessi capito non mi sarei sempre negato quando mi cercava, quando le sue certezze venivano spazzate via, come cenere dalla cicca, non dal lieve alito che accarezza il granoturco e si destreggia tra robinie e sambuchi, ma dal vento gelido e tagliente che incide il cuore e scava negli abissi della mente. Quando i mostri peggiori non si trovano nascosti nel buio, ma sono lì che ti guardano in faccia e ti sorridono.
Ma oggi non dirò nulla di questo al grande giornalista. Lo terrò per me.
Per lui inventerò qualcosa d’altro. Se ne avrò voglia.
Probabilmente il grande giornalista, dalla coda di paglia, si arrabbierà moltissimo con me perché gli ho fatto fare tutta questa strada per niente e mi dirà anche un sacco di brutte parole.
Però neanche questa è una cosa importante. Mia moglie si è appena alzata e mi raggiunge in giardino: il cielo ora è azzurro e pulito, le poche nuvole si sono diradate, trasformandosi in vaghe pennellate di grigio.
Lo osservo attentamente e mi manca il respiro.
“Non piangere!”, mi consola, “Esuberante e allegro come era, da lassù non ne sarebbe contento!”.
Poi si avvicina e mi da un bacio tra i capelli. E io mi asciugo le lacrime e realizzo che, bastone o non bastone, avrò sempre qualcuno che mi aiuterà a vincere la forza della corrente.
Ma, nonostante questo, da tre giorni il sonno tarda sempre a venire.
Quando sono a letto e provo a chiudere gli occhi vedo sempre una ciurma di ragazzini che urlano correndo dietro al pallone ed uno di essi, con i capelli a caschetto, rossi, prende palla a metà campo, scarta tutta la difesa, e arriva da solo fino in porta.
Davanti a me.
Poi si ferma, per un attimo, e mi guarda intensamente e i sui occhi sembrano volermi dire qualche cosa.
E ogni mattina, quando scendo in cucina, i ragazzini sono lì, stampati sulla fotografia che mi aspetta sul caminetto.
E’ sempre la stessa fotografia, di una squadra di ragazzini scalmanati in posa con l’ennesimo trofeo appena vinto.
Ci sono Mario, Adolfo, Claudio, Fabio, Chicco, Stefano e Gigi.
E c’è anche lui, il Rosso. E’ sempre quello in piedi, a sinistra.
Ha sempre gli stessi capelli a caschetto color rosso fuoco.
E anche i suoi occhi sono sempre gli stessi.
E poi ci sono anche io.
Dovrei essere quello in mezzo, con i guanti ma, francamente, credo ormai di non esserlo più.
Non appena il sottile raggio di luce rossa disegnò l’ora sulla parete, piantai lì di rigirarmi tra le lenzuola e schizzai di sotto.
Il brontolio della caffettiera mi sorprese in cucina a guardare fuori dalla finestra: il sottile velo di foschia che veleggiava sui campi stava per essere soffiato via dal sole, già annunciato da un tenue e delicato riflesso rosa. Le colline, in lontananza, danzavano sopra la grande pianura appese a fili invisibili che scomparivano nell’immensità del cielo.
Il cellulare squillò intorno alle otto ed io ero fuori, a rigirarmi tra le mani la tazza vuota e fissare senza un perché l’immensa tavola verde. Prima ancora di leggere il display sapevo già chi era: mi aveva telefonato quando era successo il fatto e mi aveva detto che avrebbe richiamato.
Liquidai la chiamata in due o tre parole e lanciai il cellulare sul tavolo. Poi tornai a sedermi per farmi accarezzare ancora un po’dalla brezza mattutina.
Non potevo ancora credere che uno dei più grandi giornalisti sportivi voleva intervistarmi. Il motivo, però, lo sapevo fin troppo bene e, mentre una lacrima solitaria trovava la sua strada senza fatica, tornai indietro con la mente al telegiornale di tre giorni prima.
La notizia era stata data in apertura. Più delle parole dello speaker mi avevano colpito i filmati.
Uno era di repertorio e snocciolava un mix di goal ed interviste del più grande calciatore in attività.
L’altro no. L’altro era in diretta e mostrava una rinomata via del centro, una sagoma disegnata con il gesso sul marciapiede, un lago di sangue non ancora lavato e il solito carosello di transenne, lampeggianti e troppi curiosi.
Di tanto in tanto la telecamera zoomava in alto, verso l’attico di un lussuoso palazzo, su di una finestra spalancata, mentre l’inviato, ad un passo dalla crisi respiratoria, mitragliava dati, resoconti e testimonianze.
Lo speaker chiuse aggiungendo che il grande campione era arrivato in ospedale ancora vivo, che era ubriaco fradicio e che medici avevano potuto fare ben poco prima che per lui finissero anche i tempi supplementari.
Spensi la TV con una violenza tale che quasi la ribaltai. Non riuscivo a togliermi dalla mente quelle immagini: il lenzuolo, il sangue, i lampeggianti. E quel nome. Quel nome che da più di dieci anni era sulla bocca di tutti e significava apoteosi del calcio, ma che qui in paese significava poco e niente perché per noi lui è sempre stato “il Rosso”.
Nei giorni successivi TV e giornali non parlavano d’altro. Tutti si chiedevano come mai un calciatore che a trentatré anni era tutt'altro che finito e che aveva guadagnato una fortuna, avesse preso il volo dopo essersi scolato una bottiglia intera di whisky. Tutti volevano sapere perché un personaggio famosissimo, che aveva una tecnica ed un tocco di palla di un altro pianeta, avesse deciso di scendere in strada prendendo la via più breve.
E queste pensavo fossero le cose che il grande giornalista voleva sapere da me perché aveva scoperto che conoscevo bene il Rosso, “Devo trovare una spiegazione valida per quello che è successo!”, si era raccomandato chiudendo la chiamata.
Rientrai in casa a vestirmi pensando a cosa diavolo avrei potuto raccontare al grande giornalista, come se la sua fama potesse dipendere da quelle due o tre frasi che sarei riuscito a balbettare.
Ma che cavolo di spiegazione avrei mai trovato per giustificare il fatto che il mio amico di infanzia, il mio compagno di squadra in tante partite su campetti di terra battuta dura peggio del cemento, non c’era più?
Non c’era molto da dire. Nessun particolare sconosciuto che potesse scaldare le discussioni nei bar o nei talk-show popolari, nessun pettegolezzo da raccontare sottovoce o da sbattere sui rotocalchi da quattro soldi.
Era una storia come un’altra.
Una storia come tante.
La storia di un gruppo di bambini che, tanti anni fa, si sono trovati insieme in un paesino di campagna e insieme sono cresciuti.
Tutto qui. Niente misteri, niente retroscena piccanti. Solo ricordi di terra, sudore, polvere, gioia, gioventù e tanta, tanta adrenalina.
Il Rosso, lo chiamammo subito così per via dei capelli, capitò qui quando aveva circa 6 anni.
Dalla città veniva dai nonni per trascorrere le vacanze estive e, spesso, anche qualche fine settimana.
Amava molto correre e stare all’aperto tutto il giorno. Al contrario di quello che faceva in città, dove non c’erano campi ma solo cemento, non c’erano prati su cui correre, ma solo interminabili stradoni pieni di auto e non c’erano amici con cui giocare ma solo compagni di scuola, vestiti bene, ma perennemente imbambolati davanti alla televisione.
Io, lui e gli altri, abbiamo condiviso tutto quello che allora passava il progresso: automobiline, fionde, biglie, biciclette, bagni nel fiume, fumetti e canne da pesca. Quanto eravamo scemi! Pescavamo e ributtavamo in acqua i pesci. Osservare quei poveri esseri a terra spalancare la bocca e le branchie a scatti era troppo per noi. Nessuno ha mai resistito e i pesci tornavano a nuotare dopo pochi minuti.
Ma ci bastava poco, allora, per radunare tutta la nostra felicità infinita e proteggerla.
E poi, naturalmente, c’era il pallone.
Il Rosso aveva talento. Eccome se ne aveva. Era il migliore e, quando si organizzavano le interminabili partite nel campetto dietro la chiesa, la squadra che lo aveva in formazione aveva la vittoria praticamente in tasca. Se poi, modestamente, nella stessa squadra, c’ero io in porta allora per gli avversari non c’era proprio più niente da fare.
Riuscimmo addirittura a mettere insieme una squadretta che vinse praticamente tutti i tornei serali che si disputavano d’estate nel circondario.
Ho ancora la fotografia sul caminetto: il Rosso è quello in piedi a sinistra con i capelli a caschetto color fuoco, io invece sono quello in mezzo, con i guanti, vicino a me c’è Claudio che è andato ad abitare lontano perché suo papà aveva cambiato lavoro. A destra c’è Stefano che qualche anno fa, una sera con nebbia fitta, ha attraversato in moto un incrocio al momento sbagliato.
Poi ci sono tutti gli altri: Gigi, Chicco, Fabio, Mario, Adolfo.
Loro ci sono ancora però non giocano più.
Nemmeno io gioco più. In porta sapevo il fatto mio e avrei potuto salire più gradini se solo, quel giorno, avessi tirato meglio il freno a mano del trattore.
Mi ricordo che un pomeriggio d’estate eravamo andati giù alla spiaggetta del fiume. Qualcuno aveva portato le canne da pesca, qualcuno voleva fare il bagno. Il Rosso, naturalmente, si portò il pallone. Dopo aver cazzeggiato un po’iniziammo a tirare quattro calci e, al primo corner battuto da Mario, con la potenza di Mike Tyson, il pallone sorvolò a razzo tutta la piccola area disegnata sulla sabbia e finì in acqua, proprio al centro del fiume.
Il Rosso si tuffò e con poche bracciate lo recuperò. Stava tornando a riva con il pallone ben stretto quando venne sopraffatto dalla corrente. Iniziò subito ad annaspare perché con una mano teneva il pallone e con l’altra non ce la faceva a vincere la forza della corrente.
Mi gettai anch'io in acqua, lo raggiunsi e presi io il pallone cercando anche di aiutarlo ad arrivare fino alla spiaggia.
Ma lui si era fatto prendere dal panico, si agitava e si dibatteva. Per evitare di andare sotto tutti e due dovetti lasciare andare il pallone con la corrente e tirare su lui.
Mentre frequentava le medie entrò in una piccola squadra di dilettanti, qualcuno lo notò e gli propose un provino per una grande squadra.
Mi raccontò con entusiasmo: “Ci crederesti? Mi fanno fare un provino, e se va bene sfondo!”, ma poi subito si fece scuro in viso, “Però non so se ho fatto bene ad accettare…”, confessò a voce bassa, “Mi sa tanto che non tornerò più e non giocheremo più insieme….”.
“Non ti preoccupare!”, lo rassicurai sghignazzando, “Vedrai che dopo due o tre partite, quando ti avranno provato per bene, ti faranno tornare a giocare con me sulla spiaggia del fiume!”.
E invece, sulla spiaggia del fiume ci tornai da solo. Il Rosso, a diciassette anni, giocava già in serie C e, mentre io trascinavo il puzzle della mia gamba da un ospedale all’altro, a venti anni faceva il suo debutto nella massima serie.
Non si fece più vedere per un lungo periodo. Morti e sepolti i nonni, di lui sapevo solo attraverso i giornali e la televisione.
Un giorno, però, inaspettatamente e senza preavviso capitò in paese.
Lo incontrai di sfuggita e gli chiesi come andava: “Bah, lascia stare!”, rispose, “Ci crederesti? Mi sembra di essere un detenuto! Tutta la giornata spesa tra allenamenti, palestra, lezioni di tattica. Si gioca di Sabato, di Domenica e di Lunedì! Ma anche di Martedì e di Mercoledì!”.
Non seppi cosa rispondere. Mi limitai ad osservare con crescente interesse la curvatura delle unghie della mia mano destra.
Poi presi coraggio e gli domandai, da profano, se proprio non poteva ritagliarsi un po’di tempo.
“Qualcosa riesco a limare…a volte...”, rispose, “Ma è difficile ed è sempre troppo, troppo poco….”.
Lo rividi tre anni dopo, quando giocarono in casa le semifinali di ritorno di Champions League.
Avevano vinto proprio con un goal dei suoi. Stop di tacco a mezza altezza col destro e tiro simultaneo di sinistro, diretto nel sette, come faceva da ragazzino, quando davanti gli capitava Mario che, grosso come un armadio, di spazi di manovra ne lasciava sempre ben pochi.
Ma quel goal da antologia non bastò. Sommando il punteggio dell’andata furono eliminati. Finita la partita non tornò a casa: dallo stadio si precipitò, nel cuore della notte, a dormire qui in paese, nella sua vecchia casa delle vacanze, chiusa e disabitata da secoli, per sbollire da solo, in mezzo a muffa ed umidità, la rabbia e l’umiliazione.
Lo trovai per strada al mattino dopo, prestissimo, mentre stava facendo ritorno in città.
Accostò, abbassò il finestrino e con gli occhi arrossati sentenziò: “Ci crederesti? Se c’eri tu in porta eravamo in finale di sicuro!”.
“Non sparare cazzate!”, lo rimproverai, “E la prossima volta cerca di passare di più la palla!”, aggiunsi mentre la sua fuoriserie stava già sgommando e lui mi salutava con la mano tesa fuori dal finestrino.
Da allora, prendemmo l’abitudine di sentirci più spesso, per telefono. Ce ne stavamo ore a ricordare le nostre peripezie di ragazzini e a parlare di calcio, di calciatori e di tutto quel mondo più o meno sommerso che ci gira intorno.
Quando toccavamo quell’argomento il Rosso si bloccava. Non era fatto per la vita mondana e sfarzosa di certi suoi compagni, sempre sotto i riflettori.
Era uno dei personaggi più in vista ma, in fondo, era rimasto sempre il bambino di un tempo, che preferiva la vita sobria ma genuina del paese, che aveva nostalgia dei vecchi amici, delle mille melodie degli uccelli, del profumo sottile dell’erba, dei fiori e della terra appena smossa e del sole che, alla sera, scende rosseggiando dietro le file dei pioppi mentre le rane nei fossi scandiscono il passare del tempo.
“Ci crederesti?”, concludeva, “Mi piacerebbe tanto rivedervi, ma per me è sempre difficile muovermi. Perché non venite voi a trovarmi? Guarda…ti mando io il pulmino e con tanto di autista e….”.
E io ogni volta mandavo lui a quel paese. E gli rispondevo bruscamente che non avevo tempo e dovevo pensare alla mia azienda agricola. Che, volente o nolente, quello era il mio lavoro e, a differenza sua, era tutto quello che avevo. E che anche tutti gli altri non erano messi meglio, sempre alle prese con fatica e tasche vuote.
“Hai ragione…!”, mi rispose una volta, “Ho fatto un sacco di soldi, mi sono comprato una casa immensa e lussuosa e potrei fare cento volte il giro del mondo. Ma dopo gli allenamenti o la partita sono sempre da solo! Non posso neanche mettere fuori il naso dalla porta perchè, quando già a 21 anni guadagni 100 mila euro al mese, la prima cosa che accade è che ti ritrovi circondato da una pletora di persone che vogliono trascinarti in giro, che insistono per sfoggiarti come fossi un trofeo, per portarti a cena al ristorante che tanto poi il conto lo pagherai tu, perché sei ricco! Centinaia di persone, che manco conosco, che ti segnano col dito, che vogliono l’autografo o un selfie o mi chiedono di mettere una buona parola per un provino. Gente che si gonfia come un pallone e non sa che viviamo in un mondo pieno di spilli. Senza contare i giornalisti, buoni quelli, che mi fanno le domande più idiote solo per la loro fottuta audience, come se io avessi la sfera di cristallo, come se io fossi un pezzo di legno senza sentimenti!”.
Fissai lo schermo del telefono con la stessa faccia da ebete che assumono, di solito, gli spettatori dei numeri di lap-dance.
“Ma soprattutto, lo sai qual’è il vero problema?”, incalzò con l’affanno sempre più evidente.
“Il vero problema è che ti circondi di gente che ti dà sempre ragione. E quando ti abitui così, finisci con l’allontanare i veri amici, gli unici che avrebbero il coraggio di dirti quando stai sbagliando o di avvertirti se ti stai cacciando nei guai.....”.
Ci fu un attimo di silenzio durante il quale potevo percepire il ritmo del suo respiro gareggiare con i battiti del mio cuore.
“E allora, la vuoi la morale della storia?”.
Ascoltai la domanda come se nel mio stomaco si rotolasse un porcospino.
“La morale della storia non c’è, o forse sì, ed è quella che mi insegnavano mamma e papà quand’ero bambino: la vita ti mette davanti a scelte giuste o sbagliate: spetta a te imboccare la strada corretta. E se non ce la fai sono cavoli tuoi, perché alla fine c’è sempre un prezzo da pagare!”.
“Beh, non durerà mica per sempre!”, buttai là, “Tra quattro o cinque anni, potresti già ritirarti e vivere di rendita. Allora non avresti più bisogno del più lussuoso palazzo della città, potresti andare tranquillo dove cavolo ti pare e mandare affanculo tutti!”.
“Si è vero! Ma non ce la faccio a tirare ancora così tanto!”, sbottò, “E dopo? Cosa cambierebbe dopo? Spenti i riflettori avrei tutto il tempo libero che voglio. Per rimanere da solo. Proprio come adesso!”.
L’ultima volta che lo sentii fu due giorni prima che si buttasse. Al solo pensiero la gola mi si stringe come se avessi ingoiato una manciata di sabbia.
La Domenica precedente era l’ultima di campionato ed avevano giocato contro la capolista: dopo una lotta serrata, con sorpassi e controsorpassi durata per quasi tutto il campionato, il distacco tra le due squadre si era ridotto ad un solo punto.
La Domenica precedente era l’ultima di campionato ed avevano giocato contro la capolista: dopo una lotta serrata, con sorpassi e controsorpassi durata per quasi tutto il campionato, il distacco tra le due squadre si era ridotto ad un solo punto.
Vincere significava portarsi a casa lo scudetto.
Il Rosso segnò una rete fantastica, una delle sue, bellissima: mezza rovesciata al volo, di collo pieno, da fuori area, come aveva escogitato al campetto qui in paese, perché non voleva mai entrare in area e trovarsi a tu per tu con Adolfo e Chicco pronti a mangiarselo vivo.
Nel secondo tempo, però, gli avversari pareggiarono.
A quattro minuti dal termine aveva sul piede il pallone del vantaggio.
Dopo una lunga galoppata, dove aveva scartato anche gli stewards, come se sentisse ancora il fiato rovente di Claudio e Fabio sul collo, si era trovato da solo davanti al portiere.
Scartato anche quello, doveva solo appoggiare la palla in rete. Per lui era un gioco da ragazzi e ce l’avrebbe fatta ad occhi chiusi.
E infatti il suo tocco, di sinistro, a girare, al limite dell’area piccola, fu eccezionale e non lo avrebbe preso nemmeno Superman.
Però fu troppo angolato.
La palla schizzò via a fil di palo e addio scudetto.
La stampa e la televisione lo misero in croce: il grande giornalista scrisse un articolo di fuoco definendolo, solo per una rete sbagliata, addirittura “Il campione venduto” mentre sui social si faceva a gara a chi postava la vignetta più bastarda.
Lo chiamai e gli dissi di non preoccuparsi, di non badare alle chiacchiere, alla carta stampata ed alle cazzate di quattro idioti sul Web. Un solo errore non può cancellare dieci anni e passa di successi.
“Ci crederesti?”, rispose il Rosso, “Quando ho avuto sul piede la palla del vantaggio ho chiuso gli occhi e mi sono trovato nel nostro vecchio campetto al paese. Fa ridere, vero? Non ero più davanti a ottantamila persone ma ero ancora là, in mezzo a polvere e sassi, insieme a te, Claudio, Fabio, Mario, Adolfo e tutti gli altri!”.
Stavo per rispondergli che, in effetti, così poteva tranquillamente partecipare al prossimo casting di Zelig, ma la sua voce cambiò prima di tono e poi si ruppe, “Quando sono arrivato davanti al portiere ho visto te…. e allora….ho tirato come facevo quando eravamo ragazzi. Ho cercato di fare un tiro speciale, imprendibile, perché vedevo che in porta c’era il migliore di tutti. Ma quando ho riaperto gli occhi tu non c’eri….cazzo….non c’eri!!”.
Obiettai che era bella da ridere. “E io sarei migliore di un portiere che gioca in serie A?”. Che la andasse a raccontare a qualcun altro! “Come no!”, lo canzonai, “Io che a trentacinque anni cammino già col bastone devo perdere del tempo ad ascoltare le balle del capocannoniere di serie A!”.
Il Rosso ritornò serio: “Certe volte è meglio camminare col bastone che lottare da solo contro un mondo che amavi ma che ora ti opprime e non ti appartiene più. Certe volte è meglio impiegare mezzora per fare una rampa di scale, ma avere una moglie che ti vuole bene e ti aiuta, a differenza delle donne che ho trovato io, che stavano con me solo per i soldi. Certe volte è meglio avere pochi amici, ma sinceri, piuttosto che trovarsi accanto decine di persone belle, ma vuote, che pretendono di cucire le tue ferite con dei punti di vista e che stanno con te solo per mettersi in mostra!”.
“Beato te!”, esclamò poi, “Che puoi andare dove ti pare senza che nessuno ti dia fastidio! Beato te che puoi ricordare le nostre partitelle, nel campetto dietro la chiesa, senza metterti a piangere anche se riesci a malapena a camminare!”.
E prima di riattaccare, sibilò: “A conti fatti, credo proprio che quel pomeriggio di tanti anni fa avresti fatto meglio a portare a riva il pallone e lasciare andare me.…”.
Ma, in definitiva, queste non sono le cose che contano. Quello che conta è che tutti quei bambini non ci sono più perché sono diventati grandi.
Quello che conta è che il Rosso si è buttato e io non ero là a prenderlo come avevo fatto tanti anni fa.
Quello che conta è che lui anche oggi aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a vincere la forza della corrente.
Ma queste non sono nemmeno le cose che interesseranno al grande giornalista.
Lui ha già detto e scritto abbastanza e i milioni di sportivi avranno concluso che il grande campione ha perso l’equilibrio dopo una serata, come dire, un po’ allegra. I milioni di sportivi avranno concluso che non vale la pena piangere un grande atleta che butta uno scudetto nel cesso e poi se ne va a ballare ubriaco sul davanzale della finestra.
Ed io preferisco pensare che sia andata veramente così: “Ci crederesti? Ho inventato un nuovo passo di danza e adesso lo provo sul davanzale dopo essermi riempito come un mastello....!”.
Preferisco pensare che il Rosso lo abbia fatto veramente, piuttosto di credere che si fosse convinto di essere stato abbandonato da tutti, anche da me, e di non avere più nessuno che lo aiutasse a vincere la forza della corrente.
Non vorrei che lo avesse pensato davvero perché avrebbe significato che io non avevo capito niente.
Se lo avessi capito non mi sarei sempre negato quando mi cercava, quando le sue certezze venivano spazzate via, come cenere dalla cicca, non dal lieve alito che accarezza il granoturco e si destreggia tra robinie e sambuchi, ma dal vento gelido e tagliente che incide il cuore e scava negli abissi della mente. Quando i mostri peggiori non si trovano nascosti nel buio, ma sono lì che ti guardano in faccia e ti sorridono.
Ma oggi non dirò nulla di questo al grande giornalista. Lo terrò per me.
Per lui inventerò qualcosa d’altro. Se ne avrò voglia.
Probabilmente il grande giornalista, dalla coda di paglia, si arrabbierà moltissimo con me perché gli ho fatto fare tutta questa strada per niente e mi dirà anche un sacco di brutte parole.
Però neanche questa è una cosa importante. Mia moglie si è appena alzata e mi raggiunge in giardino: il cielo ora è azzurro e pulito, le poche nuvole si sono diradate, trasformandosi in vaghe pennellate di grigio.
Lo osservo attentamente e mi manca il respiro.
“Non piangere!”, mi consola, “Esuberante e allegro come era, da lassù non ne sarebbe contento!”.
Poi si avvicina e mi da un bacio tra i capelli. E io mi asciugo le lacrime e realizzo che, bastone o non bastone, avrò sempre qualcuno che mi aiuterà a vincere la forza della corrente.
Ma, nonostante questo, da tre giorni il sonno tarda sempre a venire.
Quando sono a letto e provo a chiudere gli occhi vedo sempre una ciurma di ragazzini che urlano correndo dietro al pallone ed uno di essi, con i capelli a caschetto, rossi, prende palla a metà campo, scarta tutta la difesa, e arriva da solo fino in porta.
Davanti a me.
Poi si ferma, per un attimo, e mi guarda intensamente e i sui occhi sembrano volermi dire qualche cosa.
E ogni mattina, quando scendo in cucina, i ragazzini sono lì, stampati sulla fotografia che mi aspetta sul caminetto.
E’ sempre la stessa fotografia, di una squadra di ragazzini scalmanati in posa con l’ennesimo trofeo appena vinto.
Ci sono Mario, Adolfo, Claudio, Fabio, Chicco, Stefano e Gigi.
E c’è anche lui, il Rosso. E’ sempre quello in piedi, a sinistra.
Ha sempre gli stessi capelli a caschetto color rosso fuoco.
E anche i suoi occhi sono sempre gli stessi.
E poi ci sono anche io.
Dovrei essere quello in mezzo, con i guanti ma, francamente, credo ormai di non esserlo più.
Racconto scritto il 05/04/2022 - 10:24
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Commenti
Grazie Zio Frank per il commento positivo. Sono contento che il racconto ti sia piaciuto!
Paolo Guastone 06/04/2022 - 09:24
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Bella storia di vita vissuta
Zio Frank 05/04/2022 - 17:09
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