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Brinstone e l\'ombra della gatta

Il bavero del cappotto alzato, gli occhi sbarrati verso il nulla.


«Rivedo così la mia immagine, riflessa su un finestrino, il pensiero d'essere padrone di me stesso e delle mie azioni... Che non corrispondeva mai al mio quotidiano agire fatto di paure e incertezze.
Scorrevano davanti ai miei occhi immagini dai contorni sfumati e ombrosi mentre persone malinconiche nell'essenza e frettolose nel camminare se ne stavano in disparte come fantasmi,
eppure io le vedevo così grevi e tristi nella loro staticità che parevano far parte realmente di un altro vivere.
Una vita distante da quel mondo attuale che le avvolgeva stritolandole con il suo vuoto interiore»


Presi un treno a caso, il primo per la laguna, il lavoro mi attendeva.
Intorno a me percepivo il suono del silenzio, fatto dei frastuoni della quotidianità ed essi sembravano raccontare di ciò che era stato, cosa sarebbe avvenuto solo se... Come la vita andava e perché il mondo era cosi unico e diseguale, un universo seduto su un sedile del treno.
Mi estraniai dalla confusione e, guardando attraverso il vetro appannato, osservai l'acqua stantia che ancora dormiva.
A tenermi compagnia erano le briccole che affondavano dentro la laguna, pali in legno di quercia che in gruppi di tre puntellavano il mare segnando i canali navigabili e l'altezza delle maree.
L'aspetto verdastro, donatogli da alghe e licheni, le rendevano invisibili allo sguardo distratto.
Un caffè ristretto era nei miei pensieri; entrai nel primo bar a tiro di piede e ordinai un bicchiere di tequila.


«Un latte macchiato»


S'intrecciavano i pensieri, affogati in quel bicchiere fumante di immaginata Tequila e lo facevano talmente tanto che il lavoro di colpo non rientrava più nei miei piani contingenti.
Ero stanco e depresso, uscito dal bar mi diressi dritto verso l'ufficio perché l’incoerenza regnava in me.
Procedevo con calma gustandomi vetrine e panorama, anche se non me ne fregava proprio nulla di tutto quel mondo.
Mi ritrovai immerso nel sestiere di Cannaregio fra vie e salizade che, snodandosi davanti agli occhi, lasciavano intravedere case segnate dal tempo ed esse mi apparivano nei loro colori, tra il rosso vivido e il giallo spento sembravano costruzioni plasmate dai secoli con una squadra geometrica in molteplici forme che, chissà per quale motivo, costringevano la vista a divagazioni non consone a essa.
Preso da un passo veloce attraversai il mercato del pesce e mi avviai verso il ponte di Rialto,
salii quei marmorei scalini che, degradando in un grigio tenue, bene s'accordavano con la giornata plumbea e nebbiosa, una volta in cima ammirai il corso del Canal Grande governato da acque melmose che poco lasciavano vedere dei fondali.
Eppure v'era più vita in quei fondali di tanti luoghi che avevo visto in precedenza e, nell'avviarmi verso la mia meta, ebbi un sussulto nel pensiero: “Che contraddizione, io così estraneo a quei luoghi, eppure così vicino a loro, venivo da lontano ma ero a casa”.
Mi inoltrai sotto gli archi che squadravano la piazza, tra caffè e vetrine polverose.
Girai il nottolino della porta e mi tuffai nel mio mondo quotidiano mentre la nebbia, persistente e gelida, faceva percepire solo i rumori lontani e i rigurgiti d'acqua causati dai traghetti nel momento dell'attracco al molo.
Il moto ondoso delle imbarcazioni lasciava un verdastro segno d'alghe sulle facciate dei palazzi ma questo non disturbava il sonno del tempo all'interno della stanza; gli oggetti impolverati, posati sui mobili, erano l'unica cosa in ordine nel caos totale.


«Non mi presento ancora, lo farò dopo, per ora ho voluto portarvi a spasso con me nella storia. Non potevo mica sbattervela in faccia subito.»
Le gambe accavallate sul banco e le idee morte accartocciate insieme ai fogli sulla scrivania,
una sedia a dondolo accompagnava il movimento del capo, abbandonato all'incipiente mondo onirico e un refolo di vento penetrava dai buchi d'un legname prezioso mangiato dai tarli.
Questo sbuffo volteggiava nell'ambiente come un acrobata sul trapezio facendo muovere il lampadario, appeso al soffitto; un vecchio orologio a pendolo, relegato in un angolo, discorreva di remote ore con un topo che, per non essere in disaccordo con quel quadro, nel frattempo raspava lentamente sulle pareti in cerca d'una via d'uscita.
Una radiolina diffondeva le note dell'adagio di Albinoni e la scena si chiudeva così…


La porta si spalancò aprendo ante sdrucite su un cumulo di polvere, la stantia aria non era una comparsa anzi, la protagonista principale.
Una donna apparve con indosso un abito di panno grigio e una grande sciarpa rossa di seta, a circondare il collo.
Un saluto appena accennato e due passi all'interno della stanza, le impronte in terra ben visibili non lasciavano dubbi sulla pulizia del luogo, un giornale sgualcito sotto il braccio.
Henry sfilò gli occhiali dal viso e, strizzandosi gli occhi, con il gesto tipico di chi non vede luce da molto tempo, con lo sguardo stralunato alzò la testa. Con voce roca, rotta da un colpo di tosse, invitò la signora a sedersi sulla sedia davanti a lui.
Il suo primo pensiero volse alle giustificazioni improponibili per la sciatta visione fornita dall'ambiente.
Si scusò con fare goffo del cumulo di carte che copriva tutto il piano della scrivania.
La donna ebbe un attimo di titubanza prima di accettare l'invito a sedersi e, nel farlo, posò sul tavolo il giornale che aveva con sé.
La maldestra predisposizione all'equilibrio consentì a una bottiglia di tequila di versare il suo prezioso contenuto sul piano di vetro, che copriva la vecchia scrivania.
Henry tirò fuori un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e lo pose sul liquido riuscendo a salvare il plico appoggiato dalla signora, gli sguardi dei due s'incrociarono e l'incertezza regnò per qualche secondo.
D'improvviso una gatta color champagne, dai grandi occhi arancioni, saltò sulla scrivania e, con fare curioso, cominciò a ballonzolare come una danzatrice provetta.
Henry chiese perdono di quella irruzione e la presentò come la sua insostituibile assistente dal nome Tekila.
Intanto dalle finestre il buio cominciava a far capolino e la surreale atmosfera di quella stanza si accentuava sempre di più, la città accendeva le luci e la storia cominciava a nascere fra le pieghe della polvere.
La notte miagolò mentre Brinstone ascoltava interessato le parole di quella signora.
Quando le parole finirono la donna misteriosa si alzò, lo prese per la camicia e gli piazzò un bacio sulle labbra lasciandolo attonito e perplesso, poi, così come era venuta, se ne andò via in una nuvola di fumo mista a un odore di spezie orientali che avrebbero stordito anche uno privo di olfatto.
Il giornale brillava a bella posa sulla scrivania e Henry, con la sua incongruenza, lo prese e lo lanciò verso il cestino della spazzatura, dopo averlo appallottolato facendogli fare un bel volo di precisione verso il canestro.
Da quel cartoccio volò via un biglietto che Henry raccolse e dirottò nel medesimo cestino, era il biglietto per un museo...
A lui non importava nemmeno di quel museo, con tutta quella polvere che si ritrovava in ufficio non pensava affatto a un museo ma... I pensieri erano tutti per quella donna.
Recuperò il biglietto e decise di visitare quel posto di vetusti oggetti.
L'indomani lasciò in terra una scodella di cibo per la gatta e, dopo aver chiuso la porta dell'ufficio con un colpo secco, si avviò verso la fermata dei traghetti.
Nella testa del detective riecheggiavano le parole della misteriosa donna e di un certo incarico da definire a riguardo di strane sparizioni di oggetti di proprietà della stessa, ma il tutto era rimasto vago in attesa di essere definito in un prossimo incontro.
Henry, pur non ammettendo a se stesso il fatto, s'era innamorato.
Nell'attesa, per non cedere a una certa frenesia interiore, la visita a quel museo lo avrebbe distratto.
Arrivò alla fermata del traghetto e prese la direzione ferrovia, era un freddissimo sabato d'inverno e la nebbia ancora avvolgeva tutto.
Il museo, una collezione unica di vecchie lanterne magiche, si trovava in una città non troppo distante e bastava prendere un treno locale per arrivarci.


«Il detective non guida, non ha patente, si lascia trasportare da qualsiasi cosa e prende spesso il treno.»


Nel tragitto lungo il canale il freddo aveva reso il suo volto d'un colorito purpureo e il suo naso gocciolava come una fontanella, avendo dimenticato d'indossare almeno una sciarpa, visto il clima inclemente.
Per raggiungere la meta bastava prendere un treno locale, uno di quelli dalle stoffe vellutate rosse, unte e bisunte, dal leggero odore di frittura di mare e… quelle nella loro gradevolezza accolsero il suo sedere per circa venti minuti, inondandolo di sensazioni da locanda e per un attimo il suo cervello si distrasse dal chiodo fisso che l'incontro aveva piantato bene in profondità.
Una decina di semafori rossi da rispettare, qualche precedenza e il treno arrivò puntuale nel ritardo alla meta.
Il soffritto gelato a cui si era sottoposto mal volentieri gli aveva messo fame e l'idea di un boccone caldo sembrava la migliore.
Assonnato come mai prese a camminare nella sua andatura “sgnoccolata” da tipo con le mani in tasca e proprio da essa una sorpresa venne fuori, quel giornale che aveva buttato nel cestino...
Da dove spuntava fuori?
«Inaugurato il nuovo museo delle Lanterne Magiche. Ecco il discorso d'apertura del direttore.
Nella nebbia che avvolge la nostra città, pare che le visioni, celate in questi luoghi, siano la simbiosi ideale della giornata.
Mi accingo a tagliare, come una nave che vede il mare per la prima volta, il nastro che tiene legate le sensazioni e le emozioni. Partiamo allora dal nostro porto, cari amici, e navighiamo, attraverso queste macchine meravigliose, nel mondo del precinema.
Oggi le visioni saranno le muse che ci accompagneranno in questo incredibile viaggio.
Ciò che vedrete sarà realtà o fantasia, in una miscela non divisibile.
Le illusioni create dai vetrini colorati vi stupiranno e cattureranno, forse per sempre.
Vi ricordo anche che, nelle sere di nebbia, la realtà svanisce e l'irrealtà vive attorno a una sciarpa di seta rossa, e con questo enigma vi lascio alla visita del museo, grazie a tutti».
Questo il testo a piè di pagina...


Un investigatore avrebbe cercato di capire, d'immaginare, d'essere concreto nelle deduzioni, invece lui no, era il re del tutto e il contrario di tutto, così fregandosene del conoscere si fece prendere dalla curiosità della non curiosità...
Un ristorante aperto per spezzare il buco nello stomaco e “fanculo” tutto il resto.
Entrò in una bettola dal nome medievale, “Il falconiere d'oro”.
Patatine fritte e cotoletta alla milanese con contorno di mozzarella e foglie di scarola il menù scelto.


All’uscita dal sollazzo gastronomico una strana ragazza si avvicinò chiedendogli di leggergli la mano, Henry non era tipo da luna nera e maghe ma gli occhi verdi della tipa lo attirarono.


«Prendi questa sciarpa rossa, te la manda un'amica»
«E la mano non la leggi?»
«Non serve, era una scusa per darti questa cosa»
«Aspetta, dove vai?»



E quella ragazza svanì in mezzo al dedalo dei portici...


Henry intanto continuava a pensare al prossimo incontro con la signora dell'ufficio e così immerso avvolse il collo in quella sciarpa.
Il tempo si indirizzava nuovamente verso una fitta nebbia e il passo di Henry si fece più deciso verso la sede del museo situato in una grande piazza ovale colma di statue e portici.


L'ingresso era una piccola porta in legno che si apriva verso una lunghissima e articolata scalinata che portava in alto, Henry la salì a fatica accorgendosi solo dopo della presenza d'un ascensore.
L'interno del museo era completamente tappezzato di velluti e tappeti rossi e in bella mostra nelle teche moltissime antiche macchine, le famose lanterne magiche che rappresentavano una collezione proveniente da tutto il mondo.
Nel biglietto d'ingresso era compresa la visione d'un filmato che narrava la storia della fondatrice del museo e di come fosse nata la sua passione per quegli strumenti antidiluviani del cinematografo.
Il detective passò un po' di tempo gironzolando in quel luogo e la vera sorpresa arrivò alla proiezione del film, la fondatrice del museo era la sosia della famigerata donna vista nel suo ufficio.
Sconvolto uscì dalla sala, scendendo a rotta di collo le scale, che portavano all'uscita e ritrovandosi nella piazza sottostante avvolto da una fitta nebbia scesa fittissima durante la sua visita al museo.
Tutto era celato e i piedistalli, che sorreggevano le numerose statue, parevano vuoti.
Le pulsazioni del cuore salivano sempre più, cosa stava accadendo? E dove diamine erano finite le statue. Henry cominciò a correre sotto i portici avvolto dalla nebbia e dalle ombre della sera mentre un crogiolo di voci lo perseguitava in teste e quelle voci sembravano chiamarlo e… strane figure apparivano e sparivano dentro i portici; a ogni passo la testa ruotava in tutte le direzioni.
Il rumore del suo correre rimbombava sul lastricato di porfido spandendosi sotto i portici di una città apparentemente deserta e il vuoto amplificava il suono stesso dei passi come un tamburo impazzito.
La nebbia abbracciava ogni cosa ed Henry non distingueva più nulla, voci, solo voci afone e inquietanti che lo inseguivano.
Le statue avevano preso vita e la città era alla loro mercé, poi una mano fredda afferrò per un braccio Henry, la sua testa si voltò con il terrore dipinto dentro lo sguardo.
Era lei, il suo colpo di fulmine, che lo bloccava, sì la donna misteriosa dell’ufficio.


«Non dovresti andare in giro da solo con questo tempo, può essere pericoloso»
«Chi sei tu veramente?»
«Questa sciarpa rossa è mia»


Lei sorrise facendo sciogliere l'orrore dal viso di Henry, le mani si strinsero e quelle dell'investigatore salirono lungo il corpo della donna.
Nulla esisteva nulla intorno, la nebbia era svanita insieme alle voci e tutto sembrava un sogno.


«Signore il museo chiude si svegli per favore, sta dormendo dall'inizio della proiezione del film.»


Henry scese le scale lentamente e si avviò verso la stazione, nella piazza, sopra il piedistallo di marmo d’una statua una figura si muoveva, si avvicinò timoroso, poi un miagolio familiare... Era la sua gatta Tekila con intorno al collo una sciarpa rossa.




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Racconto scritto il 07/05/2022 - 19:36
Da Jean Charles G.
Letta n.480 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Simpaticissimo e fantasioso questo bel racconto.

Maria Luisa Bandiera 09/05/2022 - 13:56

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Grazie di cuore Mirko e grazie Marina per la tua presenza e grazie Anna. Buona domenica a tutti e auguri alle mamme.

Jean C. G. 08/05/2022 - 07:47

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Molto, molto bello. Non scopriamo oggi la tua bravura nello scrivere, ma mi ha sorpreso piacevolmente la vena di simpatia. Complimenti

Mirko D. Mastro 08/05/2022 - 07:21

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Simpaticissimo racconto con finale a sorpresa, come sottolinea Anna.
Sei davvero un ottimo narratore,
i miei complimenti, Jean

Marina Assanti 07/05/2022 - 21:38

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Sono arrivata all'Adagio - meraviglioso - di Albinoni, perfetta colonna sonora all'ambientazione di questo splendido racconto... alla seconda puntata... Complimenti!!!

Marina Assanti 07/05/2022 - 20:43

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Che simpatico racconto scritto in maniera invidiabile e non mo aspettavo così la fine. La bravura sta appunto qui.

Anna Cenni 07/05/2022 - 20:24

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Ciao, Jean.
Per ora ho letto solo l'incipit.
Dovrò leggerti a puntate perché ho un problema agli occhi che non mi consente di stancarli.
Preferisco essere sincera perché amo tantissimo come scrivi... per ora mi hai incuriosita... alla prossima puntata!

Marina Assanti 07/05/2022 - 20:15

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