Estate in campagna dell’anno….boh, non so quanti anni avessi al tempo. Non molti comunque.
Ero piccolo.
Il solco delle mie vacanze era tracciato in un minuscolo paesino dove tutti si conoscevano e le galline razzolavano per la strada. Case gialle da una parte, frumento e granoturco dall’altra erano le sponde di quel solco. La città era lontana e in giro c’era odore di terra ed erba fresca e il pane aveva il sapore del grano.
L’afa di Agosto soffocava peggio di un cuscino premuto sulla faccia, e la banda, al completo, sudava dentro quel rifugio improvvisato su un albero, al limitare del paese, verso quella distesa infinita di campi che si spingeva fino al paese vicino.
Già…. ecco quale era la cosa di cui discutevamo là sopra, tra mosche e tafani grossi come rondini, fin da quando ci eravamo radunati dopo un pranzo sempre troppo veloce.
Lo avevano fatto di nuovo. Malgrado fossimo sempre riusciti a sconfiggerli, ci avevano riprovato. La banda dei nostri coetanei del paese confinante ci aveva nuovamente sfidati in una di quelle partite di pallone che, a quei tempi, si potevano ben considerare all’ultimo sangue.
Questa volta, ad andare in trasferta sarebbe toccato a noi, ma non era questo il problema che ci preoccupava. Tre chilometri per andare ed altrettanti al ritorno, in bicicletta, erano una distanza ridicola. Il vero problema era che Gigi, il nostro attaccante, non sarebbe potuto venire con noi.
Suo papà era stato inflessibile. Non gli aveva permesso di venire perché doveva aiutarlo a finire un lavoro, ed era un lavoro pesante anche per un uomo, perché si trattava di rastrellare il fieno e accatastarlo sul fienile. Figuriamoci per un bambino.
Prima di pranzo Gigi tentò di protestare, ma fu tutto inutile. Anche noi provammo a dargli manforte ma ci fermammo quasi subito: contare sulla pazienza di genitori rudi e sfiancati dal lavoro rappresentava un eccesso di ottimismo che poteva costare caro.
Senza Gigi saremmo stati in seria difficoltà. In porta, io dicevo di essere il numero uno, Fabio, al centrocampo, era il miglior regista, in difesa, con Adolfo non si passava e Mario, Chicco e tutti altri avrebbero corso fino a farsi collassare gli organi interni.
Però senza i goal di Gigi non sarebbe bastato.
La discussione andò avanti per bel pezzo per decidere se giocare senza attacco ed andare incontro ad una più che probabile sconfitta, oppure, tagliare la testa al toro e non presentarci nemmeno.
Ad un certo punto ebbi un’illuminazione e mi stiracchiai con un’espressione sognante, come un gatto appena risvegliato da una mano giocosa. “Ragazzi!”, annunciai alla banda ipnotizzata dai miei occhietti neri che si muovevano rapidi, “Non ci resta altro che la Soluzione Finale!”.
Così scendemmo dal rifugio e marciammo verso la casa di Gigi per mettere in pratica la soluzione finale nei confronti di suo padre.
Eravamo in sette e tutti decisi. Passammo dagli orti per non essere visti e, in breve tempo, sgusciammo dietro il capanno degli attrezzi, dove c’erano le armi che ci servivano.
Il papà di Gigi se ne stava seduto sotto il portico, fumando una delle sue solite sigarette, che avrebbero fatto venire il cancro ad un rinoceronte, e non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi di quello che gli stava per capitare.
Lavorammo come schiavi, con forconi e rastrelli ma, alla fine, il padre di Gigi ebbe tutto il suo fieno accatastato, noi potemmo disporre di un attaccante fenomenale, che ci regalò l’ennesima vittoria, ed io mi presi una solenne sgridata dalla nonna quando tornai a casa a sera inoltrata.
“Lo riferirò a tuo padre quando verrà sabato….!”, gridò, levando in alto il dito ammonitore, ma io feci finta di nulla e corsi ad immergermi nel mastello pieno di acqua gelida.
Il grande sole giocava a nascondino tra i pioppi e disegnava l’ultima pennellata di rosso. Nelle risaie le rane accordavano i loro strumenti per la solita cantilena serale.
Insaponai la spugna e cominciai a grattare.
Avevamo vinto e lo avevamo fatto tutti insieme.
Il resto aveva poca importanza.
Ero piccolo.
Il solco delle mie vacanze era tracciato in un minuscolo paesino dove tutti si conoscevano e le galline razzolavano per la strada. Case gialle da una parte, frumento e granoturco dall’altra erano le sponde di quel solco. La città era lontana e in giro c’era odore di terra ed erba fresca e il pane aveva il sapore del grano.
L’afa di Agosto soffocava peggio di un cuscino premuto sulla faccia, e la banda, al completo, sudava dentro quel rifugio improvvisato su un albero, al limitare del paese, verso quella distesa infinita di campi che si spingeva fino al paese vicino.
Già…. ecco quale era la cosa di cui discutevamo là sopra, tra mosche e tafani grossi come rondini, fin da quando ci eravamo radunati dopo un pranzo sempre troppo veloce.
Lo avevano fatto di nuovo. Malgrado fossimo sempre riusciti a sconfiggerli, ci avevano riprovato. La banda dei nostri coetanei del paese confinante ci aveva nuovamente sfidati in una di quelle partite di pallone che, a quei tempi, si potevano ben considerare all’ultimo sangue.
Questa volta, ad andare in trasferta sarebbe toccato a noi, ma non era questo il problema che ci preoccupava. Tre chilometri per andare ed altrettanti al ritorno, in bicicletta, erano una distanza ridicola. Il vero problema era che Gigi, il nostro attaccante, non sarebbe potuto venire con noi.
Suo papà era stato inflessibile. Non gli aveva permesso di venire perché doveva aiutarlo a finire un lavoro, ed era un lavoro pesante anche per un uomo, perché si trattava di rastrellare il fieno e accatastarlo sul fienile. Figuriamoci per un bambino.
Prima di pranzo Gigi tentò di protestare, ma fu tutto inutile. Anche noi provammo a dargli manforte ma ci fermammo quasi subito: contare sulla pazienza di genitori rudi e sfiancati dal lavoro rappresentava un eccesso di ottimismo che poteva costare caro.
Senza Gigi saremmo stati in seria difficoltà. In porta, io dicevo di essere il numero uno, Fabio, al centrocampo, era il miglior regista, in difesa, con Adolfo non si passava e Mario, Chicco e tutti altri avrebbero corso fino a farsi collassare gli organi interni.
Però senza i goal di Gigi non sarebbe bastato.
La discussione andò avanti per bel pezzo per decidere se giocare senza attacco ed andare incontro ad una più che probabile sconfitta, oppure, tagliare la testa al toro e non presentarci nemmeno.
Ad un certo punto ebbi un’illuminazione e mi stiracchiai con un’espressione sognante, come un gatto appena risvegliato da una mano giocosa. “Ragazzi!”, annunciai alla banda ipnotizzata dai miei occhietti neri che si muovevano rapidi, “Non ci resta altro che la Soluzione Finale!”.
Così scendemmo dal rifugio e marciammo verso la casa di Gigi per mettere in pratica la soluzione finale nei confronti di suo padre.
Eravamo in sette e tutti decisi. Passammo dagli orti per non essere visti e, in breve tempo, sgusciammo dietro il capanno degli attrezzi, dove c’erano le armi che ci servivano.
Il papà di Gigi se ne stava seduto sotto il portico, fumando una delle sue solite sigarette, che avrebbero fatto venire il cancro ad un rinoceronte, e non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi di quello che gli stava per capitare.
Lavorammo come schiavi, con forconi e rastrelli ma, alla fine, il padre di Gigi ebbe tutto il suo fieno accatastato, noi potemmo disporre di un attaccante fenomenale, che ci regalò l’ennesima vittoria, ed io mi presi una solenne sgridata dalla nonna quando tornai a casa a sera inoltrata.
“Lo riferirò a tuo padre quando verrà sabato….!”, gridò, levando in alto il dito ammonitore, ma io feci finta di nulla e corsi ad immergermi nel mastello pieno di acqua gelida.
Il grande sole giocava a nascondino tra i pioppi e disegnava l’ultima pennellata di rosso. Nelle risaie le rane accordavano i loro strumenti per la solita cantilena serale.
Insaponai la spugna e cominciai a grattare.
Avevamo vinto e lo avevamo fatto tutti insieme.
Il resto aveva poca importanza.
Racconto scritto il 07/10/2022 - 12:38
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