Nella vecchia cittadina di Elsinore ogni anno si svolgeva la sagra dei fenomeni da baraccone, uno spettacolo messo in piedi dai tirapiedi del Signore del luogo, il sovrano del castello di Kronborg, che non badava a spese per intrattenere il pubblico smanioso di oscenità e colpi ad effetto.
Il pubblico, diceva il gran Signore, è come un sonnambulo al quale si può consigliare di dormire nel letame spacciandolo per un letto dalle lenzuola illibate; il giorno dopo, al suo risveglio, imbarazzato farà ritorno a casa dicendo di aver lottato nel fango mentre tentava di difendere l'onore di una bella fanciulla.
La festa si svolgeva tutta in un giorno e vedeva gente di diversa estrazione accapigliarsi per avere i posti migliori agli spettacoli di punta. Quell'anno, si diceva, ci sarebbero stati artisti e novità sensazionali e il divertimento sarebbe stato assicurato dai fenomeni della Confraternita Remo, una piccola compagnia circense caduta in disgrazia a seguito della grande carestia di fine secolo e che adesso si esibiva con uno show davvero singolare: Mostri. Reietti umani della peggiore specie, menomati dalla nascita e condotti in tournée da loschi figuri davvero à la page.
Sullo sfondo, e lì doveva rimanere, c'era la miseria: il grande nemico dei regnanti ancor prima che dei morti di fame, il male generato dai trastulli umani, dalla ignavia dei balordi e dei miscredenti.
L'intera festa era patrocinata dalla comunità ecclesiale del luogo, vescovo in testa accomodato in prima fila e inamidato per il discorso di apertura: "abbiate cura delle vostre anime oh miei fedeli, perché il giorno del giudizio è dietro l'angolo e il forcone della bestia è pronto a infilzarvi per cuocervi a dovere. Detto ciò, che si dia inizio ai festeggiamenti!"
Al suono di tromba e rullo di tamburi l'intera macchina scenica si mise in funzione e in poco tempo tutti dimenticarono i propri affanni, le proprie paure e la cosa peggiore in assoluto: la Peste.
Il grande evento ebbe inizio e banchetti e banconi di ogni tipo ospitavano curiosità e bizzarrie per tutti i gusti.
C'era lo stand delle armi, preso d'assalto da cavalieri, uomini d'onore e bellimbusti in erba che tastavano e collaudavano baionette, pugnali dall'esotica fattura, lance ed elmetti all'ultimo grido. Saturi di testosterone e acquavite si azzuffavano e si sfidavano a duello per mostrarsi virili di fronte alle pompose soubrette in esposizione con il resto della mercanzia.
C'era lo stand dei prodotti di bellezza e degli oli essenziali circondato da un nugolo di dolci donzelle dalla chioma scarlatta e dall'occhio vispo. In preda a una febbre tarantolata adocchiavano questo e quell'altro unguento profumato e urlavano e battibeccavano per ingraziarsi i favori degli astuti commercianti. Di tanto in tanto poi succedeva che un nobile gentiluomo passava di lì sornione e lesto dava una sbirciata alla merce invidiando in cuor suo di essere troppo "maschio" per quelle primizie così meravigliosamente femminili.
Altra attrattiva di successo non poteva che essere il grande padiglione della lotta: qui, insieme ad animali misti tra quadrupedi e pennuti, gareggiavano anche schiavi e servi di qualsiasi etnia. Perché si sa, nello sport siamo tutti uguali, lo specificò finanche il vescovo in un altro dei suoi sfavillanti interventi a proposito di due atleti interamente ricoperti di fango, uno bianco e l'altro nero come la pece: "lodiamo il Signore Iddio per averci dato questi due splendidi atleti, fulgido esempio di forza e coraggio. E poco importa se l'uno è stato munto dal seno fertile di una vacca e l'altro spinto a fatica dal didietro di un montone. Dobbiamo rendere grazie per i loro servigi!"
Il pubblico rise abbondantemente e gli atleti benedetti si scannarono sino all'ultimo respiro tra il tripudio e gli applausi.
Ma la sagra conservava un portentoso asso nella manica e questo tutti lo sapevano bene, e quando l'ora si avvicinò una gran frenesia si sparse nell'aria oscurando il cielo della ragione come un potente sedativo.
Ci fu un improvviso e incontrollabile parapiglia e da ogni stand, compresi quelli del cibo e delle bevande, a centinaia tra uomini e donne confluirono visibilmente eccitati per ciò che stava per accadere in direzione del vero spettacolo.
Da uno dei torrioni del castello si udì il riverbero di un corno da battaglia e la gente guadagnò, non senza creare scompiglio, il proprio posto nell'ampio anfiteatro.
Più che a un anfiteatro, quel grottesco palcoscenico impolverato assomigliava molto ad un'arena con un grosso tendone al centro, e da quel tendone ci si attendevano prodigi di meschinità senza precedenti. D'altronde la gente era venuta per questo: assistere al meglio del peggio del folclore umano condito in salsa ironica, perché con la scusa dell'ironia si può giustificare ogni genere di immondizia.
La tensione crebbe e il pubblico smanioso seguiva in un silenzio surreale le ombre dietro il sipario.
Ci fu un urlo, seguito a stretto giro da una sorta di preambolo: "la Confraternita Remo è orgogliosa di presentarvi le sue amate, invidiate, temute creature. Madame e monsieur destatevi, la corte dei sogni proibiti sta per fare il suo ingresso!"
Il sipario si spalancò e una schiera di umanoidi, forse il risultato di una mutazione genetica o di una serie di esperimenti perversi, avanzò a passo svelto come in una sfilata guadagnando il centro della scena, disponendosi l'uno affianco a l'altro.
Ci fu qualche sussulto proveniente dalle ultime file, poi nulla più che un brusio indistinto. Infine calò il silenzio, un silenzio che aleggiava sui corpi menomati di quelle creature come una fuliggine pesante e indiscreta.
Nani, storpi, amorfi, spilungoni dal collo a giraffa, albini dalla pelle talmente candida da lasciare intravedere vene e tessuti, maculati, ricoperti di bolle ed escrescenze irregolari, colossi dalla pelle ferrosa e luccicante come metallo fuso, senza gambe o con tre braccia, senza braccia e con il corpo interamente rivestito da una peluria folta e zebrata, senza braccia né gambe portati in spalla come uno zaino da viaggio.
Il presentatore, o se volete il padrone, schioccò un paio di volte la frusta a terra e le creature iniziarono a salutare e a fare cenni ammiccanti alla folla, la quale ricambiò timidamente con qualche sorriso dalle prime file.
"Allora, madame e monsieur, non sono la cosa più bella che abbiate mai visto in vita vostra?! Guardateli, ammirateli. Non vi capiterà mai più di vedere un assortimento così vasto di stranezze e rarità. Madre Natura ha dato loro doni e qualità come nessun altro sulla verde terra di Dio. E sono qui per voi, oh privilegiati, perché possiate gustare queste prelibatezze seduti comodamente ai vostri posti".
Un altro schiocco di frusta e quei poveretti iniziarono a muoversi in cerchio accennando a qualche passo di danza esotica, accompagnati da musica e risate; il pubblico iniziò a sciogliersi e a portare il tempo con le mani, qualcuno fischiava e inveiva con insulti e derisione, altri con la bocca aperta e gli occhi sgranati continuavano a fissare lo spettacolo come ipnotizzati. Volarono monetine d'argento, bracciali e preziosi di dubbia fattura che finivano un po' dappertutto e spesso colpivano una delle creature in movimento.
La folla si infiammò e il presentatore esultante la sfidò a fare del suo peggio.
Per un istante lo spettacolo sembrò invertirsi: adesso era il pubblico il vero show dei fenomeni da baraccone. La gente si spingeva, grugniva e imprecava come se stesse sul punto di impazzire o di linciare un povero malcapitato.
All'apice del delirio, alcune guardie si posizionarono tra la scena e la prima fila per timore che la cosa potesse degenerare in una vera e propria sommossa.
Ma improvvisamente tornò la calma. Fu un attimo, come il silenzio sospeso tra il fulmine e il boato del tuono. Dal fondo del tendone si udirono una voce solenne e un tramestio di tamburi in marcia che annunciavano l'entrata imponente del Sovrano, il Signore del castello di Kronborg.
Il pubblico si alzò in piedi e ci fu un lungo applauso e tre urrà per sua altezza che salutò il suo popolo con le movenze di un padre affettuoso.
Nel frattempo, due paggi di corte avevano portato un piccolo baldacchino sul quale adagiarono una sedia molto simile al trono reale; il Sovrano prese posto end the show must go on!
"Maestà, la Confraternita Remo vi dà il suo caloroso e riverente benvenuto. Per voi, e solo per voi, è riservato il numero finale!"
La tensione si tagliava a fette.
"Che entrino i ballerini!"
Il Signore storse il muso e aggrottò le sopracciglia, ma quando i nuovi arrivati si presentarono al suo cospetto la sua espressione fu tutta un programma.
"Buon Dio misericordioso!" esclamò, rivolgendosi prima al presentatore poi al pubblico.
"Mio Signore, questo è il nostro dono più prezioso. Il dono che la compagnia elargisce a vostra maestà!"
Le creature, che adesso si erano disposte su due file, iniziarono ad applaudire e incoraggiare le due punte di diamante visibilmente intimorite: "Vostra altezza, madame e monsieur, ecco a voi la principessa Esmeralda e il rospo!" sostanzialmente si trattava di due nani: l'uno, il rospo, di dimensioni normali, ovvero non più alto di un metro; l'altra, la principessa, alta esattamente la metà del suo cavaliere.
La gente non credeva a ciò che stava assistendo e nel tentativo di farsi più avanti generò un nuovo parapiglia che si concluse con l'ordine da parte del Signore di fare silenzio.
"Fate danzare la principessa! Sono curioso".
Una melodia orientaleggiante affiorò da qualche parte in quel marasma dei sensi e i due piccoli ballerini danzarono con grazia e disinvoltura, guardandosi negli occhi come farebbero due giovani innamorati all'acme del loro amore.
Il mondo continuava a girare, girare, girare in un senso e loro danzavano nel senso opposto dimostrando di non sentire né vedere né badare alla mediocrità di quella plebaglia.
Come due delicate bambole di porcellana, conclusero il loro numero con un notevole volteggio e un rispettoso inchino, si voltarono in direzione del tendone e scomparvero dalla scena dando le spalle a tutti.
Re, pubblico e organizzatori rimasero di ghiaccio di fronte a quella lezione di personalità e tanta, tantissima dignità.
La sagra di Elsinore si concluse e tutti fecero ritorno alle proprie vite con un profondo senso di vuoto e di incertezza.
L'anno mille era alle porte, la Peste dimezzava l'Europa e il nuovo mondo non poteva nascere perché il vecchio non moriva.
C'è una morale in questa storia?
Forse.
Probabilmente però è la solita di sempre, che echeggia nel cuore dell'umanità come un mantra invisibile e inascoltato, ecco perché siamo ancora qui a ripeterlo.
"Il sonno della ragione genera mostri".
È il pubblico il vero mostro.
Il pubblico, diceva il gran Signore, è come un sonnambulo al quale si può consigliare di dormire nel letame spacciandolo per un letto dalle lenzuola illibate; il giorno dopo, al suo risveglio, imbarazzato farà ritorno a casa dicendo di aver lottato nel fango mentre tentava di difendere l'onore di una bella fanciulla.
La festa si svolgeva tutta in un giorno e vedeva gente di diversa estrazione accapigliarsi per avere i posti migliori agli spettacoli di punta. Quell'anno, si diceva, ci sarebbero stati artisti e novità sensazionali e il divertimento sarebbe stato assicurato dai fenomeni della Confraternita Remo, una piccola compagnia circense caduta in disgrazia a seguito della grande carestia di fine secolo e che adesso si esibiva con uno show davvero singolare: Mostri. Reietti umani della peggiore specie, menomati dalla nascita e condotti in tournée da loschi figuri davvero à la page.
Sullo sfondo, e lì doveva rimanere, c'era la miseria: il grande nemico dei regnanti ancor prima che dei morti di fame, il male generato dai trastulli umani, dalla ignavia dei balordi e dei miscredenti.
L'intera festa era patrocinata dalla comunità ecclesiale del luogo, vescovo in testa accomodato in prima fila e inamidato per il discorso di apertura: "abbiate cura delle vostre anime oh miei fedeli, perché il giorno del giudizio è dietro l'angolo e il forcone della bestia è pronto a infilzarvi per cuocervi a dovere. Detto ciò, che si dia inizio ai festeggiamenti!"
Al suono di tromba e rullo di tamburi l'intera macchina scenica si mise in funzione e in poco tempo tutti dimenticarono i propri affanni, le proprie paure e la cosa peggiore in assoluto: la Peste.
Il grande evento ebbe inizio e banchetti e banconi di ogni tipo ospitavano curiosità e bizzarrie per tutti i gusti.
C'era lo stand delle armi, preso d'assalto da cavalieri, uomini d'onore e bellimbusti in erba che tastavano e collaudavano baionette, pugnali dall'esotica fattura, lance ed elmetti all'ultimo grido. Saturi di testosterone e acquavite si azzuffavano e si sfidavano a duello per mostrarsi virili di fronte alle pompose soubrette in esposizione con il resto della mercanzia.
C'era lo stand dei prodotti di bellezza e degli oli essenziali circondato da un nugolo di dolci donzelle dalla chioma scarlatta e dall'occhio vispo. In preda a una febbre tarantolata adocchiavano questo e quell'altro unguento profumato e urlavano e battibeccavano per ingraziarsi i favori degli astuti commercianti. Di tanto in tanto poi succedeva che un nobile gentiluomo passava di lì sornione e lesto dava una sbirciata alla merce invidiando in cuor suo di essere troppo "maschio" per quelle primizie così meravigliosamente femminili.
Altra attrattiva di successo non poteva che essere il grande padiglione della lotta: qui, insieme ad animali misti tra quadrupedi e pennuti, gareggiavano anche schiavi e servi di qualsiasi etnia. Perché si sa, nello sport siamo tutti uguali, lo specificò finanche il vescovo in un altro dei suoi sfavillanti interventi a proposito di due atleti interamente ricoperti di fango, uno bianco e l'altro nero come la pece: "lodiamo il Signore Iddio per averci dato questi due splendidi atleti, fulgido esempio di forza e coraggio. E poco importa se l'uno è stato munto dal seno fertile di una vacca e l'altro spinto a fatica dal didietro di un montone. Dobbiamo rendere grazie per i loro servigi!"
Il pubblico rise abbondantemente e gli atleti benedetti si scannarono sino all'ultimo respiro tra il tripudio e gli applausi.
Ma la sagra conservava un portentoso asso nella manica e questo tutti lo sapevano bene, e quando l'ora si avvicinò una gran frenesia si sparse nell'aria oscurando il cielo della ragione come un potente sedativo.
Ci fu un improvviso e incontrollabile parapiglia e da ogni stand, compresi quelli del cibo e delle bevande, a centinaia tra uomini e donne confluirono visibilmente eccitati per ciò che stava per accadere in direzione del vero spettacolo.
Da uno dei torrioni del castello si udì il riverbero di un corno da battaglia e la gente guadagnò, non senza creare scompiglio, il proprio posto nell'ampio anfiteatro.
Più che a un anfiteatro, quel grottesco palcoscenico impolverato assomigliava molto ad un'arena con un grosso tendone al centro, e da quel tendone ci si attendevano prodigi di meschinità senza precedenti. D'altronde la gente era venuta per questo: assistere al meglio del peggio del folclore umano condito in salsa ironica, perché con la scusa dell'ironia si può giustificare ogni genere di immondizia.
La tensione crebbe e il pubblico smanioso seguiva in un silenzio surreale le ombre dietro il sipario.
Ci fu un urlo, seguito a stretto giro da una sorta di preambolo: "la Confraternita Remo è orgogliosa di presentarvi le sue amate, invidiate, temute creature. Madame e monsieur destatevi, la corte dei sogni proibiti sta per fare il suo ingresso!"
Il sipario si spalancò e una schiera di umanoidi, forse il risultato di una mutazione genetica o di una serie di esperimenti perversi, avanzò a passo svelto come in una sfilata guadagnando il centro della scena, disponendosi l'uno affianco a l'altro.
Ci fu qualche sussulto proveniente dalle ultime file, poi nulla più che un brusio indistinto. Infine calò il silenzio, un silenzio che aleggiava sui corpi menomati di quelle creature come una fuliggine pesante e indiscreta.
Nani, storpi, amorfi, spilungoni dal collo a giraffa, albini dalla pelle talmente candida da lasciare intravedere vene e tessuti, maculati, ricoperti di bolle ed escrescenze irregolari, colossi dalla pelle ferrosa e luccicante come metallo fuso, senza gambe o con tre braccia, senza braccia e con il corpo interamente rivestito da una peluria folta e zebrata, senza braccia né gambe portati in spalla come uno zaino da viaggio.
Il presentatore, o se volete il padrone, schioccò un paio di volte la frusta a terra e le creature iniziarono a salutare e a fare cenni ammiccanti alla folla, la quale ricambiò timidamente con qualche sorriso dalle prime file.
"Allora, madame e monsieur, non sono la cosa più bella che abbiate mai visto in vita vostra?! Guardateli, ammirateli. Non vi capiterà mai più di vedere un assortimento così vasto di stranezze e rarità. Madre Natura ha dato loro doni e qualità come nessun altro sulla verde terra di Dio. E sono qui per voi, oh privilegiati, perché possiate gustare queste prelibatezze seduti comodamente ai vostri posti".
Un altro schiocco di frusta e quei poveretti iniziarono a muoversi in cerchio accennando a qualche passo di danza esotica, accompagnati da musica e risate; il pubblico iniziò a sciogliersi e a portare il tempo con le mani, qualcuno fischiava e inveiva con insulti e derisione, altri con la bocca aperta e gli occhi sgranati continuavano a fissare lo spettacolo come ipnotizzati. Volarono monetine d'argento, bracciali e preziosi di dubbia fattura che finivano un po' dappertutto e spesso colpivano una delle creature in movimento.
La folla si infiammò e il presentatore esultante la sfidò a fare del suo peggio.
Per un istante lo spettacolo sembrò invertirsi: adesso era il pubblico il vero show dei fenomeni da baraccone. La gente si spingeva, grugniva e imprecava come se stesse sul punto di impazzire o di linciare un povero malcapitato.
All'apice del delirio, alcune guardie si posizionarono tra la scena e la prima fila per timore che la cosa potesse degenerare in una vera e propria sommossa.
Ma improvvisamente tornò la calma. Fu un attimo, come il silenzio sospeso tra il fulmine e il boato del tuono. Dal fondo del tendone si udirono una voce solenne e un tramestio di tamburi in marcia che annunciavano l'entrata imponente del Sovrano, il Signore del castello di Kronborg.
Il pubblico si alzò in piedi e ci fu un lungo applauso e tre urrà per sua altezza che salutò il suo popolo con le movenze di un padre affettuoso.
Nel frattempo, due paggi di corte avevano portato un piccolo baldacchino sul quale adagiarono una sedia molto simile al trono reale; il Sovrano prese posto end the show must go on!
"Maestà, la Confraternita Remo vi dà il suo caloroso e riverente benvenuto. Per voi, e solo per voi, è riservato il numero finale!"
La tensione si tagliava a fette.
"Che entrino i ballerini!"
Il Signore storse il muso e aggrottò le sopracciglia, ma quando i nuovi arrivati si presentarono al suo cospetto la sua espressione fu tutta un programma.
"Buon Dio misericordioso!" esclamò, rivolgendosi prima al presentatore poi al pubblico.
"Mio Signore, questo è il nostro dono più prezioso. Il dono che la compagnia elargisce a vostra maestà!"
Le creature, che adesso si erano disposte su due file, iniziarono ad applaudire e incoraggiare le due punte di diamante visibilmente intimorite: "Vostra altezza, madame e monsieur, ecco a voi la principessa Esmeralda e il rospo!" sostanzialmente si trattava di due nani: l'uno, il rospo, di dimensioni normali, ovvero non più alto di un metro; l'altra, la principessa, alta esattamente la metà del suo cavaliere.
La gente non credeva a ciò che stava assistendo e nel tentativo di farsi più avanti generò un nuovo parapiglia che si concluse con l'ordine da parte del Signore di fare silenzio.
"Fate danzare la principessa! Sono curioso".
Una melodia orientaleggiante affiorò da qualche parte in quel marasma dei sensi e i due piccoli ballerini danzarono con grazia e disinvoltura, guardandosi negli occhi come farebbero due giovani innamorati all'acme del loro amore.
Il mondo continuava a girare, girare, girare in un senso e loro danzavano nel senso opposto dimostrando di non sentire né vedere né badare alla mediocrità di quella plebaglia.
Come due delicate bambole di porcellana, conclusero il loro numero con un notevole volteggio e un rispettoso inchino, si voltarono in direzione del tendone e scomparvero dalla scena dando le spalle a tutti.
Re, pubblico e organizzatori rimasero di ghiaccio di fronte a quella lezione di personalità e tanta, tantissima dignità.
La sagra di Elsinore si concluse e tutti fecero ritorno alle proprie vite con un profondo senso di vuoto e di incertezza.
L'anno mille era alle porte, la Peste dimezzava l'Europa e il nuovo mondo non poteva nascere perché il vecchio non moriva.
C'è una morale in questa storia?
Forse.
Probabilmente però è la solita di sempre, che echeggia nel cuore dell'umanità come un mantra invisibile e inascoltato, ecco perché siamo ancora qui a ripeterlo.
"Il sonno della ragione genera mostri".
È il pubblico il vero mostro.
Racconto scritto il 13/02/2023 - 12:00
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