Quando il cellulare si rianimò, sul ritornello di “Many too many”, il commissario Biancardi era ancora per strada.
Perso nei suoi passi e in troppi pensieri, camminava lentamente, quasi per assaporarne tutta l’essenza antica e genuina, per la stretta via dei Poggi, un lungo cordone ombelicale che tagliava in due il centro storico, un utero accogliente che avvolgeva il passante in un liquido amniotico di silenzio e tranquillità.
Perché bastava spostarsi di un centinaio di passi e si arrivava sul lungomare. E lì erano cazzi. Cazzi amari, partoriti in uno schiamazzo torrido e viscoso di turisti, di auto e di clacson perennemente in colonna, sotto un sole che trasforma tutto in un forno dove cuocere una mandria intera di rinoceronti.
Fissò il display e soffocò una bestemmia.
Dall’altra parte c’era l’ispettore Martelli, il suo vice. Se Martelli telefonava a quell’ora del mattino, i casi erano due: o c’era un cadavere in giro o ai piani alti cercavano il punch-ball di giornata.
Buona la prima.
Una decina di minuti dopo Biancardi arrivò sul posto, appena fuori dal paese, dove la statale e la massicciata della vecchia ferrovia si uniscono, come due sposi davanti all’altare, e corrono insieme lungo il litorale.
Gli agenti avevano disposto i nastri bianchi e rossi per tenere lontano la folla. Intorno, il solito chiassoso carnevale di transenne, lampeggianti e persone, sempre troppe persone. Le telecamere erano già arrivate e c’era gente dappertutto, i curiosi avevano invaso anche il giardinetto e persino il parco giochi dei bambini.
“Tutti qui….per vedere lo show…!”, pensò amaramente Biancardi.
Anche il medico legale e la Scientifica erano già all’opera.
Si avvicinò Martelli. “Qual è la situazione?”, gli chiese perentorio Biancardi, con un tono che sapeva tanto di spremuta di buone maniere andata a male.
“Ecco….è lassù, ma….”, balbettò, poi vedendo che il commissario saliva deciso sulla massicciata, aggiunse: “Guarda che non è un bello spettacolo….”.
Troppo tardi. Biancardi era già arrivato in cima e, con un conato sinistro che riecheggiò nell’aria immobile del mattino, aveva restituito la libertà alla colazione.
Sembrava che là sopra avessero rovesciato un grosso pentolone di trippa. Il cadavere si trovava in cima alla massicciata della vecchia ferrovia dismessa, ma anche tra i cespugli, nella scarpata e fino sui primi rami delle mimose.
“Questo, però, era intero….”, gli sussurrò un tecnico della Scientifica porgendogli un portafoglio.
Il commissario lo aprì e apprese che apparteneva al brillante, ed ormai fu, ingegner Guido Fraschetti.
Il che significava rogne al cubo e rotture di coglioni di proporzioni siderali.
Amico fraterno del Presidente della Regione, di un buon numero di politici e di una mezza dozzina di sindaci, dal capoluogo al confine, l’ingegner Fraschetti aveva cementificato la Riviera, a destra e a manca, innalzando, una dopo l’altra, vere cattedrali nel deserto, quali centri commerciali faraonici, grandiosi multisala, parcheggi sterminati ed edifici dalle forme più strane e bizzarre.
Il suo fiore all’occhiello era stato il progetto della variante di tracciato, a doppio binario, della linea ferroviaria costiera. Una lunga striscia d’acciaio, più a monte della vecchia linea litoranea a binario unico, perfettamente dritta e praticamente tutta in galleria, che tagliava completamente fuori tutti i piccoli borghi.
Biancardi era pronto a giocarsi le palle, con tutto quello che c’era attaccato, che, entro mezzogiorno, sarebbe stato sommerso da migliaia di telefonate di questori, sindaci, assessori e compagnia cantante, tutti in fila a raccomandargli di sbrigarsi ad assicurare alla giustizia l’artefice di quell’orrendo delitto. Il tutto, ovviamente, condito con la neanche troppo velata minaccia di finire la carriera elevando contravvenzioni alle bancarelle del mercato settimanale.
Non ci voleva certo un genio del F.B.I. per capire che a ridurre in quel modo un palestrato poco più che cinquantenne, alto 1,80 m. doveva essere stato qualcosa di grosso.
“Se non fosse che il treno qui ormai non passa più da un pezzo….”, pensò tra sé e sé, “Verrebbe quasi da credere che il nostro ingegnere ci sia appena finito sotto….”.
Tutti sapevano che l’ingegnere curava l’aspetto fisico con un’assiduità quasi maniacale. Di buon mattino, doveva essere salito sulla massicciata per farsi la solita corsetta quotidiana e lì essere stato ucciso. Ma poiché, sulla massicciata, dopo il treno, avevano tolto pure le rotaie, l’ipotesi dell’investimento la si poteva tranquillamente buttare nel cesso.
Biancardi si stiracchiò a lungo, massaggiandosi le spalle indolenzite. Poi sospirò, con forza. I pezzi c’erano ma non combaciavano.
Forse l’ingegnere era stato ucciso altrove e poi trasportato fin là.
Ma perché?
E, soprattutto, da chi?
Di certo l’ingegnere godeva di protezioni di alto livello, però non era da escludere che qualche nemico doveva esserselo fatto.
Forse c’era di mezzo una storia di tangenti. O di donne.
D’accordo, ma perché macellarlo in quel modo?
Il medico legale aveva quasi finito. Biancardi lasciò che ipotesi e teorie volassero via sulle ali della brezza marina e si avvicinò, sperando di avere buone notizie.
“Prima dell’autopsia, sempre se riuscirò a mettere insieme tutti quei pezzi, non posso dire nulla!”.
Come non detto.
Tutte le sue domande trovarono risposta nell’eco del silenzio della vecchia massicciata, tra gallerie vuote e marciapiedi senza più viaggiatori.
Bofonchiò un paio di cose a Martelli e poi scese.
Una volta arrivato in strada, rimase lì, ritto in piedi, accanto alle panchine di pietra. “Giornata pessima per un caso come questo….”, pensò. Il cielo era una grande lastra di acciaio bollente che troncava il sogno del mare, di diventare un oceano sconfinato e lo faceva sembrare un laghetto di montagna. Folate di vento portavano spruzzi di salsedine ed echi di giochi di bambini sotto gli ombrelloni.
Ad un tratto, una voce lo chiamò.
La voce sembrava provenire dal gruppo di curiosi assiepato dietro le transenne.
Si voltò per vedere chi diavolo fosse ed ebbe un tuffo al cuore.
“Eh no, Boschini!!”, urlò, “Non bastava questo casino!! Ti ci devi mettere pure tu!!”.
Arturo Boschini era un settantenne, con un paio di rotelle fuori posto, e quella mattina sembrava più vicino ad un esaurimento nervoso del solito.
Biancardi lo conosceva bene. Tutto il paese lo conosceva bene.
Tirava avanti più per la carità dei vicini che grazie alla misera pensione e viveva in una stamberga in fondo ad un carruggio, vicino al porticciolo, circondato da gatti e da una moltitudine di libri.
Passava tutto il giorno a camminare sulla spiaggia, raccogliendo sassi e mettendoseli in tasca, oppure al bar a bere o alla stazione, quando ancora c’era, a guardare i treni che passavano.
“Commissario….è stato il treno….”, biascicò tra i denti, con gli occhi che vagavano veloci, abbagliati dall’immensità del mare.
Biancardi soffocò un gesto di stizza. “Boschini….guarda….non ho tempo da perdere….”, rispose, cercando di mantenersi calmo, “Lassù il treno non ci passa più da un pezzo!”.
“No, l’ho sentito! Stanotte! E’ passato sulla vecchia massicciata!”.
“Andiamo Boschini….casomai lo avrai sentito passare sulla nuova variante!”.
“Non è possibile!”, si agitò Boschini, “La variante è a monte ed è tutta in galleria! Non si sentono i treni che passano!”.
Ad ogni parola di Boschini, il commissario sospirava come se qualcuno gli stesse succhiando aria dai polmoni, o dandogli una coltellata.
“Bene, allora vorrà dire che ti sei ubriacato, come al solito, e hai sognato tutto!”.
“No, l’ho sentito!! Il treno è passato proprio qui e….”.
Biancardi perse la pazienza: “Adesso basta!! Tu vuoi farmi passare una mattinata stile Dario Argento, ma adesso ti sbatto dentro per intralcio alle indagini!!”.
Boschini abbassò lo sguardo e rimase per un po’a esaminarsi la punta delle scarpe.
"Tornatene a bere e guardare i treni e finiscila di rompermi i coglioni!!”, troncò il commissario, quindi sgattaiolò in fretta in una delle auto di servizio parcheggiate lì accanto e se ne filò a ricomporre quell’assurdo rompicapo in commissariato.
Boschini girò i tacchi senza dire più nulla e si perse, trascinandosi, nello stretto dedalo di viuzze nei pressi del mercato.
Il commissario aveva dovuto barricarsi in ufficio e staccare il telefono per sfuggire alle domande. La scrivania era piena di carte e fascicoli. Ora aveva davanti le foto che la Scientifica gli aveva recapitato e stava cercando di capirci qualcosa, di riannodare gli innumerevoli fili.
I punti di domanda si affollavano a ondate nella sua mente ed erano molti quelli che, quasi sicuramente, sarebbero rimasti tali.
Il commissario chiuse gli occhi. Quando li riaprì gli parve di scorgere, attraverso la finestra, un vago balenio in lontananza, sulla vecchia massicciata. Il movimento rapido delle chiome delle mimose, forse.
Però non c’era un alito di vento.
“Suggestioni…”, rimuginò tra sé e sé , stringendosi in un’alzata di spalle.
Prima di rituffarsi tra le scartoffie, pensò ancora a Boschini e a quello che aveva farfugliato quando lo aveva incontrato. Un sorriso amaro si disegnò sulla smorfia del viso, mentre l’eco delle sue sensazioni si condensava nel rumore sordo di una certezza.
Semplicemente, Boschini era fuori di testa, e questo, era un fatto ormai assodato. Non altrettanto assodato era il fatto che Biancardi, ora, non riusciva più a staccare lo sguardo dalla vecchia massicciata al di là della finestra.
Il riverbero del tramonto la dipingeva di una luce strana, indecifrabile, che colava sul pietrisco privo di traversine e fin dentro le gallerie prive di rotaie, coprendo ogni cosa con una patina giallastra.
Là sopra, le mimose si agitavano ancora, mentre gli alberi dei giardinetti e le palme del lungomare rimanevano immobili.
Quando Boschini arrivò a casa si sedette davanti alla libreria.
In testa gli risuonavano ancora le dure parole del commissario.
Il commissario, pensava, gli aveva dato dell’ubriacone e del rompicoglioni.
Ma lui non faceva del male a nessuno.
E il treno lo aveva sentito veramente.
Il treno era veramente passato sulla vecchia massicciata e aveva travolto l’ingegnere. Per punirlo.
Perché aveva progettato la variante. E aveva lasciato il paese senza più il suo treno.
Rimase lì seduto, a pensare, fino a sera.
Nel tramonto estivo le nubi blu sembravano pesanti drappeggi sullo sfondo multicolore del cielo.
Si alzò e si avvicinò alla libreria. C’erano ancora un po’di cose da fare.
Se il treno era stato gettato via, come uno straccio vecchio, la colpa era dell’ingegnere, certo. Ma non solo.
La colpa era anche di altri. Ad esempio, dei palazzinari che avevano chiesto a gran voce la variante per liberare spazi edificabili in centro, ma anche dei sindaci che avevano barattato la vecchia stazione sul lungomare con una nuova a chilometri di distanza per non intralciare la viabilità e, infine, degli albergatori che la stazione nuova non l’avevano voluta proprio, perché tanto il treno porta solo poveracci mentre, invece, i turisti di livello, quelli con i soldi, arrivano in auto.
Accanto ad innumerevoli libri nuovi e seminuovi, ce ne erano altri, molto più vecchi e sgualciti. Ne scelse uno e andò in cucina.
Fuori dalla finestra, la vecchia massicciata appariva, sotto i raggi tiepidi della luna, come una lingua di terra biancastra, punteggiata da ciuffi d’erba e incisa da solchi profondi, simile a un animale ferito.
Quando ritornò aveva in mano un lungo coltello. Si incise nuove ferite sugli avambracci e con il sangue colato tracciò il cerchio e, all’interno di questo, disegnò il pentacolo.
Poi dispose le candele e le accese.
Il vento della sera sferzava con schiaffi ampi e potenti le palme sul lungomare, che sembravano tante dame genuflesse, e tracciava pennellate spumeggianti sulla cresta delle onde.
La notte giungeva silenziosa e il grande mare la accoglieva con la sua melodia sottile e profonda.
Aprì il libro e cominciò a recitare la formula del rituale di evocazione.
Sul cellulare del sindaco arrivò un SMS e da qualche parte, dentro una delle tante gallerie abbandonate della vecchia ferrovia dismessa, due fanali si accesero.
Perso nei suoi passi e in troppi pensieri, camminava lentamente, quasi per assaporarne tutta l’essenza antica e genuina, per la stretta via dei Poggi, un lungo cordone ombelicale che tagliava in due il centro storico, un utero accogliente che avvolgeva il passante in un liquido amniotico di silenzio e tranquillità.
Perché bastava spostarsi di un centinaio di passi e si arrivava sul lungomare. E lì erano cazzi. Cazzi amari, partoriti in uno schiamazzo torrido e viscoso di turisti, di auto e di clacson perennemente in colonna, sotto un sole che trasforma tutto in un forno dove cuocere una mandria intera di rinoceronti.
Fissò il display e soffocò una bestemmia.
Dall’altra parte c’era l’ispettore Martelli, il suo vice. Se Martelli telefonava a quell’ora del mattino, i casi erano due: o c’era un cadavere in giro o ai piani alti cercavano il punch-ball di giornata.
Buona la prima.
Una decina di minuti dopo Biancardi arrivò sul posto, appena fuori dal paese, dove la statale e la massicciata della vecchia ferrovia si uniscono, come due sposi davanti all’altare, e corrono insieme lungo il litorale.
Gli agenti avevano disposto i nastri bianchi e rossi per tenere lontano la folla. Intorno, il solito chiassoso carnevale di transenne, lampeggianti e persone, sempre troppe persone. Le telecamere erano già arrivate e c’era gente dappertutto, i curiosi avevano invaso anche il giardinetto e persino il parco giochi dei bambini.
“Tutti qui….per vedere lo show…!”, pensò amaramente Biancardi.
Anche il medico legale e la Scientifica erano già all’opera.
Si avvicinò Martelli. “Qual è la situazione?”, gli chiese perentorio Biancardi, con un tono che sapeva tanto di spremuta di buone maniere andata a male.
“Ecco….è lassù, ma….”, balbettò, poi vedendo che il commissario saliva deciso sulla massicciata, aggiunse: “Guarda che non è un bello spettacolo….”.
Troppo tardi. Biancardi era già arrivato in cima e, con un conato sinistro che riecheggiò nell’aria immobile del mattino, aveva restituito la libertà alla colazione.
Sembrava che là sopra avessero rovesciato un grosso pentolone di trippa. Il cadavere si trovava in cima alla massicciata della vecchia ferrovia dismessa, ma anche tra i cespugli, nella scarpata e fino sui primi rami delle mimose.
“Questo, però, era intero….”, gli sussurrò un tecnico della Scientifica porgendogli un portafoglio.
Il commissario lo aprì e apprese che apparteneva al brillante, ed ormai fu, ingegner Guido Fraschetti.
Il che significava rogne al cubo e rotture di coglioni di proporzioni siderali.
Amico fraterno del Presidente della Regione, di un buon numero di politici e di una mezza dozzina di sindaci, dal capoluogo al confine, l’ingegner Fraschetti aveva cementificato la Riviera, a destra e a manca, innalzando, una dopo l’altra, vere cattedrali nel deserto, quali centri commerciali faraonici, grandiosi multisala, parcheggi sterminati ed edifici dalle forme più strane e bizzarre.
Il suo fiore all’occhiello era stato il progetto della variante di tracciato, a doppio binario, della linea ferroviaria costiera. Una lunga striscia d’acciaio, più a monte della vecchia linea litoranea a binario unico, perfettamente dritta e praticamente tutta in galleria, che tagliava completamente fuori tutti i piccoli borghi.
Biancardi era pronto a giocarsi le palle, con tutto quello che c’era attaccato, che, entro mezzogiorno, sarebbe stato sommerso da migliaia di telefonate di questori, sindaci, assessori e compagnia cantante, tutti in fila a raccomandargli di sbrigarsi ad assicurare alla giustizia l’artefice di quell’orrendo delitto. Il tutto, ovviamente, condito con la neanche troppo velata minaccia di finire la carriera elevando contravvenzioni alle bancarelle del mercato settimanale.
Non ci voleva certo un genio del F.B.I. per capire che a ridurre in quel modo un palestrato poco più che cinquantenne, alto 1,80 m. doveva essere stato qualcosa di grosso.
“Se non fosse che il treno qui ormai non passa più da un pezzo….”, pensò tra sé e sé, “Verrebbe quasi da credere che il nostro ingegnere ci sia appena finito sotto….”.
Tutti sapevano che l’ingegnere curava l’aspetto fisico con un’assiduità quasi maniacale. Di buon mattino, doveva essere salito sulla massicciata per farsi la solita corsetta quotidiana e lì essere stato ucciso. Ma poiché, sulla massicciata, dopo il treno, avevano tolto pure le rotaie, l’ipotesi dell’investimento la si poteva tranquillamente buttare nel cesso.
Biancardi si stiracchiò a lungo, massaggiandosi le spalle indolenzite. Poi sospirò, con forza. I pezzi c’erano ma non combaciavano.
Forse l’ingegnere era stato ucciso altrove e poi trasportato fin là.
Ma perché?
E, soprattutto, da chi?
Di certo l’ingegnere godeva di protezioni di alto livello, però non era da escludere che qualche nemico doveva esserselo fatto.
Forse c’era di mezzo una storia di tangenti. O di donne.
D’accordo, ma perché macellarlo in quel modo?
Il medico legale aveva quasi finito. Biancardi lasciò che ipotesi e teorie volassero via sulle ali della brezza marina e si avvicinò, sperando di avere buone notizie.
“Prima dell’autopsia, sempre se riuscirò a mettere insieme tutti quei pezzi, non posso dire nulla!”.
Come non detto.
Tutte le sue domande trovarono risposta nell’eco del silenzio della vecchia massicciata, tra gallerie vuote e marciapiedi senza più viaggiatori.
Bofonchiò un paio di cose a Martelli e poi scese.
Una volta arrivato in strada, rimase lì, ritto in piedi, accanto alle panchine di pietra. “Giornata pessima per un caso come questo….”, pensò. Il cielo era una grande lastra di acciaio bollente che troncava il sogno del mare, di diventare un oceano sconfinato e lo faceva sembrare un laghetto di montagna. Folate di vento portavano spruzzi di salsedine ed echi di giochi di bambini sotto gli ombrelloni.
Ad un tratto, una voce lo chiamò.
La voce sembrava provenire dal gruppo di curiosi assiepato dietro le transenne.
Si voltò per vedere chi diavolo fosse ed ebbe un tuffo al cuore.
“Eh no, Boschini!!”, urlò, “Non bastava questo casino!! Ti ci devi mettere pure tu!!”.
Arturo Boschini era un settantenne, con un paio di rotelle fuori posto, e quella mattina sembrava più vicino ad un esaurimento nervoso del solito.
Biancardi lo conosceva bene. Tutto il paese lo conosceva bene.
Tirava avanti più per la carità dei vicini che grazie alla misera pensione e viveva in una stamberga in fondo ad un carruggio, vicino al porticciolo, circondato da gatti e da una moltitudine di libri.
Passava tutto il giorno a camminare sulla spiaggia, raccogliendo sassi e mettendoseli in tasca, oppure al bar a bere o alla stazione, quando ancora c’era, a guardare i treni che passavano.
“Commissario….è stato il treno….”, biascicò tra i denti, con gli occhi che vagavano veloci, abbagliati dall’immensità del mare.
Biancardi soffocò un gesto di stizza. “Boschini….guarda….non ho tempo da perdere….”, rispose, cercando di mantenersi calmo, “Lassù il treno non ci passa più da un pezzo!”.
“No, l’ho sentito! Stanotte! E’ passato sulla vecchia massicciata!”.
“Andiamo Boschini….casomai lo avrai sentito passare sulla nuova variante!”.
“Non è possibile!”, si agitò Boschini, “La variante è a monte ed è tutta in galleria! Non si sentono i treni che passano!”.
Ad ogni parola di Boschini, il commissario sospirava come se qualcuno gli stesse succhiando aria dai polmoni, o dandogli una coltellata.
“Bene, allora vorrà dire che ti sei ubriacato, come al solito, e hai sognato tutto!”.
“No, l’ho sentito!! Il treno è passato proprio qui e….”.
Biancardi perse la pazienza: “Adesso basta!! Tu vuoi farmi passare una mattinata stile Dario Argento, ma adesso ti sbatto dentro per intralcio alle indagini!!”.
Boschini abbassò lo sguardo e rimase per un po’a esaminarsi la punta delle scarpe.
"Tornatene a bere e guardare i treni e finiscila di rompermi i coglioni!!”, troncò il commissario, quindi sgattaiolò in fretta in una delle auto di servizio parcheggiate lì accanto e se ne filò a ricomporre quell’assurdo rompicapo in commissariato.
Boschini girò i tacchi senza dire più nulla e si perse, trascinandosi, nello stretto dedalo di viuzze nei pressi del mercato.
Il commissario aveva dovuto barricarsi in ufficio e staccare il telefono per sfuggire alle domande. La scrivania era piena di carte e fascicoli. Ora aveva davanti le foto che la Scientifica gli aveva recapitato e stava cercando di capirci qualcosa, di riannodare gli innumerevoli fili.
I punti di domanda si affollavano a ondate nella sua mente ed erano molti quelli che, quasi sicuramente, sarebbero rimasti tali.
Il commissario chiuse gli occhi. Quando li riaprì gli parve di scorgere, attraverso la finestra, un vago balenio in lontananza, sulla vecchia massicciata. Il movimento rapido delle chiome delle mimose, forse.
Però non c’era un alito di vento.
“Suggestioni…”, rimuginò tra sé e sé , stringendosi in un’alzata di spalle.
Prima di rituffarsi tra le scartoffie, pensò ancora a Boschini e a quello che aveva farfugliato quando lo aveva incontrato. Un sorriso amaro si disegnò sulla smorfia del viso, mentre l’eco delle sue sensazioni si condensava nel rumore sordo di una certezza.
Semplicemente, Boschini era fuori di testa, e questo, era un fatto ormai assodato. Non altrettanto assodato era il fatto che Biancardi, ora, non riusciva più a staccare lo sguardo dalla vecchia massicciata al di là della finestra.
Il riverbero del tramonto la dipingeva di una luce strana, indecifrabile, che colava sul pietrisco privo di traversine e fin dentro le gallerie prive di rotaie, coprendo ogni cosa con una patina giallastra.
Là sopra, le mimose si agitavano ancora, mentre gli alberi dei giardinetti e le palme del lungomare rimanevano immobili.
Quando Boschini arrivò a casa si sedette davanti alla libreria.
In testa gli risuonavano ancora le dure parole del commissario.
Il commissario, pensava, gli aveva dato dell’ubriacone e del rompicoglioni.
Ma lui non faceva del male a nessuno.
E il treno lo aveva sentito veramente.
Il treno era veramente passato sulla vecchia massicciata e aveva travolto l’ingegnere. Per punirlo.
Perché aveva progettato la variante. E aveva lasciato il paese senza più il suo treno.
Rimase lì seduto, a pensare, fino a sera.
Nel tramonto estivo le nubi blu sembravano pesanti drappeggi sullo sfondo multicolore del cielo.
Si alzò e si avvicinò alla libreria. C’erano ancora un po’di cose da fare.
Se il treno era stato gettato via, come uno straccio vecchio, la colpa era dell’ingegnere, certo. Ma non solo.
La colpa era anche di altri. Ad esempio, dei palazzinari che avevano chiesto a gran voce la variante per liberare spazi edificabili in centro, ma anche dei sindaci che avevano barattato la vecchia stazione sul lungomare con una nuova a chilometri di distanza per non intralciare la viabilità e, infine, degli albergatori che la stazione nuova non l’avevano voluta proprio, perché tanto il treno porta solo poveracci mentre, invece, i turisti di livello, quelli con i soldi, arrivano in auto.
Accanto ad innumerevoli libri nuovi e seminuovi, ce ne erano altri, molto più vecchi e sgualciti. Ne scelse uno e andò in cucina.
Fuori dalla finestra, la vecchia massicciata appariva, sotto i raggi tiepidi della luna, come una lingua di terra biancastra, punteggiata da ciuffi d’erba e incisa da solchi profondi, simile a un animale ferito.
Quando ritornò aveva in mano un lungo coltello. Si incise nuove ferite sugli avambracci e con il sangue colato tracciò il cerchio e, all’interno di questo, disegnò il pentacolo.
Poi dispose le candele e le accese.
Il vento della sera sferzava con schiaffi ampi e potenti le palme sul lungomare, che sembravano tante dame genuflesse, e tracciava pennellate spumeggianti sulla cresta delle onde.
La notte giungeva silenziosa e il grande mare la accoglieva con la sua melodia sottile e profonda.
Aprì il libro e cominciò a recitare la formula del rituale di evocazione.
Sul cellulare del sindaco arrivò un SMS e da qualche parte, dentro una delle tante gallerie abbandonate della vecchia ferrovia dismessa, due fanali si accesero.
Racconto scritto il 27/06/2023 - 10:38
Letta n.266 volte.
Voto: | su 0 votanti |
Commenti
Nessun commento è presente
Inserisci il tuo commento
Per inserire un commento e per VOTARE devi collegarti alla tua area privata.