Pensiero antalgico
« Buon giorno a lei. Mal di schiena, oggi? »
Come possa aver capito, la mia psicologa, che ho mal di schiena, è un mistero.
Avrò la faccia scura, oppure sul mio viso trapela una smorfia di dolore, o che altro? Sta di fatto che è vero. Anche se, in fondo, non sono qui per questo.
« Sì, no...insomma sì, ho mal di schiena, ma non sono qui per questo. »
« Certamente, lo so bene. Solo che notavo questa sua novità. Non credo proprio ci sia un
qualsiasi legame con i suoi attacchi di panico. »
« Scusi dottoressa, ma da cosa l'ha capito che ho la schiena a pezzi? Mi si vede in faccia? », insisto io, dimostrandomi un tantino curioso. E seccato, anche. Quest'ultimo stato d'animo riesco a mascherarlo bene, tuttavia.
Questa dottoressa, carina, anzi diciamola tutta, una donna avvenente mascherata da professionista del cervello, mi ha sempre creato un doppio o forse anche triplo sentimento.
Da una parte mi sento in soggezione, perché sono Giulia dipendente. Giulia è il suo nome.
L'ho divinizzata, credo.
Mi aggrappo a lei per sopravvivere, mi fido ciecamente delle sue analisi e dei suoi consigli. E pure il Tavor che mi ha prescritto mi ha portato dei grossi benefici, anche se quella leggera depressione respiratoria che è insorta limita molto le mie capacita di tenere il ritmo nei lunghi percorsi di nuoto.
Ho dovuto portare l'allenamento a due chilometri al giorno, anziché tre. E le gare ne risentono. Ultimamente non vinco più. Ma, in ultima istanza, chi se ne frega. Lo so di essere bravo, non lo devo dimostrare per forza.
Per un altro verso, tuttavia, la odio. Oddio, non proprio; diciamo che sentendomi dipendente dalle sue capacità psichiche, mi sento inferiore, quasi soggiogato.
Schiavo della sua mente, ecco.
E' scocciante, questa cosa, per uno stronzo come me che si crede bravo in tante cose.
Specialmente perché sono un uomo, anche se riconosco che è sbagliato distinguere. Oltretutto io sono uno che riconosce la superiorità della donna in tutti i campi; mi sa che se Giulia fosse stata un uomo avrei avuto lo stesso disagio, vale a dire mi sarei sentito sottomesso.
Il fatto è che se dipendo da lei significa che le sono inferiore; questa è una brutta sensazione, per me.
Sto bene, ma sto male, nello stesso momento. Come a dire: mentre lei mi fa stare un po' meglio fisicamente, sto un po' peggio con la mia autostima.
Prima non dormivo, e stavo male. Adesso dormo, ma sto male perché sogno, o meglio ho l'incubo, di essere schiavo di qualcosa o qualcuno. Un circolo vizioso.
Il problema è il mio cervello malato. O il mio carattere. Ma c'è una vera differenza, alla fine?
Non lo so. Il carattere dove sta, nel cervello?...forse.
E poi c'è un terzo sentimento. Quello più classico, terra terra, quello che ti fa sperare che prima o poi guarirai e le potrai chiedere se vuole uscire con te. Allora sì che...che?
Non so, che...insomma, mi piacerebbe provarci. Sotto quel freddo camice deve pur esserci, un cuore. E mi sa che non è così freddo, come parrebbe di primo acchito. Così razionale. Mai conosciuto cuori razionali. Cervelli, forse, ma cuori.
Si, lo so, è la sindrome del paziente che s'innamora della sua psichiatra. Già sentita questa tiritera. Inoltre la deontologia professionale vieta a lei di avere una confidenza intima con il sottoscritto. So anche questo.
Balle. Emerite stronzate. Lei le chiamerebbe amenità, sciocchezze senza importanza. E allora diciamo pure che sono amenità.
Ma la voglia di lei rimane, comunque la si voglia prendere.
Le voglie non sono delitti, e non sono punibili, e tanto meno censurabili. I desideri sono sogni, e viceversa. Nulla e nessuno può infrangerli. Prima o poi ci provo, con Giulia...al diavolo la sindrome del paziente e la deontologia professionale. Deve essere molto bello parlare del mio panico a letto, con lei che mi rassicura amorevolmente.
« L'ho capito dalla sua posizione antalgica, mio caro. Appena entrato, mentre chiudeva la porta.»
Sta parlando del mio mal di schiena, se ho ben inteso. Ma, mi pare abbia detto “mio caro”...forse una mia impressione, uno scherzo del desiderio.
L'ha capito dalla mia posizione antalgica? Che abbia subodorato che mi piacerebbe andarci a letto e abbracciarla, stringendola con i miei ottantatré chili di muscoli e voglie?
Dio buono, no. Impossibile. E allora che cosa significa posizione antalgica?
Ripercorro le mie scarse nozioni di greco antico...Algos, forse è il dolore.
Certo, deve essere proprio così: lombalgia, mialgia, nevralgia...sono tipi di dolore. Almeno credo.
Antalgico dovrebbe essere contro, o assenza di dolore.
Quindi, in altre parole, io avrei assunto una posizione che mi permette di sentire il mio corpo, in particolare la schiena, come se non fosse sottoposta al dolore, o quanto meno risultasse attenuato. Anzi, visto che non lo sapevo nemmeno questo fatto, allora vuol dire che ha fatto tutto da sé, il mio corpo, accordandosi con il cervello, a mia insaputa. Come avrà fatto senza dirmelo, è un mistero. Una sorta di tresca biologica alle mie spalle. Le particelle elementari della genetica che barano per ingannare l'insieme, cioè io. Ma poi mi chiedo: non era malato il mio cervello? E allora, come ha fatto...
« E anche dopo, quando si è seduto. Specialmente quando l'ho vista appoggiare le mani alla scrivania, tenere la schiena dritta e piegare le gambe. Non l'aveva mai fatto, nelle altre sedute, di assumere una precisa posizione antalgica.»
Ah, ma allora insiste. Caspita, mi controlla anche le gambe, le mani, la schiena. Ne deduco che c'è una speranza...e poi mi ha chiamato “mio caro”, prima. Adesso ne ho quasi la certezza.
« Antalgico...senza dolore, giusto? E' così o sbaglio...», dico io quasi per legittima difesa.
« Sì, esattamente...ma parliamo del suo problema. Come sta adesso? Dorme, spero...»
Dormirei meglio, mi viene spontaneo pensare, se anziché il Tavor fossi tu a darmi la ninna nanna. Certo che peso, lo so. Ma tu potresti cantarmi la nenia ed io prenderti in braccio, e cullarti. Do ut des.
Dopo dormirei meglio. Abbasso il Tavor e viva l'amore. Ma non un amore qualsiasi; proprio il tuo, Giulia.
« Sì, adesso dormo...», mi ritrovo a dire laconicamente, in maniera automatica.
Ma il pensiero è da tutt'altra parte.
Antalgico. Che idea. Posizione antalgica. Questo vale per il corpo, credo. Un fatto biologico. Ma passerà pure per il cervello l'informazione del dolore, o no? E ci sarà qualcuno che gliela dà quell'informazione, o sbaglio? Poi lui rimedia con appropriati consigli al corpo. Così dev'essere.
Se il discorso è giusto vuol dire che quando il cervello ha notizia di un dolore trova una specie di rimedio, una soluzione almeno temporanea.
Pensare che un corpo sia in grado quasi autonomamente, senza l'intervento di un medico, di assumere una posizione tale da far scomparire il dolore, è una cosa che mi affascina.
Una speciale armonia: cuore, corpo, mente, spirito.
E non si può fare per il dolore dell'anima, il tormento di un pensiero, il cosi detto chiodo fisso? No si può trovare la posizione cerebro-antalgica per le paure, gli attacchi di panico e i momenti di tristezza patologica? E per la mancanza d'amore, come la mettiamo? E il dolore dei momenti nei quali ti prende la nostalgia, dolce ma pungente?
Non sarà possibile trovare la posizione antalgica del pensiero per ognuno di questi dolori? Per il malato d'amore e per il poeta in preda ad attacchi di nostalgia, per il depresso e per chi è stanco di vivere. Sarebbe troppo bello. Un pensiero positivo in grado di sconfiggerne uno negativo.
Espongo sommariamente a Giulia questa mia tesi, questo dubbio, questa domanda. Anzi, questa esigenza.
Voglio un pensiero antalgico. Ho deciso. Lo voglio fortemente.
« E' possibile? Ci vuole molto esercizio? » dico io, vedendo un barlume di guarigione.
« Sono qui per questo. Anzi, per la precisione, lei è qui per questo. Per trovare il pensiero antalgico. Insieme...», dice lei molto carinamente.
Quell'insieme è già antalgico di suo.
Si accende la lampadina. Sento il sangue nelle vene sottoposto ad un ciclo di ferro e fuoco, di guerra e pace. Una specie di ciclo di Carnot: espansioni della mente e compressioni del cuore. Non più adiabatiche ed isoterme, ma trasformazioni psico-antalgiche.
Io questo pensiero ce l'ho già. Quindi la dottoressa non serve più, come psichiatra. Come donna sì, che serve.
« Ce l'ho già questo pensiero, Giulia. L'ho capito ora. »
« Io l'avevo capito da un po'...cosa credi. »
Mi alzo contento. Mi ha dato del tu. Forse la deontologia professionale vacilla...oppure non mi considera più un paziente. Entrambe le cose sono punti a mio vantaggio. Forse sto vincendo questa benedetta partita.
Ci diamo la mano, ed io mi indugio a guardarla, la sua. Quelle dita mi fanno sognare. Chissà se potrebbero mai accarezzarmi.
Poi le guardo il viso. E gli occhi. Ha un dolce sorriso sulle labbra. Tutto è dolce, in lei, per la verità. Ma io non sono ammalato di diabete d'amore; queste dolcezze non possono farmi male. Tutt'altro. Comincio già a sentirmi meno vulnerabile.
« Arrivederci, allora. A presto », dico meccanicamente. Immagino di avere un aspetto trasognato, angelico; è così che mi sento. Forse accenno anche ad un sorriso idiota.
Mentre esco il mio pensiero antalgico si fa corpo, ed assume una forma. Che bella forma.
Quella di Giulia sotto il camice. Anzi, senza camice.
Cammino spedito, non ho più nemmeno il mal di schiena. Ad un pensiero fisso se n'è sostituito un altro, antalgico. Molto, ma molto meglio. Anche se resterà solo un pensiero.
O forse no.
P.S. Questo è il primo racconto della raccolta che ha vinto il Premio Piero Chiara.
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È così che mi piace leggerti... racconto MAGNIFICO