Un matrimonio così. Contratto per bisogno di avere qualcuno accanto, per solitudine e per vendetta. Vendetta verso i genitori. In opposizione alle loro scenate, alle loro pazzie, aveva sposato un uomo che era l’esatto contrario di ciò che essi desideravano. Del Sud, di sinistra e agnostico. Inoltre, non particolarmente attraente e colto, soltanto razionale e pratico: vale a dire il contrario di ciò che desiderava lei.
Puniva sé stessa: ritorceva contro di sé il senso della colpa per l’unione infelice dei suoi, la rabbia per i vuoti sentimentali che imputava alla sua mancanza di charme e capacità di relazione.
E i giorni a venire sarebbero stati amari. Amarissimi.
Perché al disamore avrebbe dovuto contrapporre la forza della volontà, per non nuocere ai figli, la capacità di reggere le messe in scena per nascondere al mondo ciò che provava.
Col tempo, però, la disciplina del lavoro giornaliero, l’isolamento nel paesino di poche anime, lo spirito di servizio del marito, la preghiera assidua, l’avevano indotta a un modus vivendi equilibrato che significava virtù.
Virtù, saggezza, accettazione. Così si era risolta, così si era votata.
Ma quando conobbe Ferruccio, ciò che aveva cacciato nei recessi più profondi cominciò a risalire.
Il primo giorno di scuola Ferruccio entrò in classe col flauto in mano. Disse ai ragazzi:
-Io non sono il pifferaio di Hamelin ma Tamino e vi guiderò a conoscere le vibrazioni dell’anima e il significato dell’armonia.
Aveva una voce ineffabile, modi gentili, sensibilità affiorante.
Era incredibilmente irreale e incredibilmente vero.
All’inizio lei cacciò nei reconditi i fremiti e il trepidare. Ignorò la voce che la chiamava dalla stanza più interna chiusa col chiavistello.
Poi, furono i versi.
A chiusura d’anno, tra lo sciamare dei colleghi che salutavano, lui le porse un foglietto di carta leggera, piegato in tre parti.
Una poesia dedicata a Livia.
Livia ci pensò tutta l’estate. E a Natale decise di mandargli un racconto. Dedicato a lui.
Lui le telefonò: lei rispose imbarazzata limitandosi a ringraziare.
Tramite sms gli disse della necessità del nascondimento. Per non scatenare gelosie.
Lui accettò e iniziarono scambi in privato.
-Difendi le tue passioni e precedi gli altri nel bene- scriveva lui.
-Ciò che sei rimbomba tanto che sommerge quello che dici- citava lei.
-Ama e fa’ quel che vuoi- rispondeva lui.
- I poeti esprimono i moti dell’anima- diceva lei.
-La poesia coglie la profondità dell’essenza- continuava lui.
Per lei quello era l’amore. Era assolutamente quello. Era la sintonia dei pensieri, il potere delle parole. Sentiva lievitare, dentro, una bolla che aveva dimensioni enormi: pensava che gli altri se ne sarebbero accorti.
E infatti il marito notò qualcosa in quelle pupille dilatate, in quei trasalimenti. E allora rovistò tra le carte, trovò degli appunti, chiese.
Lei ammise, poi negò. In realtà non c’era nulla: solo uno scambio, una fantasia, un sogno. Forse anche un sentimento grande, ma assolutamente incorporeo, galleggiante nell’aria.
Era l’amore idealizzato, quello letto nei libri, desiderato.
Livia continuò a vivere nell’estasi e su quel binario parallelo per molti mesi.
Poi, però, qualcosa cominciò a scricchiolare, prima impercettibilmente, poi con maggiore evidenza.
Lui dava segnali di stanchezza e lanciava frasi mirate a un obiettivo:
- Lasciamo che tutto scorra.
Alludeva ma, da quel lato, Livia era irremovibile.
In seguito, iniziò a non risponderle.
-Non ho tempo, né voglia.
Livia seppe da amicizie comuni che Ferruccio intrecciava relazioni con molte donne che poi lasciava.
Lei continuò a ripresentarsi via etere, ma presto dovette arrendersi all’evidenza. Lui le disse che non voleva ricevere più alcun messaggio: era un uomo trafitto dalla vita, segnato irrimediabilmente da una storia familiare infelice, votato alla solitudine per l’incapacità di sopportare la compagnia degli altri. Quello che le aveva offerto era solo la maschera indossata in un momento di bisogno.
Livia si vergognò profondamente. Lo odiò, ma soprattutto odiò sé stessa: per essere rotolata miseramente a terra, per non aver riconosciuto i segnali della finzione, per aver assecondato un pietoso richiamo.
Per essersi sbagliata per la seconda volta, per aver tradito chi le voleva bene.
Così si augurò di ritrovare al più presto la via, che aveva imboccato prima di quella ingannevole parentesi, e di riprendere il cammino verso la virtù.
Quella meravigliosa virtù che, contrariamente a quanto aveva sempre creduto, la rendeva serena.
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