Loro continuavano
Erano le tre passate. Ero a letto da circa tre ore, ero stanco, volevo dormire. I miei pensieri non smettevano di tormentarmi. Mi perseguitavano, non mi mollavano. Li pregavo di andarsene, provavo a spiegare loro che al mio risveglio mi aspettava una giornata lunga e impegnativa, che avrei avuto tempo da dedicar loro la notte successiva, ma niente. Inarrestabili loro continuavano.
Scorrevano nella mia mente come un fiume in piena. Si materializzavano come ombre nel soffitto, allungandosi e contraendosi ad ogni mio respiro. Non c'era modo di arrestarli. Ero quasi sicuro che il mio corpo, la mia mente fossero cose completamente staccate dai miei pensieri. La mia testa implorava pietà. La giornata era stata lunga ed ero stanco. Niente. Loro continuavano.
Pensavo che mi odiassero, non farmi dormire, come volessero punirmi di qualcosa. Vagavano dal futuro incerto che mi aspettava, ai miei ricordi del passato che sinceramente pensavo di aver dimenticato, di averli accantonati in zone sperdute della mia mente, buttate nel dimenticatoio. Ma loro tornavano, mi tormentavano.
L'insonnia. La mia orribile punizione, la vendetta dei miei pensieri per qualcosa che avevo fatto in vita. Ne ero sicuro. Avrei detto che nell'inconscio mi stavo punendo da solo, come se volessi pentirmi di qualcosa che avevo fatto. Ma non ero io. Erano loro. Non mi mollavano, non la smettevano. Loro continuavano.
Mi giravo e rigiravo nel letto. Ero sicuro che questa nuova posizione mi avrebbe dato maggiori possibilità di cadere nel sonno. Ma niente. Mi arrendevo, mi accendevo l'ennesima Camel. Il posacenere era colmo. Il frigo vuoto. Pensavo che appena finita, avrei ucciso ogni pensiero, avrei fatto in modo che mi passassero attraverso, non avrei dato loro importanza. Così, magari, sentendosi ignorati se ne sarebbero andati.
Riprovavo a dormire. Niente. Eccoli là, ansiosi di entrarmi nella testa, di accomodarsi, per poi non più andarsene.
Cercavo di respirare profondamente, di svuotare la mente, ma loro penetravano in ogni respiro. Era come se avessero una volontà propria, una coscienza separata dalla mia. Li immaginavo come piccoli demoni seduti sul mio petto, ridacchianti e trionfanti nella loro capacità di tenermi sempre sveglio.
Provavo allora a negoziare. “Va bene,” dicevo loro mentalmente, “datemi solo un'ora di tregua. Un'ora di sonno e poi potrete tormentarmi quanto volete, del resto cosa cazzo fate ogni giorno?” Ma loro non ascoltavano, non scendevano a patti. Erano dittatori spietati del mio subconscio malato.
Mi alzavo dal letto, camminavo su e giù per la stanza. Forse il movimento li avrebbe distratti, pensavo. Ma no, mi seguivano, si aggrappavano a me come ombre. Tornavo a letto, frustrato, sconfitto.
Guardavo l'orologio: le quattro e mezza. I numeri si mescolavano come in una danza e quel tempo stesso sembrava essersi alleato con i miei pensieri, rallentando il suo corso, allungando questa notte interminabile.
Allora provavo a contare le pecore, un vecchio trucco che non aveva mai funzionato. Le pecore stesse si trasformavano in altri pensieri, saltando oltre la staccionata della mia coscienza per tormentarmi ancora di più. E loro continuavano.
Mi chiedevo se fosse possibile impazzire per mancanza di sonno. Forse era questo il loro piano: spingermi oltre il limite della follia. O forse ero già pazzo e questa lotta notturna ne era solo la palese manifestazione.
All'improvviso, un'idea: e se provassi ad accoglierli? Ad ascoltarli veramente invece di respingerli? Forse era questo che volevano, essere ascoltati, essere riconosciuti. Con un sospiro di sconfitta, aprii le porte della mia mente. “Va bene,” dissi loro, “sono qui. Parliamo.”
@GiuseppeLonatro2024
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