Era da poco passata la mezzanotte.
Il silenzio innaturale sembrava avere inghiottito l’aria.
Valerio Valdés indugiava immobile. I muscoli della mascella contratti.
Il sudore gli imperlava la fronte. Dalle ascelle e il torace scendeva a bagnargli i fianchi e lo stomaco. La maglietta fradicia non tratteneva rimandandogli il suo stesso odore: un odore acre, vischioso, di animale. Si concentrò sul respiro. Ansimava forte. Si disse che doveva calmarlo o lo avrebbero sentito. Non poteva permettere che il branco gli sfuggisse. Sarebbero passati di lì a poco. Doveva solo pazientare e rimanere nascosto fra gli alberi.
Una fortuna trovare il cancello dell’istituto aperto. Non dovendo scavalcare aveva scongiurando il pericolo di rimanere infilzato, o peggio, di essere notato. Contava di cogliere il branco di sorpresa all’esterno, dove non si sarebbero mai sognati d’incontrarlo. Doveva solo fare attenzione e non incrociare il loro sguardo. Quelli del branco avevano una strana luce negli occhi; una luce che rapiva e non lasciava.
Prese la decisione di sdraiarsi perché le gambe nell’attesa cominciavano a intorpidirsi.
«Merda! maledette ortiche» borbottò ritraendo velocemente le mani. Si spostò con cautela sperando di non incappare ancora nella pianta urticante. Il contatto con l’erba umida gli fece accapponare la pelle, ma diede momentaneo sollievo alle mani. Cercò di abituare gli occhi al buio. La luna aveva disertato e la luce di qualche stella sparpagliata riusciva a stento a penetrare il folto degli alberi. Con fare silenzioso testò l’M16; non voleva correre il rischio che s’inceppasse, ne andava della sua salvezza. Pensò che doveva essere preciso e non sbagliare il tiro. Se colpiva il capobranco gli altri avrebbero sicuramente desistito dileguandosi.
Ad un tratto si udì un rumore. Uno di quei rumori ai quali non si riesce ad attribuire una fonte. Lo avevano sentito anche i due conigli che erano appena usciti da un cespuglio. Erano rimasti come in attesa, le orecchie dritte; poi rincuorati avevano proceduto saltellando fino a venire inghiottiti dall’oscurità. Valdés stette vigile. Il cuore in gola. Dalla postazione che si era scelto aveva un ampio raggio di veduta.
Gli ritornò alla memoria suo padre. Si sarebbe stupito di vederlo predatore al buio, lui che da piccolo bagnava i pantaloni ad ogni minimo rumore. Suo padre gli aveva regalato l’osso del coraggio. Allora era troppo piccolo per comprendere che il coraggio doveva trovarlo dentro di sé. Di sicuro quell’ossicino di pollo che aveva portato appeso al collo con un filo di spago, lo aveva aiutato, se ora si trovava lì a sfidare il buio. Intenerito dal ricordo alzò gli occhi al cielo. Quando li abbassò intravide una montagna minacciosa venirgli incontro.
«Oh signore! Da dove sono usciti» fece in tempo a dire, prima di imbracciare l’arma e scaricargli addosso ad occhi chiusi e urlando, l’intero caricatore.
Dopo la furia si forzò di aprire gli occhi.
Prima uno, poi l’altro.
Quando riuscì a mettere a fuoco “raggelò” prima ancora di poter farfugliare:
«Mi, mi dispiace».
Innanzi a lui, rabbiosa e rossa di sangue, c’era la professoressa di scienze.
Di fianco a lei ammutolito il branco del corso estivo.
Valdés incrociò lo sguardo ironico e complice dei compagni e, dopo un attimo di perplessità non riuscendo a trattenere esplose in una forte, incontenibile, nondimeno amara risata; non prima di aver sentito la vecchia cornacchia che gli aveva da poco voltato le spalle, proferire:
«Le farò avere il conto della lavanderia; nel frattempo si consideri espulso. Signor Valdés».
Il silenzio innaturale sembrava avere inghiottito l’aria.
Valerio Valdés indugiava immobile. I muscoli della mascella contratti.
Il sudore gli imperlava la fronte. Dalle ascelle e il torace scendeva a bagnargli i fianchi e lo stomaco. La maglietta fradicia non tratteneva rimandandogli il suo stesso odore: un odore acre, vischioso, di animale. Si concentrò sul respiro. Ansimava forte. Si disse che doveva calmarlo o lo avrebbero sentito. Non poteva permettere che il branco gli sfuggisse. Sarebbero passati di lì a poco. Doveva solo pazientare e rimanere nascosto fra gli alberi.
Una fortuna trovare il cancello dell’istituto aperto. Non dovendo scavalcare aveva scongiurando il pericolo di rimanere infilzato, o peggio, di essere notato. Contava di cogliere il branco di sorpresa all’esterno, dove non si sarebbero mai sognati d’incontrarlo. Doveva solo fare attenzione e non incrociare il loro sguardo. Quelli del branco avevano una strana luce negli occhi; una luce che rapiva e non lasciava.
Prese la decisione di sdraiarsi perché le gambe nell’attesa cominciavano a intorpidirsi.
«Merda! maledette ortiche» borbottò ritraendo velocemente le mani. Si spostò con cautela sperando di non incappare ancora nella pianta urticante. Il contatto con l’erba umida gli fece accapponare la pelle, ma diede momentaneo sollievo alle mani. Cercò di abituare gli occhi al buio. La luna aveva disertato e la luce di qualche stella sparpagliata riusciva a stento a penetrare il folto degli alberi. Con fare silenzioso testò l’M16; non voleva correre il rischio che s’inceppasse, ne andava della sua salvezza. Pensò che doveva essere preciso e non sbagliare il tiro. Se colpiva il capobranco gli altri avrebbero sicuramente desistito dileguandosi.
Ad un tratto si udì un rumore. Uno di quei rumori ai quali non si riesce ad attribuire una fonte. Lo avevano sentito anche i due conigli che erano appena usciti da un cespuglio. Erano rimasti come in attesa, le orecchie dritte; poi rincuorati avevano proceduto saltellando fino a venire inghiottiti dall’oscurità. Valdés stette vigile. Il cuore in gola. Dalla postazione che si era scelto aveva un ampio raggio di veduta.
Gli ritornò alla memoria suo padre. Si sarebbe stupito di vederlo predatore al buio, lui che da piccolo bagnava i pantaloni ad ogni minimo rumore. Suo padre gli aveva regalato l’osso del coraggio. Allora era troppo piccolo per comprendere che il coraggio doveva trovarlo dentro di sé. Di sicuro quell’ossicino di pollo che aveva portato appeso al collo con un filo di spago, lo aveva aiutato, se ora si trovava lì a sfidare il buio. Intenerito dal ricordo alzò gli occhi al cielo. Quando li abbassò intravide una montagna minacciosa venirgli incontro.
«Oh signore! Da dove sono usciti» fece in tempo a dire, prima di imbracciare l’arma e scaricargli addosso ad occhi chiusi e urlando, l’intero caricatore.
Dopo la furia si forzò di aprire gli occhi.
Prima uno, poi l’altro.
Quando riuscì a mettere a fuoco “raggelò” prima ancora di poter farfugliare:
«Mi, mi dispiace».
Innanzi a lui, rabbiosa e rossa di sangue, c’era la professoressa di scienze.
Di fianco a lei ammutolito il branco del corso estivo.
Valdés incrociò lo sguardo ironico e complice dei compagni e, dopo un attimo di perplessità non riuscendo a trattenere esplose in una forte, incontenibile, nondimeno amara risata; non prima di aver sentito la vecchia cornacchia che gli aveva da poco voltato le spalle, proferire:
«Le farò avere il conto della lavanderia; nel frattempo si consideri espulso. Signor Valdés».

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Commenti
Grazie Roberto,un'incontro ravvicinato con un cinghiale l'ho avuto da poco nelle vicinanze di Ingurtosu,mentre raccoglievo finferla,è andato tutto bene,ma ti assicuro che mi sono proprio spaventata.Scienze ambientali molto meglio per un corso estivo.Odio la matematica. Ciao 



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Grazie Giancarlo, felice che ti sia piaciuto. 



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Conoscendo le tue origini mi aspettavo un branco di cinghiali !!! Ed invece...brava Claretta ma perchè quella di scienze e non di matematica ?





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molto bello il tuo racconto,
bravissima, ritmo incalzante ed ironia!!!!

bravissima, ritmo incalzante ed ironia!!!!






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Focus ti ringrazio per il complimento,non ti nascondo che mi ha fatto tanto piacere.Ho apprezzato da subito le tue opere e un commento sincero che sia positivo o meno da parte di un bravo scrittore è per me una buona cosa.Scrivo per obbi,ma vorrei farlo al meglio e le critiche costruttive sono un mattoncino in più che andrà ad aggiungersi a quelli che sto cercando di impilare.Grazie ancora 



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Bel ritmo, originale, ben scritto...ti meriti un bel voto: eccellente.
P.S. mi hai tenuto col fiato sospeso fino alla fine...tra noi sub l'ossicino del coraggio è un dente di squalo. ciaociao
P.S. mi hai tenuto col fiato sospeso fino alla fine...tra noi sub l'ossicino del coraggio è un dente di squalo. ciaociao


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