Sente le braccia magre, con le dita scorre il costato fino al centro del petto. Scende fino alle caviglie e non sente che pelle e un po’ di carne.
Pensa: “Come ho perso tutto questo peso”. Digiunando, saltando i pasti, non avendo tempo per certe cose. Da qualche mese la vita corre più veloce di lei. La malattia del padre, la relazione spenta con il compagno, il lavoro che preme sul tempo, inglobandolo.
La fame, si chiede, come può collegarsi così tanto alle fisime di una mente fragile. Cosa c’è nel nutrirsi che smette di essere una necessità.
Pensa al sogno fatto la notte scorsa: suo padre ancora vivo che serio o meglio avvilito, dice di non aver finito di sistemare le sue maglie.
Sotto la doccia le vengono in mente le magliette bianche comprate per il ricovero in clinica. Dopo la sua morte le ha donate alla struttura, i ricordi non sono li.
Persa una persona, un padre, devi fare i conti con la memoria che spazia dall’infanzia fino a poche ore prima, quando l’ultima crisi lo ha portato via.
Nella camera ardente di fronte al corpo freddo e distante che pare dormire, non è riuscita a far affiorare nulla dalla memoria. Stanca, avvilita, vagamente sospesa in un silenzio intimo, che ha dovuto resistere alle condoglianze e le lacrime degli altri, non è riuscita a ricordare nulla. Il presente è un macigno, inutile far finta di non sentirlo, rimani fermo e così sia. Come inutile pensarlo ancora li dentro la cassa dove non rimane che carne e ossa.
La notte prima quando è stata chiamata dall’infermiere che lo ha visto spirare, gli occhi glieli ha visti. Erano ancora aperti, vitrei ma non tanto diversi dagli ultimi giorni di vita. Se non fosse stato per l’immagine generale di un corpo vagamente rigido e pallido, se si fossero visti solo i suoi occhi, avrebbe potuto far finta di niente ancora per qualche minuto.
Mentre percorreva il corridoio, fatto mille volte nell’ultimo mese, si è resa conto che in quel labirinto d’ospedale, nonostante lo scarso senso dell’orientamento, la strada per arrivare al reparto di oncologia l’ha imparata. Di notte è tutto meno illuminato, le foto alle pareti, i colori dei percorsi, le indicazioni, i numeri dei piani; non c’è gente da incrociare, si può lasciare il viso libero di esprimere tutto il rancore di quel momento. Puoi ascoltare i suoi passi e l’ascensore che viene a prenderla.
“Vorrei perdermi in un altro corridoio”.
Lo strazio è quello che aspettava le cadesse addosso, ma non riusciva a sentire nulla che non passasse dalle mani, dalla pelle. Gli ha stretto la mano, il braccio, il polso; lo ha baciato sulla fronte e accarezzato il viso fino all’arrivo dei sui zii, fino a che il corpo ha lentamente perso calore, fino a quando l’infermiera non ha chiesto di uscire dalla stanza per preparare la salma.
Esce dalla doccia e una ventata fresca le fa venire la pelle d’oca, mentre cerca rapidamente d’infilarsi l’accappatoio.
Si asciuga e si veste in fretta, deve andare al lavoro e deve truccarsi almeno un po’. Si guarda nello specchio appannato, con una mano ne asciuga una parte. Mentre trucca gli occhi scorrono i pensieri preparatori alla giornata lavorativa, telefonate, colloqui, moduli da compilare lasciati indietro.
Il padre che le prende la mano per attraversare la strada, lei che si toglie la cuffia messa dalla madre per non prendere freddo e lui che non la sgrida. Le partite a Monopoli tutte le sere; le sue mani sulla scacchiera che spiega le mosse.
La volta che non è voluta andare a pranzo a casa sua perché era stanca, voleva staccare da una settimana lavorativa pesante. Si era dimenticata che il tempo non lo recuperi, che quel giorno al telefono l’insistenza del padre era più consapevole dello scorrere dei secondi. Ma lei è così, ha un egoistico bisogno d’isolarsi, che l’attanaglia in certi periodi. Cosa le abbia tolto questo bisogno, quanto tempo le ha fatto perdere, non è ancora riuscita a quantificarlo.
Mentre mette il mascara ha come la sensazione di nascondere qualcosa. L’occhio s’inumidisce, la gola si stringe, scende una lacrima. Prende di corsa un pezzo di carta igienica e tampona. È finita, non c’è tempo per perdersi. “Preparati a consolare e sostenere, riprendere ed indicare la via migliore; devo lavorare”.
La testa piena, gli occhi pesanti. Scende le scale, guarda l’ora, controlla che tutto sia in borsa, sale in auto.
Parte verso il lavoro, fa una sosta e compra i giornali; risale e parte.
Stanca e con la fastidiosa sensazione di non sapere quando il dolore si manifesterà al pieno della sua potenza, la stessa di quando sai di aver dimenticato qualcosa d’importante ma non riesci a ricordare. Non sta piangendo gran che, a volte le sembra di avere qualche secondo in cui dimentica tutto e sta bene. Ma cos’è questo benessere anomalo.
Continua a guidare e pensa a una risposta. Si frega un occhio con la mano, li chiude entrambe un secondo; riaprendoli vede un’altra auto a poco da lei. Non ha tempo di ragionare, non riesce a coordinare testa e movimenti, sterza di colpo andando con l’auto su un marciapiede che alza appena il muso dell’auto. In macchina è abbastanza lucida da capire di non poter fare altro che aspettare che tutto finisca da sé.
La merciaia quel giorno non aveva grande fretta di andare a lavorare. Appena vista l’auto schiantarsi sul muro della casa cantoniera a lato della strada che porta al suo negozio, è stata colta da un’ansia fastidiosa. Non aveva voglia di vedere morti in un giorno così normale e anche abbastanza soleggiato.
Ad ogni modo avrà uno spettacolo piuttosto intenso da raccontare ai clienti. Si ferma qualche metro più in la dell’auto schiantata e chiama i soccorsi, guardando con pietà il corpo di una donna che deve aver avuto ancora abbastanza vita da tentare di uscire dal mezzo.
Voto: | su 4 votanti |
un racconto che mi ha preso sin dall'inizio. Sei maestra nel descrivere i particolari, i piccoli gesti di acuta visione introspettiva, i rimorsi dell'incompiuto dopo una dolorosa perdita, lo stato confusionale che inibisce la lucidità. Tutto si svolge in un crescendo drammatico costruendo una storia, dolorosa si, ma di grande respiro letterario. Mi sei e ci sei mancata. Tu e i tuoi bei racconti. 5*