Increduli, pigiati contro le transenne, gli abitanti del vecchio borgo osservano le macerie del piccolo palazzo, venuto giù come un castello di carte la sera precedente.
La mitica invulnerabilità dello stabile era nata durante la costruzione, nel 1934, quando un pesante autocarro carico di materiale edile, arrivando a forte velocità dalla discesa, a causa del cedimento dell’impianto frenante s’era infilato come un proiettile fra le impalcature che ancora occultavano la facciata, distruggendole, e impattando contro l’edificio, lo aveva fatto tremare fino alle fondamenta.
Grande era stata la sorpresa del capomastro e del progettista, nel constatare la pochezza del danno arrecato dal pesante automezzo all’immobile: qualche scalfittura sul pesante portone in quercia appena montato e null’altro.
Invulnerabilità che era stata ribadita e rafforzata dopo il pesante bombardamento alleato del 1944, e trasmessa ai posteri in forma quasi leggendaria, nei racconti dei testimoni oculari di quel tragico episodio di guerra.
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Il palazzo in stile razionalista, dalla candida facciata in travertino, venne fatto costruire dal
podestà del paese, Adalberto Spondiglioni, per andarci ad abitare con il fratello minore e gli anziani genitori.
A quel tempo la famiglia Spondiglioni risiedeva nella cascina di loro proprietà, poco fuori dal paese.
Adalberto Spondiglioni voleva erigere per sé una dimora che mostrasse ai suoi concittadini la potenza del regime fascista, per questo motivo la costruzione doveva sovrastare le case adiacenti, spiccando per modernità e ricchezza dei materiali di rivestimento.
E dove poteva sorgere una siffatta meraviglia, se non nel borgo antico, lungo il percorso che ogni buon cristiano doveva obbligatoriamente compiere ogni festa comandata per recarsi a messa nella chiesa in fondo alla via, in modo che tutti potessero ammirare il suo potere, capace di piegare ai suoi desiderata persino il rigido piano regolatore messo a protezione del borgo.
Ai due lati della via in salita, una lunga infilata di case basse indirizzava la vista verso la chiesa, che andava a chiudere la prospettiva poco più in alto, ad ovest.
La famiglia Spondiglioni era proprietaria di una casa posta quasi al centro della lunga infilata di sinistra; nel punto in cui l’infilata di destra s’interrompeva per dare agio alla strada che scendeva dalla collina di intersecarsi con la via.
Una posizione migliore, per erigere il monumento al suo potere, Adalberto Spondiglioni non avrebbe potuto trovarlo; oltre ai suoi concittadini, anche chi doveva entrare in paese scendendo dalla strada collinare era obbligato a guardare il suo palazzo, che chiudeva la prospettiva in fondo alla discesa.
Senza curarsi del contesto storico architettonico, Adalberto fece abbattere la vecchia casa, e al suo posto fece erigere la palazzina in travertino, squadrata, stretta e alta; in buona sostanza: un pugno nell’occhio inserito nel contesto rustico campagnolo del vecchio borgo.
L’enorme portone in quercia, largo ben cinque metri, si portava via la metà dell’intera larghezza dell’immobile; mentre il ridondante ingresso marmoreo e lo scalone per salire ai piani superiori occupavano l’intero piano terra. Così, dovendo farci star dentro anche tre appartamenti, l’architetto fu obbligato a sfruttare l’unica parte libera dalle case confinanti: il cielo.
Sopra al piano terra fece erigere tre piani, uno per ogni appartamento, e sopra all’ultimo non pose le falde del tetto, ma un lastrico solare: una terrazza panoramica incorniciata da pilastri e travi squadrate, alte ben tre metri e rivestite di travertino.
Dopo il tragico bombardamento che rase al suolo le case adiacenti, lui, il palazzo del podestà, era rimasto miracolosamente in piedi. La bianca sagoma della facciata era emersa intonsa dalla polvere, dominando, altera, una scena spettrale fatta di macerie, di morti e di gente che urlava la propria disperazione.
Gli abitanti osservavano straniti le macerie delle proprie case e, increduli, quel parallelepipedo bianco uscito con qualche graffio e nulla più dall’inferno di fuoco.
La guerra finì l’anno dopo.
Il fratello di Adalberto, volontario della RSI, era morto difendendo i propri ideali.
I suoi genitori, che non se l’erano sentita di traslocare in uno degli appartamenti del palazzo, erano morti anch’essi durante il tragico bombardamento che, oltre al borgo, non aveva risparmiato la loro cascina.
Così Adalberto, rimasto solo, odiato e dileggiato dai suoi compaesani, sconfortato per la perdita dei suoi cari e deluso per l’ingloriosa fine di un regime che lui, fascista della prima ora, aveva contribuito con entusiasmo a far nascere partecipando alla marcia su Roma, e a far crescere per un lungo, lugubre ventennio; finì col rinchiudersi sempre più in sé stesso, e nell’attico all’ultimo piano del palazzo.
In preda a una profonda depressione trascorreva le giornate osservando, dal terrazzo del suo invulnerabile palazzo, gli autocarri portar via le macerie della guerra e, di seguito, sorgere al loro posto i palazzi della nuova nazione: l’Italia della democrazia e del miracolo economico.
Il palazzo razionalista, che fino a pochi anni prima giganteggiava sopra i tetti in cotto dell’antico borgo, era diventato un nano pressato in mezzo a due corazzieri. Due palazzi di cinque piani, uno a destra e l’altro a sinistra, parevano dover stritolare da un momento all’altro l’algida facciata in travertino tra le loro spire.
Adalberto cercò di opporsi in tutti i modi allo scempio di un piano regolatore privo di ogni elementare regola di buon senso, oltre che di buon costruire.
Ma nessuno pareva disposto ad ascoltare le lamentele dell’odiato podestà di un tempo.
«Spiegami cosa ha portato di diverso la vostra sbandierata democrazia, oltre alla corruzione!» urlò nell’ufficio dell’assessore all’urbanistica.
Il giovane assessore accolse la sfuriata del vecchio podestà con un sorriso sarcastico. «Quella c’era già… l’abbiamo ereditata da voi!»
«Allora, ragazzo mio, se nulla è cambiato, la vostra tanto decantata democrazia non è servita a niente!» ribatté uno sconsolato Adalberto.
Il giovane assessore attese senza batter ciglio che Adalberto si voltasse per uscire. E quando lo vide afferrare la maniglia della porta, concluse acido: «Qualcosa è cambiato; prima la corruzione la governava… ora è costretto a subirla!»
Adalberto serrò la mascella, aprì la porta e si ritirò in buon ordine; senza aggiungere altra benzina a un fuoco che sapeva di non poter più governare.
Da quel giorno le uscite dal palazzo si diradarono ulteriormente. E anche le quotidiane passeggiate lungo il perimetro della terrazza si fecero sempre più rare; non gradiva essere guardato dall’alto in basso dai balconi che, ora, sovrastavano quello che era stato il punto più alto del borgo.
Adalberto Spondiglioni, nella narrazione popolare di chi una volta lo riveriva sperando di entrare nelle grazie del podestà, era diventato “una carogna fascista”, ingiustamente sopravvissuto al crollo del regime e alla vendetta dei suoi compaesani che, la notte della liberazione, non erano riusciti a sfondare il monumentale portone del palazzo, prima che i soldati alleati riportassero l’ordine nel borgo.
Mai avrebbero immaginato, i gattopardi del borgo, che un giorno, quando guerra e vendette, consumate oppure abortite, sarebbero state un ricordo lontano nel tempo, che il podestà e il suo palazzo se ne sarebbero andati in un modo così fragoroso.
Ed eccola lì, la varia umanità di un borgo che era stato per buona parte fascista, quando era conveniente esserlo, che scruta tra le macerie in cerca di una risposta che giustifichi l’inopinato crollo.
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Sul marciapiede, leggermente arretrati rispetto alla calca a ridosso delle transenne, un gruppetto di persone si misura sulle ipotesi del crollo.
«Si è suicidato aprendo il gas», afferma l’uno.
«Ma no, è stata una perdita», lo corregge l’altro.
«Né l’una, né l’altra… Non vedete che è imploso. Le macerie sono rimaste all’interno del perimetro dell’immobile, e i vetri delle case vicine sono intatti, questo esclude l’esplosione», tira le somme un terzo.
«Ma allora, com’è successo? C’è qualcuno di voi che lo sa?» domanda una donna.
«La solitudine!» tuona una voce baritonale alle loro spalle, facendo ruotare le teste all’intero gruppetto di curiosi.
Un uomo d’aspetto distinto e dall’eleganza retrò, cappelli e pizzetto bianchi, come il crisantemo che porta all’occhiello della giacca grigia; stringendo l’impugnatura argentea del bastone in ebano si fa largo tra la folla.
Arriva fino alla transenna posta accanto alle rovine, vi poggia sopra una mano e con l’altra, alzando il bastone indica il cumulo di macerie e annuncia con voce commossa: «La solitudine, ha fatto quello che neanche le bombe erano state in grado di fare».
«Forse l’architetto è fuori di testa», sussurra una donna all’orecchio di un uomo.
L’architetto novantenne, Lino Zampi, è il progettista dell’immobile. Il volto sofferente e l’occhio liquido tradiscono la disperazione per la perdita del suo capolavoro razionalista.
L’architetto, nonostante l’età conserva ancora un ottimo udito, e questo gli permette di recepire il sussurro della donna. Ma non se la sente di risponderle per le rime, e prosegue nell’esposizione, tra il poetico e il metafisico, sul perché dell’inspiegabile crollo.
Compunto davanti alle macerie, pare recitare un requiem a una persona cara: «Una costruzione è una creatura che va cresciuta, accudita, curata con amore… Adalberto ha trasmesso la propria solitudine alla struttura del palazzo… In più di cinquant’anni, mai una manutenzione, un controllo alla struttura portante, alle eventuali infiltrazioni d’acqua dal terrazzo o dal sottosuolo… La solitudine che si portava dentro ha contagiato anche il suo palazzo… E questo, è il risultato».
«Sì, va beh, la solitudine… Ma lei che l’ha progettato, è sicuro di essere immune da colpe?» chiede una voce sarcastica fra le tante.
L’architetto alza lo sguardo, assume una postura orgogliosamente sicura, e usando un tono pacato che non tradisce la rabbia, risponde: «Sì! I miei calcoli erano esatti… Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Se volete trovare qualche altro colpevole, cercatelo tra di voi».
Il gruppetto, scambiandosi degli sguardi allibiti, s’interroga senza fiatare.
«Cercateli fra il codazzo di amici che prima della guerra lo incensava, e che subito dopo, incrociando il suo sguardo lungo la via, nemmeno lo salutava. Sono loro che hanno permesso alla solitudine di attecchire nell’animo dell’uomo…e, di riflesso, generare l’incuria che, corrodendo le fondamenta, ha causato il crollo del palazzo…E’ loro… è vostra la coscienza sporca!» conclude in tono colpevolizzante.
Toglie delicatamente il crisantemo bianco dall’occhiello della giacca, ne inspira voluttuosamente il profumo, e lo lancia sopra le macerie, sussurrando con voce increspata: «Riposa in pace».
Poi appoggia il bastone a terra, e facendosi largo tra gli sguardi attoniti dei suoi concittadini, si allontana.
FINE
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