Il vecchio zio
Me lo sarei risparmiato volentieri il fastidio di tornare al paese natio il pomeriggio di un luglio infuocato, se mio zio avesse potuto rinviare l’appuntamento; ma, purtroppo per lui: non c’è scusa che tenga difronte all’ineluttabilità della morte!
La prima parte della cerimonia, la funzione religiosa all’interno della chiesa, seppur un po’ troppo lunghetta, l’avevo superata; ora veniva il difficile.
Seguire un corteo funebre che partendo dal sagrato si snoda per circa un chilometro lungo le vie del paese per raggiungere la destinazione finale, questo indossando un abbigliamento consono alla circostanza, sotto il sole implacabile della bassa alle tre del pomeriggio di un appiccicoso lunedì, non è sicuramente come passeggiare in costume sulla sabbia in riva al mare; ma non potevo certo sottrarmi al dovere morale di partecipare alle esequie del navigato zio Anselmo: spirato nel suo letto tre giorni dopo aver doppiato il novantesimo anno.
Dopo la prematura scomparsa di mio padre, che oltre a un pargolo di tre anni da tirar grande non lasciò null’altro che conti da saldare alla mia povera madre, fu lo zio Anselmo a farsi carico delle molte incombenze economiche che il mio vecchio lasciava decantare dentro un cassetto; fidando che prima o poi, grazie al loro buon cuore, i molti compaesani creditori di fronte alle difficoltà di un povero bracciante avrebbero fatto finta di scordarsi di un piccolo debito che, anche riscuotendolo, non li avrebbe certo arricchiti.
Erano così uguali fisicamente, ma così diversi moralmente, mio zio e mio padre; uno devoto fino al midollo, gran lavoratore e ligio al dovere; l’altro… solo uno smidollato che tirava avanti offrendosi, saltuariamente, come bracciante agricolo ai fittavoli delle cascine sparse nella piana, giusto il tempo per raccattare quattro lire da spendere all’osteria.
“Erano così uguali…” pensavo, sudando copiosamente, seguendo il feretro, “gemelli fuori… ma neanche lontani cugini, dentro.”
Transitando davanti alla sua vecchia casa notai l’intonaco ammalorato, che pareva sfarinarsi davanti al mio sguardo per unirsi anch’esso allo sparuto corteo funebre: otto compaesani anziani, oltre a me, il parroco e un chierichetto. “Caro zio, non te la prendere; quelli della tua classe li hai già tutti sepolti. Chi vuoi che si prenda la briga di fare una sauna per seguire il funerale di un novantenne che ha trascorso la sua vita in mezzo ai campi? Fossi stato una stella dello spettacolo, un banchiere, un politico… sarebbe stato diverso. Ma tu, tu da buon contadino hai solo degnamente vissuto, lavorando sodo durante il tempo delle vacche grasse e mettendo da parte il giusto per poter affrontare, senza troppi patemi, anche lunghi periodi siccitosi. E quando Il tempo delle vacche magre ha bussato alla tua porta, presentandosi nella figura minuta di una giovane madre che, tenendo il pargolo stretto al petto, chiedeva il tuo aiuto; tu non le hai chiuso la porta in faccia, ma l’hai lasciata entrare e ti sei speso per aiutare chi fino ad allora, istigata dal tuo caro fratello, ti aveva ferito togliendoti finanche il saluto”, riflettevo su questo mentre si approssimava il camposanto.
Attesi all’esterno che sistemassero la bara nella cappella di famiglia (acquistata da me dieci anni prima per l’eterno riposo, mio e dei miei cari) e quando anche l’ultimo vecchio compaesano, dopo avermi stretto la mano lasciò il camposanto; entrai compunto nella dimora definitiva, del corpo.
«Eccoti sistemato, zio Anselmo. Ora che siete vicini, come forse lo siete stati solo nei nove mesi di gestazione… vedete di spiegarvi, di capire il perché vi siete sempre scornati», dissi, osservando il ritratto sulla lastra in marmo di Carrara.
Scostai lo sguardo appena sopra, sul ritratto di mio padre. «E tu, vedi di ringraziarlo tuo fratello. Se non fosse per lui, oggi non so cosa sarei… di sicuro, non un buon avvocato!» gli rammentai, guardandolo accigliato.
«Vedi tu, mamma, di farli andare d’amore e d’accordo. Non vorrei che questi due, continuando a guardarsi in cagnesco, finissero per fare a cazzotti pure nell’aldilà», conclusi, cercando di celare la commozione dietro una punta d’ironia, guardando con occhi liquidi il ritratto di mia madre che, riposando sopra ad entrambi, pareva vigilare serena.
“Erano così uguali fuori, eppure così diversi dentro… che mi viene logico chiedermi se mia madre all’epoca del suo innamoramento non si fosse confusa; dialogando con l’uno per finire tra le braccia di quello sbagliato”, pensavo, lasciando il camposanto.
“Strane riflessioni procura smuovere il ghiaietto dei vialetti nei cimiteri”, osservai, sorridendo, ascoltando i miei passi prima di attraversare il cancello e imboccare la strada asfaltata per tornare in paese.
L’amico Renato
Per raggiungere la macchina, che avevo parcheggiato nei pressi della casa di mio zio, percorsi a ritroso, immerso in una calura opprimente, circa trecento metri precedentemente calcati seguendo il corteo funebre. “Devo buttar giù qualcosa di fresco se non voglio finire disidratato”, pensavo, rimboccando le maniche della camicia grigia madida di sudore, dopo aver buttato giacca e cravatta nere sul sedile posteriore della macchina.
Chiusi la portiera e con passo svelto attraversai la strada, tenendo gli occhi sgranati fissi su un miraggio: l’insegna del bar Centrale.
“Che meraviglia”, pensai, riavendomi da una mezza insolazione. Pur in assenza di climatizzatori, le vecchie e spesse mura, nonché la facciata esposta in sfavore del sole pomeridiano, contribuivano a generare un microclima gradevole all’interno del locale.
«Buongiorno!» esclamò il pingue gestore.
«Buongiorno a lei. Una Coca Cola…», replicai, aggiungendo subito dopo: «non fredda, per favore».
Il barista che, abbassandosi, aveva già aperto lo sportello del frigorifero sotto il banco, parve sbuffare (ma forse fu solo una mia impressione, dovuta all’ansimare nel rialzare la pesante mole).
Si voltò e prese una lattina dallo scaffale alle sue spalle. «Una scorza di limone?» mi chiese mentre la versava nel bicchiere.
«La ringrazio, va benissimo così», risposi.
«Sei rimasto alla Coca, eh?» udii una voce svogliata alle mie spalle mentre avvicinavo il bicchiere alle labbra.
Mi voltai verso l’angolo in fondo al locale: presumibilmente il più fresco. «Scusi?» feci, squadrando l’uomo con ai piedi un paio di ciabatte di plastica che indossava una canottiera nera e un paio di jeans lerci.
Era seduto, oserei dire: appiccicato con la sedia al muro; sul piano coperto da una tela cerata a righe bianche e azzurre del tavolino davanti a lui, una pinta di birra scura, già consumata per una buona metà; tra l’indice e il medio ingialliti della mano destra, appoggiata accanto alla pinta, una sigaretta senza filtro spenta; il volto incorniciato dai lunghi capelli unti, neri screziati di grigio che cadendo lungo le guance facevano tutt’uno con la barba lasciata crescere brada, più che ricordarmi qualcuno mi trasmetteva la sensazione di trovarmi dinanzi al solito personaggio nullafacente, aduso a trascorrere le sue vuote giornate al bar, tampinando il prossimo per farsi offrire una sigaretta, piuttosto che una birra o qualcosa da sgranocchiare.
«Luca, possibile che non ti ricordi? Sono io… Renato!» rispose incredulo. Sorrise, facendomi un cenno con la mano. «Dai, vieni a sederti.»
Mi avvicinai, portando con me la Coca Cola. «Renato… Purini», provai a rammentare (qui è forse più giusto dire: tirai a indovinare), indicandolo con l’indice.
«Già, proprio io», fece, scostando una sedia per farmi accomodare. Aggiungendo mentre mi sedevo: «Non è una gran giornata per ritrovarci; ma in fondo tuo zio è campato più di mio padre e anche del tuo, non avrà certo di che lamentarsi».
Ascoltandolo mentre lo osservavo smarrito, non riuscivo a trovare le parole per instaurare un dialogo. Lo rammentavo un leader e, ora, mi ritrovavo davanti tutt’altra realtà.
Comprendendo il mio disagio, iniziò lui: «Cos’è, hai perso la favella?»
«No… è che… insomma…» balbettai. Prima di esprimere un pensiero compiuto, chiedendogli, banalmente: «Cosa fai di bello nella vita?»
Renato, inspirando, aggrottò le spesse sopracciglia. «Sto qui…» iniziò a dire con quel suo tono stanco, poi indicò la pinta, «mi faccio una birretta…» mi mostrò la sigaretta che teneva tra le dita, «faccio quattro passi per fumarmi una sigaretta. Poi torno qui, mi sparo un’altra birra… e via così, fino a sera.»
«Oggi!» feci, puntando l’indice sul tavolo, usando un tono perentorio.
«E pure domani… e l’altro ancora», replicò lui, ruotando l’indice e il medio, insieme alla sigaretta che stringeva fra le dia, davanti al mio sguardo.
«Mah… non lavori?!» sbottai sconcertato.
Renato scosse il capo sconsolato: si capiva che aveva voglia di sfogarsi con qualcuno. E infatti: “Sapessi, caro Luca, quante attività ho iniziato… nessuna andata a buon fine, purtroppo. Alla fine mi sono rotto e ho lasciato perdere tutto. Ora tiro avanti col poco che mi è rimasto».
Rifiutandomi di accettare la realtà, gli chiesi ancora: «Non posso credere che il primo della classe, quello che al liceo ci riempiva la testa coi sui progetti per il futuro, sia uscito sconfitto dalla vita… Cosa ti è accaduto, come hai potuto ridurti così?»
«Ti ricordi…» rammentò, guardando lontano, «volevo fare l’architetto per disegnare città a misura d’uomo. E quando spiegavo come avrei realizzato i miei progetti, tu e gli altri pendevate dalle mie labbra.» Scosse il capo, sorrise amaramente e tirò le somme: «Beh, a qualcosa sono pure servito va’! Almeno Arsenio, sono riuscito a plagiarlo».
«Arsenio Cantieri, che fine ha fatto?» gli chiesi allora.
«Lavora a Londra, in uno studio d’architettura. L’estate scorsa, durante le ferie, è tornato in paese a trovare il fratello... Quando ci siamo incontrati, non finiva più di ringraziarmi», rispose inorgoglito.
«Per cosa?» domandai ingenuamente.
Facendolo sbottare: «Come, per cosa?! Perché ascoltando i miei, a realizzato il suo di sogno, no?!»
«Non c’ero arrivato, scusami», feci, battendomi la fronte col palmo della mano.
«Ho bruciato il mio tempo, sognando ad occhi aperti per stupire gli altri… Ma quando venne il momento di mettermi alla prova, scopersi di non possedere le potenzialità necessarie per tradurre i sogni in fatti concreti. All’inizio m’impegnavo, ma poi, quando vedevo i frutti crescere troppo lentamente, o non crescere affatto, mi stancavo e lasciavo tutto a metà, per andare a rincorrere un'altra illusione», mi spiegò con sguardo pregno di disincanto.
«C’era pur sempre la cascina, i campi da coltivare… Non hai pensato di tornare alla terra?» mi venne naturale chiedergli, rammentando il podere del padre.
Renato annuì. «Ci provai…» rispose amareggiato. Rifletté e si corresse: «Veramente, fu mio padre che mi obbligò a provarci».
«Obbligò?”, feci, alzando un sopracciglio, invitandolo a spiegarsi.
«Esatto: obbligò! Quando lo pregai di aiutarmi a saldare i debiti della mia ultima fallimentare impresa; lui, da buon genitore non si sottrasse, ma in cambio pretese che tornassi a vivere e lavorare in cascina.»
«Mi par di capire che non durò a lungo, l’idillio con il tuo vecchio?»
Renato, per la prima volta, parve offendersi. «Ti sbagli! Mio padre sapeva come prendermi!» sbottò.
Osservando prima il bicchiere e poi la sigaretta fra le dita, parve riflettere sulla sua attuale condizione. «L’idillio durò finché il mio vecchio non se ne andò al creatore… dieci, lunghi anni; i migliori, un vero record di resistenza!» concluse commosso.
«Dieci anni dovrebbe essere un tempo più che sufficiente per apprendere qualsiasi mestiere, anche quello dell’agricoltore, mi sbaglio?»
«Per apprendere, sì. Ma non per sconfiggere l’impaziente attesa di vedere il grano maturare, la noia di giorni sempre uguali, scrutando le spighe nei campi, i cirri nel cielo; il timore che nubi nere, portando nel ventre la tempesta, falcino anzitempo i raccolti. No, troppe variabili da tenere sotto controllo, meglio star qui a farsi una birra nell’indolenza assoluta… senza preoccuparsi di nulla, perché niente hai seminato», rispose amaro, lasciandomi allibito.
«E i campi? La cascina?» mi sovvenne di chiedergli.
Renato posò la sigaretta tra le labbra, nell’angolo destro; s’evinceva dal gesto istintivo il desiderio d’accenderla. I campi alla gramigna!» fece, levandola lestamente dall’angolo della bocca, mentre con la mano sinistra afferrava la pinta. «La cascina in rovina!» aggiunse prima d’ingollare la birra.
Si asciugò la barba attorno alla bocca con il dorso della mano, tirò su col naso. «Mi ha fatto piacere incontrarti…» proseguì, alzandosi. «Ciao Luca!» tagliò corto, battendomi una mano sulla spalla prima di andarsene.
«Ciao Renato», mi uscì in automatico, seguendo con sguardo allibito la camminata dinoccolata.
Lo vidi uscire dal bar, accendersi la sigaretta, tirare una lunga boccata e sparire lasciando dietro di sé solo una sottile scia di fumo.
“Non basta la terra grassa, per raccogliere buoni frutti ci vuole la pazienza, l’applicazione costante del contadino. Doti che Renato, e mio padre, non hanno saputo o voluto coltivare. L’accidia, questo e null’altro hanno visto crescere rigogliosa nella loro mente”, pensavo mentre guidavo in mezzo a campi coltivati a Mais.
FINE
Voto: | su 1 votanti |
Ciao Barbara.