Celeste
Di mirtilli e biancospino
Celeste, quella della scrittura Milano sotto il paltò, era tornata.
Svanì dal finestrone della cucina una mattina di nebbia. Ora era lì di fuori. I capelli bagnati dalla pioggia come i miei baffi dal caffè, con le ali inzuppate lungo i fianchi. Io sono quello di un altro racconto, con la stessa sensazione di completezza e di appagamento senza ragione nel rivederla. Tutti quei desideri taciuti in quell’attimo mi fecero le fusa appena sotto il cuore. Gonfiai lo sguardo oltre la pioggia, e mi parve fosse proprio lei in un nuovo capoverso della fiaba, nel mio sussurrare buongiorno attraverso il vetro. Annuii. Mani affusolate, capaci di parlare al petto, tanto belle non si scordano.
Quanti segreti, invece, hai tenuto per te Celeste… sempre che questo sia il tuo nome. Non ho mai conosciuto davvero la tua vita, fatta forse di spazi rubati al tempo. Spazi i miei che hai riempito, per poi restituirmi vuoti. Lì fuori ora mi apparivi così estremamente fragile.
Aprendo la porta, come inchiostro sul suo cappotto bigio mi avvolse un insolito silenzio corposo rotto dalla sua voce “Lo so, prendo le distanze da quel che mi fa stare male. Scusami se puoi”. Le sue mani mi invitavano a perdermi sul suo corpo umido, le sue labbra erano la risposta alla domanda “Perchè rischiare di innamorarci davvero?”. Mi aveva raggiunto, dopo averla aspettata tanto in sogno. “Lo so, pensare mi fa paura… ma abbracciami” in un bisbiglio, sentivo con la luce la sua lingua scaldarmi l’orecchio. Si addormentò mentre la mia bocca coglieva acini di sole dal suo ventre.
Non volevo scostare lo sguardo da quella creatura, dalla sua pelle liscia. Per un lungo attimo mi soffermai sui suoi piedi… mi avevano attraversato, calpestato anche. Ma avrei voluto sentirli far cigolare il legno della terrazza ogni mattina, insieme al caffè. Trattenevo il respiro per sentire il suo respiro addosso. Il sapore dei suoi seni sulle lenzuola chissà per quanto tempo sarebbe restato nel mio letto, ma i suoi occhi chiusi… già chiusi, come i miei…
Mi alzai come svegliato dal peso delle vicine nuvole cariche di pioggia, Celeste non c’era. Infilai qualcosa per correre fuori a cercarla, senza nemmeno chiudere la cerniera… un cigolio veniva a confortarmi, un aroma intenso. Attraversai il corridoio per raggiungere la terrazza, sul tavolino una tazza fumante e un paio di mutandine. Due mani affusolate mi raggiunsero la schiena. Sorrisi al suo sguardo. “Non hai bisogno dei pantaloni…”. Riuscivo a sentire i respiri, poi solo uno.
Dolce bacca su rami spinosi
Da quell’alba nebbiosa di maggio in cui Celeste era riapparsa dallo specchio segreto del finestrone della cucina, i tempi tra le nuvole di un caffè macchiato e un nuovo modo per raggiungerci tra le lenzuola erano sempre più brevi. Ci provavamo ad inspirare il soffio della primavera che iniziava a colorare le strade, ma quello delle nostre anime ci riportava in pochi minuti ai suoi fianchi gocciolanti di rugiada, vestita solo delle mie carezze, ai baci.
Lei si era trasferita a Milano e stava da me con quel suo computer, faceva smart working diceva, e io chiesi l’aspettativa dal lavoro. Ogni scusa, ogni occasione era quella giusta per fare l’amore. Cominciavo a convivere con i mostri sotto il letto, e credo non potessi fare più a meno delle notti che si divertivano a disegnarmi le occhiaie.
Quella mattina Celeste dormiva, quando iniziarono a girarmi nella testa pensieri come foglie sul marciapiede, su se stessi… un mese prima era stato il suo compleanno. Volevo regalarle qualcosa che suggellasse la nostra vicinanza di comprensione, non tanto di dialogo e di idee. Non ce ne era stato il tempo. Ora che si era annullata la distanza fisica… sorrisi. Mi vestivo e guardavo le sue drupe carnose che avrebbero lasciato il loro sapore nel mio letto per chissà quanto tempo… continuava a dormire, era bellissima. Avremmo costruito insieme il cielo! La sua bocca era stata il buio dei miei sogni, avrei voluto sfiorarla ma non lo feci. Per non svegliarla.
Ciondolavo come la notte dalla luce dei lampioni lungo le vie colorate salutando panchine e sconosciuti, sorridevo alle bacche e agli uccelli sui rami e già sentivo mancarmi l’aria senza le sue mani sulle mie. Senza le labbra, i baci sulle spalle. Mi mancavano i suoi occhi.
Dovevo fare in fretta, dovevo trovare un regalo degno di Celeste. L’area commerciale faceva al caso mio. Una volta a casa le avrei detto di aver scordato le sigarette, e in sua assenza… petali di biancospino dall’uscio, per un bagno caldo insieme. Sulla vasca dentro un bicchiere di vino l’anello che aspetto di darle da quando se ne andò, senza un biglietto né una parola. Olii essenziali al mirtillo per il massaggio che subito dopo le avrei fatto tra le lenzuola, e tra le lenzuola…
Solo un caffè al bar ancora, poi da Celeste in un solo abbraccio… per il resto della giornata, quello soltanto. Mentre attendevo la mia tazza dispersa tra il rigagnolo della macchina per l’espresso e l’inettitudine della ragazza dietro il banco, mi venne in mente l’amico Giacomo e il suo racconto al supermercato. Iniziai a inzuppare il mio cornetto prima nel cappuccino della signora alla mia destra, poi in quello del ragazzetto a sinistra. Che non si accorsero. E iniziai a compiacermi di me stesso. Uscii quasi di corsa.
Ecco casa. Su di buona lena per le scale, e da Celeste. La chiamai, guardai in cucina e sul terrazzo. La cercai nella stanza… da sotto il letto tornarono ad uscire gli spettri del cuore. Sul cuscino vicino a un suo capello, un foglio. La poesia che le scrissi per il suo scorso compleanno, e un rigo con la sua calligrafia “…perché dovremmo farci del male…”.
Siedo al computer, come Pound ad immaginare, davanti a questo bel sito da cui trapela la presenza di belle persone. Tra poeti che lasciano trasparire la loro bontà d'animo, come te Anna Maria che hai da poco scritto.
Non dormirò. Ancora.
Nei toni celeste delle mie atmosfere
In fondo è come bere da un fontanile, le mani a conca per raccogliere l’acqua… mi piace l’immagine delle mani a conca, l’ho già usata in una poesia. Lungi da me l’idea di contraddire Flaiano, ma non credo che un’idea vada domata. Va piuttosto raccolta come l’acqua e portata a sé, con cura. E l'indifferenza delle parole che non vogliono collaborare richiede discrezione. Lo sgomento della carta bianca non è questione di sconfitta o di vittoria, piuttosto di attesa… Celeste l’ho attesa con la discrezione di una porta socchiusa, consentendole di vedere una parte di me.
Ora che è di nuovo tornata con l'ipocrisia delle buone soluzioni, e che forse si lascerebbe raggiungere da dietro con le mie mani sui suoi fianchi… nel mettermi a tavolino sento che mi devo qualcosa di più che la piattezza delle frasi che escono bell'e fatte. E sento di dover qualcosa in più anche a questo racconto che nel tuo commento a “Dialogando rumorosamente col cielo” Manù mi hai ispirato. Tra noi simili c'è un dialogo che investe spesso il cielo, a volte silenzioso avvolge i poeti che sanno ascoltare come te Margherita, e ringraziare quell'emozione vibrante che scuote nel profondo e ci regala la gioia di non essere mai completamente soli.
Sapete, il problema mio non sta nell’essere giudicato come persona da chi non ha camminato almeno qualche chilometro nelle mie scarpe… come recita un vecchio proverbio, o come fecero le labbra di Celeste tra le mie dita. Graffi i suoi. Quel che mi fa male è che si dubiti che la bella parola sia l'arma pacifica che annulla la distanza. Con essa si condividono emozioni, essa asciuga o fa sgorgare lacrime… polvere dagli occhi di una bambola di pezza che sussulta. Sussulti mai, Celeste, all’odore della carta?
Mirko D. Mastro
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sorry, perdona gli errori
Grazie per aver incluso un mio pensiero/commento è stato un onore per me!
Complimenti Mirko, un abbraccio!
Lui lo sa
Ed io interagisco tra loro e te come uno spettatore che nn può fare a meno di tuffarsi...
Straordinario