calato giù da nebbie di cotone
come pioggia muta
e versato su correnti di aguzza pietra
tra briciole di prati e petali e legno.
Sono fango: agglomerato di sospiri terreni,
e di risate su specchi di fiume
e noviluni appesi al soffitto.
La schiena è ruvida di calcare
ma l'addome liscio come pareti d'olio;
Figura senza lati, circonferenza senza raggio.
Dio lo sa che scorrerei immobile
eppure giaccio senza sosta
ad impastare l'asflato d'autunno.
Ammanto ruote di gomma
in questo abbraccio ibrido;
spargo le mie estremità
sui passi lenti e su quelli celeri.
(A metà capra di montagna,
a metà granchio di mare.)
A metà cobaltea corrente,
a metà frutto di orogenesi.
Arenatomi nelle baie vuote
della mia solitudine,
mi confronto poi con i riflessi
dei boschi, dei rami secchi
delle fonti fredde, delle pozze blu;
mi riconosco nelle corrispondenze
silenti del loro chimico assenso.
Fosca è la mia condizione spirituale,
fosca degli abissi della terra o
di crepacci d'oltremare;
fitta come le indistricabili chiome delle sequoie
e come le gocce che si ammassano nell'oceano;
selvaggia come la rete di stelle che si specchia nel mare
e come tappeti di muschio bianco del sottobosco.
Mai in bilico tra spinte opposte
ma racchiuso in un incastro voluto dal cosmo.
Corrispondo a me stesso,
da qualsiasi lato io mi osservi,
e mi ricongiungo al mio sguardo
attraversandomi il lago del dorso,
le stalattiti degli arti, il colle fulvo,
e i ruscelli vermigli.
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