nell’atto blasfemo del capriccio
non volli dapprima infondere la mente.
Lasciai che le polpe cieche strisciassero
nelle fessure del mondo, cavalcassero
le antesignane stelle,
condottieri alla testa della notte.
Con le fronti spente,
trovavano casa in tutti i luoghi
e i pertugi fangosi, contente
di divorare talvolta
le proprie inique membra.
L’acqua rimordeva le sponde,
cavava le terre, abbeverava le bestie,
senza recare memorie, né covare segreti;
gusci di legno non avrebbero a lungo
solcato le onde e non v’era braccio marino
oh così invitante, così navigabile
tra i reami del fisico e il mio genio.
Ma ero insoddisfatto.
Non mi ritrovavo specchiato,
temevo di perdermi
nel nulla della mia immagine.
Allora mi sovvenne
ciò che avevo riposto un tempo
tra i granelli della terra: i metalli,
i loro aguzzi, freddi spigoli,
il loro amore per il fuoco.
Mi feci di fiamma.
Bruciai e arsi e divampai coraggioso.
Mi racchiusi in me, la schiena inarcata,
le mani tra le ginocchia,
il fondo del mio universo oscurato
per un istante, un respiro,
dal tendaggio accecante dei miei capelli.
E con uno slancio di puro amore,
imposi la mia volontà
e la lasciai andare, ed essa fluttuò,
salendo lentamente a mezz’aria.
Insieme ci compimmo
in un cerchio perfetto,
l’ultima evoluzione del mio caos,
e galleggiò là, contro un cielo che sapevo
essere nero anche se non potevo vederlo.
E poi si distaccò, al primo fiato
mi abbandonò, prese la sua strada.
Era già altro da me, era un continente
esiliato, prova lontana della mia esistenza.
Tanto altera, tanto seria parve allora
la mia vita che piansi, e piansi,
ché pur amando e avendo generato
l’infante tiranno, vinse la morte,
e la mia creatura non tornò mai più
a casa, qui tra i miei fianchi,
dove cessa il tempo.
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