La prima cosa erano gli occhi
di un nero più nero del nero
tutt'intorno tuttavia un sole a spuma,
pini selvatici, manciate di ghiaia e giganti metallici,
si sarebbe fatta la luce nella più tetra
delle notti se avessi detto il nome tuo
incastrato al mio, e il mio al tuo, l'uno all'altro
ma la seconda cosa era un silenzio di cartone
e qualche cosa che gli circolava dentro
io mi imbrigliavo la voce
cantavo, però, e ti decantavo da muto
ascoltavi soltanto, tu, senza sentire mai,
davi retta al buio, e al silenzio, declamavi
l'epopea di quel timore rinnovato
di avere le mie mani sulle tue cosce
e le tue cosce tra le mie mani.
La terza cosa infatti era il respiro gonfio,
raccontava l'abbandono ritmico
a cui occorre cedere raso raso
al lombi, ai fianchi, un po' più in basso ancora
dove carpirti a bocca spalancata.
La quarta cosa era pelle,
a vie, e a strade, e a città
metropoli di pelle,
quasi paesi e continenti, tanta era
da percorre, la mia e la tua
e le mie dita gambe, e le tue zoccoli di cavallo
noi intanto persi nel tradurre l'altro
e impaginare rese diverse di noi,
quel che rimaneva sospeso, quel che era perso
nel divenire l'uno parola per l'altro
eravamo noi,
e qui la sublimazione e qui l'incontro,
allora la quinta cosa era la sesta cosa,
e la settima, e tutte le altre a seguire
non più unità bensì molteplici moltitudini
in fila, una folla, una fetta d'universo
il possesso delle cose recapitato a dio
e il nome loro smantellato, impacchettato
riconsegnato a chi sapesse cosa farne
e il mio grigiore la tua fiamma,
e il tuo gelo per me calore,
le tue opinioni il mio battito ,
il mio ardore qualcosa che ti facesse riflettere,
e noi sciolti, da soli, risciacquati, da ogni cosa scevri
in petto alla notte ,
a comporre non lo stato delle cose
ma il loro processo, per cui: la felicità
di un nero più nero del nero
tutt'intorno tuttavia un sole a spuma,
pini selvatici, manciate di ghiaia e giganti metallici,
si sarebbe fatta la luce nella più tetra
delle notti se avessi detto il nome tuo
incastrato al mio, e il mio al tuo, l'uno all'altro
ma la seconda cosa era un silenzio di cartone
e qualche cosa che gli circolava dentro
io mi imbrigliavo la voce
cantavo, però, e ti decantavo da muto
ascoltavi soltanto, tu, senza sentire mai,
davi retta al buio, e al silenzio, declamavi
l'epopea di quel timore rinnovato
di avere le mie mani sulle tue cosce
e le tue cosce tra le mie mani.
La terza cosa infatti era il respiro gonfio,
raccontava l'abbandono ritmico
a cui occorre cedere raso raso
al lombi, ai fianchi, un po' più in basso ancora
dove carpirti a bocca spalancata.
La quarta cosa era pelle,
a vie, e a strade, e a città
metropoli di pelle,
quasi paesi e continenti, tanta era
da percorre, la mia e la tua
e le mie dita gambe, e le tue zoccoli di cavallo
noi intanto persi nel tradurre l'altro
e impaginare rese diverse di noi,
quel che rimaneva sospeso, quel che era perso
nel divenire l'uno parola per l'altro
eravamo noi,
e qui la sublimazione e qui l'incontro,
allora la quinta cosa era la sesta cosa,
e la settima, e tutte le altre a seguire
non più unità bensì molteplici moltitudini
in fila, una folla, una fetta d'universo
il possesso delle cose recapitato a dio
e il nome loro smantellato, impacchettato
riconsegnato a chi sapesse cosa farne
e il mio grigiore la tua fiamma,
e il tuo gelo per me calore,
le tue opinioni il mio battito ,
il mio ardore qualcosa che ti facesse riflettere,
e noi sciolti, da soli, risciacquati, da ogni cosa scevri
in petto alla notte ,
a comporre non lo stato delle cose
ma il loro processo, per cui: la felicità
Poesia scritta il 09/02/2020 - 19:57
Da Matih Bobek
Letta n.793 volte.
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Commenti
Meravigliosa!
Carla Vercelli 12/02/2020 - 12:54
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