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Mille chilometri

MILLE CHILOMETRI



L’estate stava per cominciare e il viaggio era ormai nell’aria.
I miei pensieri si rivolgevano solo a ciò che ci aspettava: l’impresa di attraversare l’Italia in Cinquecento.
L’avventura di Marco Polo mi sembrava una bazzecola al confronto.


Papà tornò a casa, una calda sera di giugno, con una strana espressione dipinta sul volto. Era un misto di complicità, di riflessione e di suspense.
- Allora, che ti hanno detto? – chiese la mamma, mentre rimestava il minestrone.
Lui si sedette al tavolo di cucina e sospirò. Rimase a lungo in silenzio.
Mio fratello Lorenzo ed io stavamo giocando a dama. Ci interrompemmo e lo guardammo come se fosse un giudice in procinto di emettere la sentenza.
- Il signor Sertori – disse - mi ha assicurato… Basta andare con prudenza, insomma, senza affaticarla. Ogni settanta-ottanta chilometri ci fermeremo per far respirare il motore. La Cinquecento potrebbe portarci fino a Capo Nord.
Noi invece andavamo a sud.
Destinazione: Alta Irpinia, terra d’origine di mio padre. Da Sondrio a Lacedonia, un viaggio di mille chilometri.
Era il giugno del 1961. La mia famiglia si accingeva a vivere la prima villeggiatura in automobile. Mio padre era maestro elementare, aveva l’estate tutta per sé.
La Fiat Cinquecento era nuova di zecca, verde prato, targata SO-15797: uno scatolino dalla vernice e dalle cromature fiammanti, con un odore di plastica all’interno che ne garantiva la verginità. Anche per noi era arrivata, dunque, la libertà su quattro ruote.


E venne il giorno della partenza.
Io e i miei fratelli eravamo elettrizzati. Mamma e papà facevano fatica a tenerci a freno, con tutta l’ansia di non dimenticare qualcosa. Dovevamo attraversare l’Italia in gran parte della sua lunghezza, e poi ci aspettavano due mesi di soggiorno in quel paese sperduto sulle gialle colline dell’Irpinia.
Ci mettemmo in macchina alle sei e trenta del mattino. Dopo quasi tre ore raggiungemmo Lecco, distante ottantatre chilometri. La tortuosa strada lungo la sponda orientale del lago di Como era, anche per i tempi, trafficata, e ci aveva costretto a un’andatura da lumaca. Mio padre aveva voluto attenersi scrupolosamente ai consigli della Concessionaria Sertori: dopo settanta chilometri, si era fermato per quasi mezzora, aveva aperto lo sportello posteriore e aveva fatto riposare il motore.
Viaggiavamo scomodi, ma felici. La macchina era sovraccarica, con quel muro di valige legate al portapacchi. Sul sedile anteriore, mia madre teneva in braccio Marco, il fratellino di tre anni. Su quello posteriore, mia sorella Elisabetta, io e Lorenzo. Stavo seduto nel mezzo perché volevo vedere la strada, e poi mi piaceva osservare le manovre che papà faceva nella guida.
Ma presto venne la stanchezza. Il ronzare del motore mi metteva sonnolenza, accentuata dal caldo che i vetri abbassati non riuscivano a mitigare. I miei fratelli, costretti contro i finestrini, ogni tanto manifestavano insofferenza. Mia madre faceva di tutto per tenere buono Marco.
Verso le tre del pomeriggio giungemmo alla prima meta del viaggio: una cascina presso Mantova, dove viveva una cugina di mia madre.
- Benvenuti – ci accolsero lei e il marito.
Mio padre era stravolto per la guida. Ricambiò i saluti e fece notare, con evidente orgoglio, la nuova vetturetta che ci aveva portati sani e salvi fin lì.
- Quanto pensi di impiegare per arrivare al tuo paese, Antonio? – chiese Elvia, la cugina di mia madre. Non aveva la minima idea dove fosse Lacedonia. Sapeva solo che si trovava in Terronia e che i chilometri si dovevano contare almeno nell’ordine delle migliaia.
- Per domani sera – rispose con sicurezza papà.
Così ci riposammo e godemmo della calda ospitalità della cascina.
Io e i miei fratelli facemmo una certa amicizia con i figli di Elvia. Mi rimase impressa la loro lingua (il dialetto mantovano), che mi faceva l’effetto di un idioma straniero. Mantova mi sembrava distante da Sondrio, quasi come l’Italia dall’America.


Il giorno dopo, prestissimo, ci rimettemmo in marcia.
Mio padre cantava La montanara e O sole mio. Teneva il volante con una mano e con l’altra gesticolava al ritmo della musica. Anche noi eravamo allegri. Marco, sulle ginocchia della mamma, si muoveva come un folletto.
A lungo andare, i rettifili del Ferrarese e del Ravennate ci provocarono una torbida sonnolenza. L’asfalto riverberava. Fughe di pioppi e distese di campi rendevano monotono il nostro procedere.
Ogni ottanta chilometri ci fermavamo e uscivamo per sgranchire le gambe. Mi sentivo come una sardina tolta dalla scatola.
Prima di arrivare a Rimini, mio padre si esibì nel quarto sorpasso di un camion. Gli altri tre risalivano al giorno prima, lungo le statali di Bergamo e Brescia.
- Ce la fai? – chiese con apprensione mia madre, sporgendosi a sinistra per vedere a sua volta se la strada fosse libera.
- Tranquilla, Wanda.
- Arriva una macchina, stai attento! – gridò lei.
- Sì… è passata. Adesso ci provo.
Con uno strappone scalò dalla quarta alla terza, fece tossire il motore, e via…
Ma il rettilineo stava finendo e la piccola automobile arrancava disperatamente per rientrare nella sua corsia. Ce la facemmo per un pelo. Dalla curva sbucò una Fiat 1400, che ci incrociò con un rabbioso e lacerante suono di clacson.
Poi vedemmo il mare.


Il viaggio per un po’ divenne più piacevole, ma ben presto ritornarono la noia e la fatica.
Bisognava fare tutti quei percorsi urbani. Non c’erano tangenziali, a quell’epoca, nemmeno circonvallazioni. Le cittadine adriatiche venivano attraversate nel centro, là dove la Statale 16 si trasformava in lungomare. Un vero stillicidio.
Fano, Senigallia, Falconara Marittima. E poi Ancona.
Il motore della Cinquecento si era surriscaldato e dovemmo fermarci un po’ più del solito.
Arrivammo a San Benedetto del Tronto che faceva ormai notte. Altro che raggiungere la meta in serata! Passammo la notte sul ciglio della strada, fra i pini marittimi, mentre cantavano i grilli e un venticello portava aria salmastra. Per un po’ ci assopimmo in macchina. Poi papà e mamma stesero una coperta nell’erba secca. Così ci allargammo, facendo le cinque di una fresca mattina d’estate.
Quando ci rimettemmo in macchina, papà disse:
- Fra sessanta chilometri siamo a Pescara, e quando saremo a Pescara è come se fossimo a casa. Là, comincerò a sentire l’aria del mio paese.
Pescara la superammo solo dopo due ore. E poi, giù, lungo il rimanente della costa adriatica, verso Termoli.


Era passato mezzogiorno, quando lasciammo la costa per inoltrarci nel Tavoliere delle Puglie.
La fatica stava diventando insostenibile. La Cinquecento emetteva una specie di ronzio soffiante, segno che il motore era messo a dura prova.
Ci trovavamo in una specie di deserto, tra campi di grano a perdita d’occhio da poco mietuti.
Lungo un rettilineo in pendenza, dalle parti di Serra Capriola, mia madre osservò:
- Antonio, perché vai così adagio? Non passa nessuno… e siamo in discesa.
- Ma che dici? – fece mio padre. – Non vedi che siamo in salita?
I miei tre fratelli si erano addormentati. Io provavo la stessa sensazione di mio padre, ma ebbi il dubbio che fosse quella giusta.
La scatola su quattro ruote era diventata un forno, sotto il sole spietato del Tavoliere. E fu con vero coraggio, con la forza che dovevano avere i grandi pionieri, che riuscimmo ad attraversarlo.
Quando fummo sui primi contrafforti dell’Appennino, tra i monti della Daunia e quelli dell’Irpinia, papà accostò la macchina per la solita rinfrescata al motore. Ci fece scendere e ordinò:
- Respirate tutti, a pieni polmoni. Ecco l’aria del mio paese!
E quando poi arrivammo, la nostra fu un’entrata degna dell’impresa che avevamo compiuto. Mentre affrontavamo le ultime curve che ci portavano in paese, la gente ci guardava con vero stupore, si chiedeva da dove venisse quella macchinetta verde prato, stipata di gente e schiacciata da una pila di valige. La vedevano passare, e provavano a leggere la targa: donne sedute a ricamare sull’uscio di casa, il barbiere che aspettava il primo cliente del tardo pomeriggio, il sacrista della Chiesa di Santa Maria che apriva il portale per la messa vespertina. E giunti nel piazzale antistante l’Istituto Magistrale, prima di imboccare il vicolo dove sorgeva la casa dei miei nonni, dovemmo sostare a lungo dietro una fila di contadini con muli e asini che tornavano dalla campagna. E quella fu l’ultima coda, fu l’ultimo rallentamento di quel viaggio durato tre giorni.
La mamma, stravolta per la stanchezza, disse:
- Ecco, bambini, siamo a Lacedonia. Mille chilometri da casa nostra. Qui ci staremo per quasi due mesi.
Ma il mio pensiero andava al prossimo viaggio.
E pensai che due mesi sarebbe stato un lasso di tempo troppo breve, tra l’andata e il ritorno.




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Racconto scritto il 18/02/2016 - 18:54
Da Giuseppe Novellino
Letta n.956 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Letto con attenzione, mi son ritrovato protagonista per magia, un poco padre pilota alla guida ricordando i tanto celebrati "tacco e punta" nei cambi di marcia; un poco guardando ammirato con gli occhi di bambino il paesaggio d'intorno; più spesso tirato e anchilosato per lo stress di un viaggio scomodo. E' un quadro del realismo degli anni del boom economico da rivivere con nostalgia.

salvo bonafè 19/02/2016 - 11:03

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Bellissimo racconto... per me emozionante. Nel 1981 comprai una vecchia 500 grigia del 69, che un contadino conservava nel suo pollaio.. mi costò centomilalire. con l'aiuto dell'amico carrozziere la dipingemmo giallo canarino.. La prima auto, e i primi amori, non si scordano mai.. Grazie

Francesco Gentile 19/02/2016 - 10:34

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La grande 500, incredibile vedendola ora come si riuscisse ad entrarci. Un viaggio epico. Il ritorno, sapendo che le vacanze sono finite, sarà stato anche più duro!
Al posto di "strappone", sul sorpasso, avrei usato il termine " poderosa doppietta" che era una caratteristica della 500...

Glauco Ballantini 19/02/2016 - 10:27

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