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VOSCENZA BENEDICA

Voscenza benedica!



Un contadino, chiamato massaru Nittu, essendosi arricchito non molto onestamente, un giorno pensò di dare più tono al suo nome e di ricevere di conseguenza, a suo modo di vedere, più rispetto.
Diceva, infatti, rivolgendosi alla moglie: “ Ormai sono un uomo facoltoso, aumento le mie ricchezze ogni giorno di più, la gente ha bisogno del mio denaro, quindi la stessa mi deve massimo rispetto. Chi parla con me da oggi deve chiamarmi Don Binidittu e non più massaru Nittu”.
Così pensava e così educava i suoi due figli, Stefano e Vincenzo, ignorando che la ricchezza è solo una mera illusione, che discrimina e divide gli uomini.
La famiglia di Don Binidittu abitava in una masseria di sua proprietà ed, avendo alle proprie dipendenze dei braccianti agricoli, che sfruttava in maniera indegna, adibendoli ai lavori più duri e soprattutto mal pagati, agli stessi concedeva ogni tanto di sera di sedersi insieme con lui in uno spiazzo antistante la casa per dialogare e con la scusa di quella concessione dagli stessi si faceva riverire, facendosi salutare “Voscienza benedica Don Binidittu”, provando così grande e sadica soddisfazione.
Ogni sera durante l’estate tutta la famiglia era sempre seduta su un basso muretto di pietra, che circondava la casa colonica, e lui raccontava, raccontava e si vantava in maniera spavalda delle sue “gesta”, che lo avevano portato in quella florida posizione di benessere, di cui tutta la predetta famiglia era già a conoscenza, ma anche gli astanti braccianti agricoli, che qualche volta erano presenti e che, ipocritamente per salvaguardarsi un pezzo di pane, assentivano coi gesti, ma non con la mente.
Un giorno verso l’ora del tramonto del sole, mentre era seduto in quel solito cortile con i suoi familiari, a cui ripeteva la solita litania sopra descritta, annoverando tutti i suoi averi, acquistati col sudore della sua fronte, ed il desiderio di accrescere sempre più le sue sostanze, si presentò a lui un povero contadino, che teneva per mano il figlioletto di cinque o sei anni; i due mostravano pantaloni e giacca malamente rattoppati, gli scarponi rotti e i visi macilenti: la fame e lo sconforto erano da loro ben rappresentati.
Con il rispetto proprio di chi non ha, ma con dignità di uomo di fronte a chi dispone, quel poveraccio si rivolse a Don Binidittu per chiedere lavoro con queste parole: “Voscienza benedica,Vossìa m’avi a scusari, si lu vegnu a disturbari, ma semu stanchi ed affamati, Vossìa m’aiuta e iu travagghiu pri Vossìa, pri un pezzu di pani sugnu lu so servu”.
Toccanti le parole di quel povero contadino, chiamato massaru Liboriu - pri un pezzu di pani sugnu lu so servu -.
E’ proprio vero, il bisogno, la stanchezza, il dolore logorano la mente e le forze dell’uomo, che, piegato e talvolta spezzato, sommesso ed impotente cede alle angherie dei potenti.
Il mondo, purtroppo, è quello che è e i deboli per sopravvivere devono lavorare senza riposo fisico e mentale, affrontando la vita così come è. E’una dura constatazione, ma è così.
Gli uomini deboli e gli umili sono dei vinti in questo mondo ed anche questa, purtroppo, è un’amara realtà. Gli umili, infatti, sono i più esposti alle angherie, all’indifferenza ed all’ingiustizia umana, perché sono eroicamente attaccati alle proprie ferree leggi della famiglia, del lavoro e dell’onore.
“O tempora, o mores!”. Esclamava Cicerone nelle sue Catilinarie, riferendosi alle cattive condizioni morali di quei tempi.
Ahimè! Purtroppo, ancora oggi non siete cambiati, o tempi, o costumi! Solo i sistemi di asservimento dei più deboli sono un po’ diversi. Mutatis mutandis, la sostanza rimane la stessa, la cattiveria umana dilaga ed è sempre valido il detto: “Mors tua, vita mea”.
A quelle parole supplichevoli di massaru Liboriu, Don Binidittu, alzatosi in piedi, pipa di traverso in bocca e sollevandosi il berretto sulla testa con la mano destra alla stessa stregua degli ignoranti e cafoni malandrini, guardando con disprezzo quei pezzenti, con arroganza rispose: “Amicu miu, tu sbagliasti strata, lu prontu succursu è a n’antra banna. Va cercati n’antru patruni, pezzu di vacabunnu e mbriacuni”.
Sebbene offeso, lu massaru Liboriu con voce fioca e sottomessa così pregò ancora Don Binidittu: “ Si propriu Vossìa nun m’aiuta, chi canusci comu a mia lu tempu di la fami, a cu l’haiu a cuntari la sorti mia e di stu picciliddu. Vossìa m’aiuta Don Binidittu caru!”.
Invece d’impietosirsi quel ceffo, che dal bambino era guardato con paura, quelle parole gli suonarono offensive e quindi si adirò ancora di più e, offendendo quel pover’uomo con altre parole oltraggiose alquanto, gli intimò di andar via immediatamente e di non farsi più vedere; lo minacciò anche che gli avrebbe scagliato contro i suoi feroci cani, se fosse entrato qualche altra volta nella sua fattoria.
Il povero contadino, sentite quelle brutte parole, terribilmente minacciose, col cuore affranto, a testa bassa, riverì Don Binidittu, riprese quindi per mano il figlioletto e, trascinandosi a fatica, come un cane bastonato dal suo barbaro padrone, si allontanò fuori dalla masseria di Don Binidittu, sussurrando al figlioletto: “ Si nun nn’aiutanu l’omini, figghiu miu, nn’aiuta Diu”.
Ridendo a crepapelle, Don Binidittu, a cui fece coro il riso melenso dei suoi due figli e di qualche bracciante agricolo, che a suo malgrado si accodava, gridò alla moglie in maniera sgarbata, perché portasse loro del vino.
Dopo molti anni avvenne che Don Binidittu e i suoi due figli andarono a caccia, come erano soliti fare quando si concedevano qualche vacanza, attraversando monti e valli lontani dalla loro fattoria. In quelle lande allora la flora era più folta e la fauna proliferava agevolmente; pertanto, per i cacciatori gli animali erano veramente una facile preda. Infatti, i loro tascapani erano pieni di lepri, di conigli, di pernici e di tante altre cose: frutta, verdura, et cetera, perché da dove passa, talvolta o spesso, il cacciatore fa man bassa delle cose altrui; non è la norma, ma nomea ce n’è.
Felici e contenti della buona caccia, i tre, Don Binidittu e i suoi due figli, sorseggiando ogni tanto da una borraccia del buon vino rosso, s’incamminarono sulla via del ritorno alla loro abitazione, cantando soddisfatti a squarciagola: “Nun è lu veru ca la me vita è dura, a mia mi pari, amici, ‘na villeggiatura”.
Però ad un tratto quell’allegria si spense, perché Don Binidittu cominciò a sentirsi male e, quindi, pallido e sudato, svenne, abbattendosi a terra, forse per gli anni o forse per la fatica. I figli, disperati, lontani da casa, in quei luoghi sperduti tra i boschi e all’imbrunire, cominciarono a gridare per chiedere aiuto. Chi poteva sentire la loro voce in quelle sperdute lande? Infatti, non si scorgevano case da quel sito, dove giaceva a terra il loro padre.
Erano veramente tanto disperati e confusi Stefano e Vincenzo, che non sapevano come rianimare il padre, come potergli dare soccorso; così continuavano a gridare a squarciagola, sparando in aria colpi di fucile.
Al richiamo continuo ed agli spari dei due ad un tratto rispose da lontano una voce: “Ca sugnu, ca sugnu, staiu vinennu, staiu vinennu”. Ansimante giunse subito dopo un giovane alto e robusto, che, visto quell’uomo nel predetto stato di torpore, disse ai due, Stefano e Vincenzo, di non preoccuparsi, perché la sua casa non era lontana, anzi era proprio lì, dietro la collina.
Tutti e tre a fatica trasportarono Don Binidittu a casa, lo distesero sul letto ed il vecchio massaru Liboriu, padre di quel robusto ragazzo, che riconobbe immediatamente Don Binidittu alla luce di una fioca candela, facendosi la croce, andò a bussare subito alla porta del suo padrone, che durante l’estate villeggiava per qualche mese in campagna, abitando nel piano superiore della stessa casa che ospitava massaru Liboriu e suo figlio, chiamato Nunziuzzu.
Costui, il padrone della masseria, era un vecchio veterinario, che, sentito da massaru Liboriu quanto era successo, immediatamente scese le scale e si portò a soccorrere il malcapitato. Era un veterinario, ma con l’esperienza fatta sugli animali, subito si accorse, dopo aver visitato con molta attenzione Don Binidittu, che lo stesso a causa della stanchezza, considerata anche la sua età, aveva avuto di conseguenza ipotensione arteriosa, quindi, riferendosi ai figli, li tranquillizzò, affermando che il loro padre aveva solo bisogno di riposo e che l’indomani mattina sarebbe stato bene come prima. Gli diede da bere solo qualche goccia di un farmaco e, raccomandando a tutti di lasciarlo riposare in silenzio, se ne tornò al piano di sopra.
Più tardi i due figli di Don Binidittu, massaru Liboriu e Nunziuzzu, consumarono un frugale pasto e si misero a dormire. L’indomani, al risveglio, Don Binidittu, alzatosi dal letto, si sentì di nuovo bene ed uscì fuori di casa, dove già c’erano i suoi due figli ed il figlio di massaru Liboriu, che lo accolsero festosi. “ Don Binidittu - gli disse Nunziuzzu - arsira Vossìa nni fici scandari; comu si senti ora?”. Don Binidittu, che aveva riacquistato le forze col riposo, subito rispose: “Mi sentu beni, figghiuzzu miu, mi sentu un liuni, ma vaiu capinnu ca va nvicchiannu lu liuni. E tu comu ti chiami bravu e forti picciutteddu?”. E quello: “ Mi chiamu Nunziuzzu”. E l’altro aggiunse: “E to patri cu è?”. Nunziuzzu rispose: “ Me patri è lu massaru Liboriu Minestrafridda”. Don Binidittu si fece pensieroso, ma non riuscendo a ricordare, dichiarò - nun m’arrigordu di to patri Nunziuzzu. Ma unni è ora? Arsira mi parsi, quannu mi sintiva mali, ca c’era un vicchiu cu la varva longa, ca parrava cu unu ca mi visitava -. I due figli subito gli riferirono che all’alba lu massaru Liboriu si era recato ad una sorgente per riempire d’acqua le brocche e che sarebbe ritornato molto presto.
Allora era consuetudine per tutta la gente che abitava in campagna di approvvigionarsi d’acqua in quella sola maniera, andando ad attingerla dalle varie sorgenti più vicine alla loro abitazione.
I figli di Don Binidittu e lui stesso non riconobbero il giovane robusto, figlio di massaru Liboriu, in quanto da allora erano passati più di dieci anni. Così tra loro si misero a dialogare su tante cose e su tanti fatti inerenti all’agricoltura ed alla pastorizia, ma non disdegnarono di parlare di donne.
I due figli di Binidittu si rammaricavano di non aver potuto fare vita cittadina, in quanto il loro lavoro, ma soprattutto il padre li costringeva per tanto tempo a lavorare in campagna e quindi ora si sentivano un po’ attempati per fare il grande passo, mentre a Nunziuzzu dicevano che, essendo ancora giovane, poteva facilmente trovarsi una ragazza e quindi sposarsi. Anche Nunziuzzu, però, affermava di avere in atto molte difficoltà, perché abitava sempre in campagna, ma soprattutto perché gli mancavano le risorse economiche per mettere su famiglia.
A quel dialogo Don Binidittu non partecipava, ma attentamente con ostentata indifferenza ascoltava. Il suo sguardo e i lineamenti del suo viso mentre i tre dialogavano lasciava trasparire un po’ di disagio; in pectore, infatti, sicuramente era un po’ pentito del suo comportamento nei confronti dei figli, ai quali aveva insegnato solo a lavorare come bestie da soma e ad accumulare denaro.
Il veterinario, che si era svegliato, si affacciò alla finestra ed ascoltava i loro discorsi, poi scese dal piano superiore e, avendo visto Don Binidittu in ottima forma, gli batté la mano sulla spalla; quindi, soddisfatto del suo lavoro, si sedette su un sedile di pietra, che insisteva sullo spiazzo.
Tutti continuarono a parlare del più e del meno, mentre ad un tratto a cavallo di un mulo, che trasportava ai lati della sella quattro brocche, poste dentro ad una “sacca”, fatta di verghe o succhioni di ulivo attorcigliati, due a destra e due a sinistra, si ergeva una figura di uomo con la barba lunga, che a poco a poco, avvicinandosi, delineava sempre più la sua persona, che vacillava al passo di quel mulo, che scandiva come un orologio a passi lenti e stanchi il tempo suo e del suo cavaliere.
- Eccu, me patri!- dissi Nunziuzzu.
- Eccu lu massaru Liboriu - aggiunsero gli altri due e il veterinario.
Don Binidittu guardava con molta attenzione quell’uomo mentre si avvicinava. Appena Massaru Liboriu giunse allo spiazzo Nunziuzzu gli si fece avanti, attese che il padre scendesse dal mulo e quindi cominciò a scaricare unitamente ai figli di Don Binidittu le brocche piene d’acqua. Il vecchio massaru Liboriu con un sorriso, che esprimeva grande gioia sulle labbra, ma negli occhi anche un po’ di tristezza, propria di chi ricorda qualche triste evento, si avvicinò subito a Don Binidittu e gli chiese come stava.
-Beni, beni! - esclamò Don Binidittu e, stringendogli la mano con vigore, lo continuava a guardare attentamente negli occhi; lo guardava, ma non ricordava. Così subito esclamò: “ Ma iu vi canusciu! Ma nun m’arrigordu unni vi vitti pri la prima vota. Aviti cori vui, massaru e anchi vostru figghiu è comu vui. Grazii, grazii assai, amici mei! Sacciu comu vi chiamati, ma no cu siti”.
Massaru Liboriu allora, visto che il suo interlocutore non riusciva a ricordare, a bassa voce, propria di chi sente del passato tutto il peso, gli dichiarò:
“ Iu sugnu lu massaru Liboriu, Voscienza, e staiu ca a lucariu nni stu santu omu, chi è lu vetirinariu”.
- Lu massaru Liboriu è na persuna onesta - confermò il veterinario – e iu haiu fiducia ad iddu e a so figghiu Nunziuzzu.
Ma Don Binidittu replicò ancora: “Ma iu vi canusciu, ma nun m’arrigordu. E vui v’arrigurdati di quarchi cosa? Nni canuscimmu forsi a quarchi banna? Si v’arrigurdati, parrati vui”.
Lu massaru Liboriu si fece coraggio e, come colui che prova indicibile dolore a ricordare il suo tempo infelice, passato nella miseria e nel vilipendio, così soggiunse: “ Sissi, Voscienza, e comu si m’arrigordu, l’haiu sempri nni la menti lu passatu. Ma mugghieri di picca m’avia mortu e ristavu sulu cu stu picciliddu. Mi sintiva dispratu pri la malasorti, ma ancora forti pri putiri travagghiari, accussì vinni nni la so massaria pri addumannari a Vossìa lu travagghiu e poi mangiarimi lu scuttatu pani cu lu suduri di la me frunti onesta. Voscienza tannu nun ascutà li me bisogna, anzi m’amminazzà cu palori brutti e si di cursa iu nun mi nni iva, mi misi timuri d’assugliarinni li so feroci cani, facennu scandari a mia e atturriri di cchiù a lu me picciliddu, ca comu vidi ora è un beddu picciutteddu.
Così io e mio figlio ce ne andammo con il cuore afflitto e poi, delusi, c’incamminammo verso un orizzonte sempre più ignoto. Ma mentre camminavamo senza metà, ci venne incontro a cavallo di una giumenta bianca Don Pitrinu, lu dutturi veterinariu, che ascoltati i nostri bisogni e le nostre disavventure, mi chiese di far saltare in groppa alla giumenta mio figlio e di raggiungere assieme a lui la sua casa di campagna, dove lui stesso stava andando, offrendomi una casa e un lavoro nello stesso tempo. Da allora io e mio figlio con tanta gioia e tanta serenità, lavorando i terreni di Don Pitrinu, viviamo qui.
Lu Signiruzzu nun abbannuna mai. Come vede, Voscienza, anche Vossìa nel bisogno ha trovato il suo conforto nella nostra umile casa. Vossìa havi a sapiri ca stanotti Nunziuzzu e li so figghi hannu durmutu fora pirchì ca ci sta sulu lu lettu miu e chiddu di me figghiu”.
Don Binidittu ascoltò il racconto di massaru Liboriu, che nella sua descrizione mostrava con i
gesti delle mani e con l’espressione del viso un dolore pacato, senza ribellione. Anche la sua voce era serena, solo un po’ stanca: era la voce di un uomo, che conosceva troppo la sofferenza e che da tempo, dolorosamente rassegnato, aveva accettato le proprie sciagure come parte integrante della sua vita e quindi con le stesse conviveva.
Il ricordo affiorò subito alla mente di Don Binidittu, che con un groppo alla gola sommessamente esclamò: “ Massaru Liboriu, iu nun sugnu un Voscienza, io sono un villano fiorito, uno sfruttatore di uomini nel lavoro e un miserabile usuraio; divenni tale perché anch’io da piccolo fui assieme a mio padre in altri tempi pure uno sfruttato. Ma io oggi m’inginocchio davanti a Vossìa massaru Liboriu e ringrazio Dio per avermi dato la fortuna d’incontrarvi per potermi pentire di tutti gli sbagli che ho fatto e i torti che ho arrecato alla gente più debole. La ricchezza mi ha tolto il bene più grande, che un uomo possiede, l’umanità. Il pensiero del mio tristo passato mi ha spinto sempre alla vendetta, perdendo così la dignità di uomo. Io vi supplico di perdonarmi e permettetemi di darvi una lauta ricompensa per quello che voi e vostro figlio avete fatto”. Così estrasse il portafoglio e disse a massaru Liboriu che il denaro che c’era lì dentro era tutto suo.
Massaru Liboriu, guardando il suo benefattore, il veterinario, rispose con garbo a Don Binidittu, affermando che le cure e l’ospitalità gli erano state offerte dal veterinario, da lui e da suo figlio solo per umanità e non altro; pertanto, per le stesse non vi era prezzo che si potesse pagare col denaro, ma con lo stesso mezzo, con l’umanità.
Don Binidittu, ascoltate quelle parole, si stupì ancora di più e comprese di avere offeso profondamente ancora una volta con quel suo gesto massaru Liboriu; capì anche quanto male avevano causato a molta brava gente i suoi comportamenti malefici. Quindi, davvero pentito, Don Binidittu, ringraziò il veterinario, stringendogli la mano, e poi, avvicinatosi a massaru Liboriu ed a suo figlio Nunziuzzu, li abbracciò affettuosamente, gridando a voce alta e tremula, molto commosso: “Voscienza siete voi Don Liborio, mentre io sono degli uomini la feccia. Mi pento anche di avere dato sempre un brutto esempio ai miei figli ed oggi sono felice per essermi ravveduto grazie al vostro insegnamento ed alla vostra bontà d’animo. Oggi per me è un bel giorno: oggi è il giorno della redenzione.Vi ringrazio Don Liborio a nome mio e dei miei figli ”.
Quel medico, Don Pitrinu, che aveva assistito, commosso, a quanto sopra descritto, aggiunse che conosceva massaru Liboriu per le sue buone azioni verso di lui stesso e verso tanta altra gente, ma ignorava quest’altra parte del suo passato. Rivolgendosi, pertanto, a Nunziuzzu, così si espresse:
“Tu hai conosciuto lo sconforto più grande, quello di essere cresciuto nella sofferenza senza tua madre e tuo padre è stato padre e madre per te. Ero un po’ a conoscenza delle vostre sofferenze, che mi avete raccontato, e vi ho aiutato, ma oggi voglio rivelare a tutti voi apertamente che io stesso ebbi a soffrire la stessa sorte; infatti, persi mia madre a soli cinque anni e mio padre venne meno pochi anni dopo. Fui allevato in un orfanotrofio e poi fui adottato da una famiglia agiata, che mi educò bene e mi fece studiare, lasciandomi, infine, in eredità tutte le sue sostanze. Io conosco la vostra sofferenza, perché anch’io la ho in parte vissuto come voi.
Oggi vi dico, massaru Liboriu, che vostro figlio è spiritualmente anche figlio mio, se voi lo permettete. Io sono vecchio e non ho nessuno, ma voglio avere, dopo morto, un fiore che adorni la mia tomba ed una persona che ogni tanto si ricordi di me.
Nunziuzzu sicuramente non mi dimenticherà. Pertanto, io lascio a stu picciottu beddu alla mia morte tutto quello che ho con la speranza che il mio gesto, quello di massaru Liboriu e di Nunziuzzu possano servire da esempio, non solo al vecchio Don Binidittu, ma soprattutto ai suoi figli, che di quanto oggi è avvenuto qui sono stati attenti spettatori.
I potenti, i delinquenti e gli ignoranti credono con le loro ricchezze di asservire gli umili e di elevarsi sulla realtà, ma le ricchezze creano solo illusioni e fantasmi nella mente umana, spingendo solo all’odio, all’invidia ed alla guerra tra gli uomini.
Gli uomini potenti pensano che la realtà si possa superare con la forza del denaro, illudendosi che lo stesso dia la capacità di superare ogni ostacolo, ma le leggi della vita prima o poi stroncano ogni umana illusione.
Il cosiddetto vincitore sarà anche lui un vinto, perché è lapalissiana ad ogni essere vivente la verità: in questo mondo siamo tutti dei vinti”.
Con le lacrime agli occhi i cinque protagonisti quel giorno compresero il valore della vita umana e quale grande rispetto si deve ad ogni uomo, sol perché lo stesso vive sulla terra.
Così si strinsero la mano con affetto e, salutandosi affettuosamente, ognuno di loro se ne andò per la sua strada, suggellando l’amicizia nel cuore.
Mentre io, che, descrivendo questa drammatica narrazione, ho assistito al fatto come se l’avessi vissuto veramente, sento forte il bisogno umano di unirmi a loro in un abbraccio intenso e spero vivamente che dalla lettura di questo mio modesto racconto anche qualche lettore possa trarre lo stesso beneficio, che derivò agli attori dalle azioni dagli stessi compiute.


Da "SPERANZE E DELUSIONI" - Pellegrini Editore -
Cosenza 2007




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Racconto scritto il 23/02/2016 - 11:42
Da Gino Ragusa Di Romano
Letta n.1716 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Grazie.

Gino Ragusa Di Romano 25/02/2016 - 10:49

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Un giusto riconoscimento a quest'opera ben raccontata, anche il dialetto. E' un pò un racconto verghiano, in un ambiente di una riconoscibile Sicilia sia nei personaggi che nel quadro ambientale. Il dialetto l'arrichisce donandogli la giusta cadenza. 5*

salvo bonafè 24/02/2016 - 13:09

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