UNA PASQUETTA DA PANICO
Era una delle poche occasioni in cui non impegnati con qualche attività che la vita di campagna esigeva, ci si dedicava esclusivamente ad un lungo ed abbondante pranzo. Se il clima lo permetteva ci si accomodava portando dei tavoli e sistemandoli sotto la palma e sotto il giovane pergolato che in quei giorni era già adornato di verdissime ed irrequiete foglie. Se invece il tempo fosse stato inclemente ci saremmo riuniti tutti nella grande cucina, scrigno di indimenticati profumi e dove sarebbero rimbombate risate e racconti.
Eravamo numerosi, ma dalle mie parti non si dice molti o tanti senza farlo seguire con un “Dio vi benedica” così, come uno scongiuro. I miei nonni, Giovanni e Maria, ebbero dieci figli nell’arco di vent’anni, tutti rigorosamente nati negli anni pari, giusto con il settimo sbagliarono di qualche giorno, nacque infatti il 10 gennaio del 1955 anziché entro il 1954. Mia madre fu la prima ed ebbe, ventenne, la sua prima figlia, mia sorella che nacque quattro mesi dopo il suo ultimo fratellino, nostro zio, cosicché nonna allattò sia suo figlio che la sua prima nipote.
Era consuetudine dopo pranzo lasciare gli adulti a parlare pigramente, ma quel giorno si sarebbero diretti verso una vicina casa colonica a far la veglia funebre al vecchio pastore, figura che non si era mai allontanata dal suo gregge e dai pascoli della borgata, e mentre le donne avrebbero lucidato i grani del rosario recitando i misteri dolorosi per poi passare a parlare della tramontana che aveva steso le fave e di quella nuova razza di galline ovaiole, gli uomini sarebbero rimasti fuori a discorrere, perché gli uomini fanno solo le condoglianze e non le preghiere che è roba da donne, e poi alla chetichella si sarebbero spostati verso il magazzino dove avrebbero brindato per tutto il pomeriggio con vino e filu ‘e ferru all’anima del defunto. Alcuni sarebbero rimasti fino alla mattina successiva perché non sta bene lasciare la salma da sola, e qualche familiare li avrebbe trovati all’alba addormentati sulla sedia o con la testa appoggiata direttamente sulla bara.
Noi invece, come sempre durante queste giornate di riunione familiare, ci saremmo diretti in un folto gruppo, formato dagli zii più giovani e tutti i nipoti, verso la spiaggia e avremmo percorso a piedi tutto quel tratto di costa fino al faro, fino a poco tempo prima abitato dal guardiano e da sua moglie che giravano tutta la borgata con le loro biciclette facendo visita a tutti gli abitanti e riempiendo i loro cestini di ortaggi e provviste genuine, solitamente donate. Saremmo poi rientrati percorrendo la strada ancora sterrata che in quel momento dell’anno era invasa da gialle ginestre e da cisto fiorito e dai loro profumi, fusi con la salsedine che la brezza portava dal mare.
La Pasquetta segnava anche il nostro primo bagno della stagione in quell’acqua ancora abbastanza fredda ma tanto limpida e pura da non riuscire a resisterle. Per me il mare era mare ovunque, nel senso che credevo che l’acqua fosse ovunque così limpida, azzurra e cristallina. Avevo venticinque anni quando scoprii la realtà, ed il termine di paragone fu Riccione. Inutile dire quanto ne rimasi sconvolta.
Lungo il tragitto se la sabbia non l’avesse coperta, ci saremmo fermati quasi in religioso silenzio come la visita ad una chiesa campestre, davanti a quella capanna di pietre, dimora di Raffaella Pavone Lanzetti e Gennarino Carunchio, Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, nel film “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”. Se l’avessimo trovata quasi sommersa ci saremmo messi al lavoro, scavando con le mani alla ricerca di chissà quali tesori o misteri, come tombaroli del nulla.
Quel giorno mio fratello Gianni e i miei cugini Alberto e Francolino si attardarono sulle dune di sabbia bianca e finissima a fare prodigiosi salti e capriole, osservati attentamente da Joculana, il cane di nostro nonno. I suoi cani, le femmine, ereditavano sempre lo stesso nome, Joculana appunto, che in sardo significa giocherellona e credo ne abbia avute almeno dieci; questa della storia era solo a metà dinastia.
Come sempre capitava che un elicottero in ricognizione sorvolasse la costa e così accadde anche quel giorno. I tre bambini smisero di saltare e con il naso all’insù proteggendosi con le mani gli occhi dal sole, individuarono il grosso calabrone dei carabinieri.
Volava molto alto e decisero di salutare i militari, prima alzando e muovendo le braccia, poi con una certa dose di spavalderia, con manicotti e dita medie alzate, strilli e risate, sicuri che la loro condizione sulla terra ferma li avrebbe agevolati, scortati peraltro da un ottimo cane da pasta. C’è da dire che noi abbiamo sempre avuto paura dei carabinieri, tanto che quando ci capitava di scorgere il loro pulmino Fiat 850 ci buttavamo a terra in mezzo all’erba per non essere visti, perché eravamo convinti che girare sporchi per la borgata fosse reato, e noi salendo sui pini resinosi e giocando con la terra, sporchi lo eravamo sempre. In base a questa ipotesi noi saremmo ancora dentro, probabilmente con nessuna speranza di uscire per i prossimi trent’anni. E, sempre alla luce di questo stupido convincimento, cos’era un manicotto se non un atto di rivalsa?
L’elicottero volava verso sud, in direzione del faro per poi percorrere tutta la costa, e noi immaginavamo chissà verso quali luoghi lontani ed affascinanti, ma all’improvviso virò per poi scendere di quota e tornare indietro. “Che sta facendo?” chiese Alberto “Non lo so…” rispose mio fratello mentre osservava quel grosso calabrone avvicinarsi “Scappiamo!! Nascondiamoci sotto i ginepri. Quelli stanno cercando noi…Mortos semos!” Furono assaliti dal panico, il sangue che scorreva allegro e spensierato nelle loro giovani vene si gelò all’improvviso, i loro cuori iniziarono a battere come tamburi i cui colpi rimbombavano nelle orecchie, coprendo addirittura il rombo dell’elicottero e iniziarono a strillare correndo più veloci che poterono attraverso le dune a nascondersi seguiti da Joculana, che iniziò a guaire confusa e appiattita come una sogliola cercava di infilarsi sotto la sabbia. Nessun ginepro era abbastanza folto da occultarli alla vista dei militari dall’alto e quindi correvano impazziti come agnellini che scappavano dagli artigli dell’aquila.
L’elicottero era sempre più vicino e sollevava tanta di quella sabbia che i bambini non vedevano più nulla: erano terrorizzati, sapevano che quel giorno sarebbero morti, era certo, o per mano dei genitori se avessero scoperto la loro ennesima ed avvilente azione o, ed ormai era chiaro ed imminente, per mano dei carabinieri che ormai stavano a pochi metri dalle loro teste e che prima li avrebbero prelevati e poi torturati, proprio come avevano visto fare in quel film.
WUMM WUMM WUMM WUMM WUMM WUMM WUMM WUMM WUMM WUMM WUMM Le eliche producevano un rumore assordante, ormai sincronizzato con il loro terrore, la sabbia volava dappertutto diventando una vetrosa nube, loro non vedevano più niente e non capivano più dove dirigersi. In quel frangente Gianni e Francolino persero di vista Alberto e Joculana, mentre un militare, quello a fianco del pilota faceva loro cenno di andare verso la salina dove il terreno piatto avrebbe permesso all’elicottero di atterrare. Era fatta. La morte era vicina e tutto per uno stupido manicotto, va bhè erano due, anzi tre. Sì, erano di più, erano tanti ma morire a sei, sette anni per questo forse era troppo!
Gianni e Francolino si arresero e si diressero verso la zona indicata, come i condannati che vengono portati sul patibolo. “Albè, essi!” chiamarono i due. Alberto uscì da sotto un fitto ginepro accompagnato da Joculana che incomprensibilmente scodinzolava, vista la situazione seria e terrificante e tutti insieme si avvicinarono alla salina dove era appena atterrato l’elicottero: il pilota rimase all’interno mentre l’altro militare scese deciso e si incamminò verso i tre ragazzini che se la facevano sotto dalla paura, ed un cane inutile che aveva già evacuato più volte.
Era un tipo enorme, vestito con una tuta verde, un casco, occhiali neri, pistola nella fondina ed un grosso pugnale assicurato alla gamba ed era incazzatissimo, mamma mia quanto era incazzato! Mise in fila i tre spavaldi e iniziò ad inveire contro di loro, strillava per insegnare a suo modo l’educazione e mentre mio fratello si girò per accertarsi che nessuno dei familiari arrivasse incuriosito dall’atterraggio, il militare mollandogli uno schiaffo che gli lasciò il segno per tutta la giornata, gli urlò “Guardami in faccia quando parlo!” Dopo una decina di minuti di una strillata ramanzina che non so quanto sia stata ascoltata, i militari ripresero il volo lasciando i tre bambini attoniti, vivi, liberi e con le braccia rigide lungo i corpi, a scanso di equivoci. Nessuno, né vicini di podere né familiari si accorsero del fatto o comunque non si incuriosirono dei movimenti dell’elicottero per cui ancora tremanti giurarono di tenere segreta la disavventura. E così avvenne, la storia venne fuori dopo molto tempo, quando furono loro stessi a raccontarla, e in quegli anni neanche Joculana li tradì, che nel frattempo era stata sostituita da un’altra. Oggi che i protagonisti sono persone adulte ricordano l’evento con un sorriso colpevole, quella Pasquetta indimenticabile, da panico, e “Albè, essi!” è diventato il modo di rivolgerci ad Alberto ma oggi che sono anche padri di famiglia pensano che forse la loro azione non meritava tutta questa attenzione con annesso atterraggio e decollo.
Qualche tempo fa un loro amico li accusava che questa vicenda fosse una balla colossale, raccontata per pregiarsi di una innata audacia e così, nonostante qualcuno lo esortasse a tener ferme le braccia, con un “Ora vi faccio vedere” indirizzò un manicotto verso l’ elicottero dei carabinieri in volo per il quotidiano giro di ricognizione sulle spiagge affollate ad agosto. L’elicottero che già volava basso non ebbe difficoltà ad atterrare su un vicino spiazzo e mentre il loro amico cercava riparo sotto l’acqua, i militari scesero e davanti a tutti lo additarono: “Ehi, tu con i pantaloncini rossi, vieni che ti dobbiamo parlare!” Naturalmente il loro amico diventò del colore del suo costume e profondendosi in mille scuse e “Stavo scherzando” ebbe la sua bella e pubblica ramanzina, mentre mio fratello ed i miei cugini riacquistarono la loro credibilità.
Io, dal canto mio, per non sbagliare e non me ne vogliano i militari, quando vedo l’elicottero dei carabinieri guardo altrove e a voi, cari lettori, vi esorto a credere a questa storia e a non mettervi alla prova.
Millina Spina, 3 Marzo 2016
Voto: | su 5 votanti |
E' vero, Capo Comino ha una bellezza disarmante, è la natura che si regala suscitando emozioni addirittura commoventi. Si capisce perché molti miei racconti nascano dalla vissuta in quel favoloso dipinto, fatto di colori, di amore e tanta libertà.
Grazie e buona giornata!
Dal racconto ho tagliato una frase che diceva "Ed ora che sono contribuenti non capiscono il motivo di questo sperpero di denaro pubblico".
Ti assicuro che quei ragazzini ed il loro amico se la son fatta sotto, esattamente come Joculana!
Grazie per il commento e per le stelle!
Ciao
Son felice dei vostri commenti e per essere riuscita a portarvi in questi luoghi e farvi respirare quest'aria e questi profumi.
Nonostante il rumore delle eliche!
Grazie!!!
Molto bella anche la tua foto.
Ciao e buon pomeriggio
Nadia
Nonostante la lunghezza del racconto son felice che gli abbiate dedicato del tempo e che vi sia risultato scorrevole e simpatico.
Ebbene sì, il racconto è autobiografico come tutto ciò che scrivo, e la foto rappresenta il teatro della vicenda: dune, ginepri e tutta la costa che arriva fino al faro.
Grazie!
*****
5* per la descrizione dei luoghi e
5*per la simpatia
O:- )