Era una sera buia e senza luna ed un cielo oscuro era costellato di punti luminosi. La gente andava e veniva per le strade della città, a gruppi schiamazzanti che si salutavano, s’incontravano e passavano oltre. Io ero uscito da solo e fuori dalla porta di casa l’ombra mi aveva accolto come una tiepida coperta. Avevo raggiunto una piazza in pochi minuti, fumando una sigaretta per ingannare il tempo. Ero arrivato ed avevo incontrato un mio amico, Giovanni, era stato lui ad invitarmi ad uscire.
Non potevo fare a meno di percepire un turbamento in quella piazza. Mi sembrava che tutti volessero essere amici, volessero essere felici, conoscersi. Fioccavano sorrisi, pure mi pareva che ogni volto fosse irrequieto, in fondo. Sarebbero tornati a casa ed avrebbero aperto il frigo, si sarebbero spogliati tutti, si sarebbero messi tutti a letto.
Ad un tratto Giovanni fu strattonato per una manica e vedemmo Lavinia che ci salutava, una sua vecchia ragazza. Non la conoscevo e mi presentai: “Cosimo”. “Lavinia”, rispose e arrossì leggermente. Ci mettemmo a parlare e continuammo finchè i nostri cervelli furono lontani e la bocca si muoveva automaticamente, e i gesti, i sorrisi e gli sguardi riproducevano una consuetudine assimilata da tempo. Ma non c’era niente di male in questo, ed anzi, io ero felice di essere lì, della nuova conoscenza che stavo facendo. L’ascoltavo parlare volentieri e rispondevo alle sue parole con la massima cortesia che mi fosse possibile. Eravamo circondati da gente che parlava. I lampioni irroravano il loro chiarore circolare e dietro la cortina di luce che ci avvolgeva, si scorgeva la notte. Ci tenevano fuori dall’ombra, ma appena oltre c’era il buio, un buio in cui non si scorgevano che forme indistinte.
Mentre Lavinia parlava mi sentivo bene. Era bello vedere quei suoi occhi scuri posarsi su di me e sentire la sua voce candida, senza asprità. E via via che parlava e si muoveva, che sorrideva e s’imbronciava, io vedevo che anche lei era contenta d’essere tra due ragazzi che la guardavano, la stavano a sentire, ridevano con lei. E mentre parlava concitata magari ci toccava, ci sfiorava con una mano. Questo forse è troppo, pensai. Pensai al pleistocene, al fatto che la bellezza è un fatto culturale, a cosa avrebbe fatto il mio io primordiale di fronte alla sua bellezza. Sentivo che dietro quei gesti avanzava qualcosa di temibile, di temuto, qualcosa che non era proprio di quella luce da cui eravamo avvolti, ma che forse apparteneva al “là fuori”, al buio immenso che circondava quei piccoli spazi illuminati. Pensai a quando anche lei, di lì a poco, sarebbe tornata a casa. Avrebbe aperto la porta con le chiavi tirate fuori dalla sua borsetta, si sarebbe trovata nel buio delle sue camere. Si sarebbe spogliata, in silenzio; infilandosi nel letto, spengendo la luce. E adesso, invece, era lì di fronte a me, avvolta dalla luce, circondata di gente. Ci raccontava della sua vita, dei suoi pensieri. I suoi occhi si spostavano tra me e Giovanni ed a volte, per il tempo di un istante, si fermavano a galleggiare nel vuoto.
Ad un certo punto, mentre parlava ed il suo sguardo incontrava il mio, v’indugiò un momento. E mi sembrò come di guardare in un pozzo, giù e giù nelle profondità remote della sua coscienza, come in un mare nerastro in cui mi fossi tuffato e potessi scorgere, lontana, una piccola scintilla indistinta. Mi parve di vedere la sua sofferenza, la sua incerta sofferenza, riposta, segregata e quasi dimenticata. Mi parve d’esser passato attraverso mille barriere di cartone, di segni ingannevoli, come d’aver intravisto per un attimo da una sottilissima breccia, in fondo, oltre la sua paura.
Non potei che provare un’amarezza dentro di me. Adesso potevo vedere in ciascuno quel nucleo di sofferenza, nascosto e sotterrato dalle loro coscienze. Ed io ero come loro, eravamo tutti così, bugiardi in quella luce bugiarda, con occhi di vetro e bocche di corallo.
Dopo poco ci salutò e raggiunse il suo nuovo ragazzo, i suoi amici. Tornammo da Domenico, che ci attendeva tranquillo, seduto su una panchina. Trascorremmo un altro po’ di tempo assieme, ma non si accennò neppure a Lavinia. Tornai nel dubbio, non riuscendo più a sentire la certezza che fino a poco prima mi aveva riempito. Scherzammo ancora un po’, infine Giovanni ci disse che era ora per lui di andare a casa e lo salutammo. Si allontanò in sella alla sua bicicletta ed io lo fissai finchè non fu un puntino lontano nell’oscurità.
Non potevo fare a meno di percepire un turbamento in quella piazza. Mi sembrava che tutti volessero essere amici, volessero essere felici, conoscersi. Fioccavano sorrisi, pure mi pareva che ogni volto fosse irrequieto, in fondo. Sarebbero tornati a casa ed avrebbero aperto il frigo, si sarebbero spogliati tutti, si sarebbero messi tutti a letto.
Ad un tratto Giovanni fu strattonato per una manica e vedemmo Lavinia che ci salutava, una sua vecchia ragazza. Non la conoscevo e mi presentai: “Cosimo”. “Lavinia”, rispose e arrossì leggermente. Ci mettemmo a parlare e continuammo finchè i nostri cervelli furono lontani e la bocca si muoveva automaticamente, e i gesti, i sorrisi e gli sguardi riproducevano una consuetudine assimilata da tempo. Ma non c’era niente di male in questo, ed anzi, io ero felice di essere lì, della nuova conoscenza che stavo facendo. L’ascoltavo parlare volentieri e rispondevo alle sue parole con la massima cortesia che mi fosse possibile. Eravamo circondati da gente che parlava. I lampioni irroravano il loro chiarore circolare e dietro la cortina di luce che ci avvolgeva, si scorgeva la notte. Ci tenevano fuori dall’ombra, ma appena oltre c’era il buio, un buio in cui non si scorgevano che forme indistinte.
Mentre Lavinia parlava mi sentivo bene. Era bello vedere quei suoi occhi scuri posarsi su di me e sentire la sua voce candida, senza asprità. E via via che parlava e si muoveva, che sorrideva e s’imbronciava, io vedevo che anche lei era contenta d’essere tra due ragazzi che la guardavano, la stavano a sentire, ridevano con lei. E mentre parlava concitata magari ci toccava, ci sfiorava con una mano. Questo forse è troppo, pensai. Pensai al pleistocene, al fatto che la bellezza è un fatto culturale, a cosa avrebbe fatto il mio io primordiale di fronte alla sua bellezza. Sentivo che dietro quei gesti avanzava qualcosa di temibile, di temuto, qualcosa che non era proprio di quella luce da cui eravamo avvolti, ma che forse apparteneva al “là fuori”, al buio immenso che circondava quei piccoli spazi illuminati. Pensai a quando anche lei, di lì a poco, sarebbe tornata a casa. Avrebbe aperto la porta con le chiavi tirate fuori dalla sua borsetta, si sarebbe trovata nel buio delle sue camere. Si sarebbe spogliata, in silenzio; infilandosi nel letto, spengendo la luce. E adesso, invece, era lì di fronte a me, avvolta dalla luce, circondata di gente. Ci raccontava della sua vita, dei suoi pensieri. I suoi occhi si spostavano tra me e Giovanni ed a volte, per il tempo di un istante, si fermavano a galleggiare nel vuoto.
Ad un certo punto, mentre parlava ed il suo sguardo incontrava il mio, v’indugiò un momento. E mi sembrò come di guardare in un pozzo, giù e giù nelle profondità remote della sua coscienza, come in un mare nerastro in cui mi fossi tuffato e potessi scorgere, lontana, una piccola scintilla indistinta. Mi parve di vedere la sua sofferenza, la sua incerta sofferenza, riposta, segregata e quasi dimenticata. Mi parve d’esser passato attraverso mille barriere di cartone, di segni ingannevoli, come d’aver intravisto per un attimo da una sottilissima breccia, in fondo, oltre la sua paura.
Non potei che provare un’amarezza dentro di me. Adesso potevo vedere in ciascuno quel nucleo di sofferenza, nascosto e sotterrato dalle loro coscienze. Ed io ero come loro, eravamo tutti così, bugiardi in quella luce bugiarda, con occhi di vetro e bocche di corallo.
Dopo poco ci salutò e raggiunse il suo nuovo ragazzo, i suoi amici. Tornammo da Domenico, che ci attendeva tranquillo, seduto su una panchina. Trascorremmo un altro po’ di tempo assieme, ma non si accennò neppure a Lavinia. Tornai nel dubbio, non riuscendo più a sentire la certezza che fino a poco prima mi aveva riempito. Scherzammo ancora un po’, infine Giovanni ci disse che era ora per lui di andare a casa e lo salutammo. Si allontanò in sella alla sua bicicletta ed io lo fissai finchè non fu un puntino lontano nell’oscurità.
Racconto scritto il 12/03/2016 - 11:15
Da Piero Geddes
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Commenti
http://ilcrepaccio.blogspot.it/2016/03/lavinia.html
Piero Geddes 17/03/2016 - 10:14
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Grazie Salvo,
gradisco i tuoi complimenti!
Ciao
gradisco i tuoi complimenti!
Ciao
Piero Geddes 13/03/2016 - 12:25
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Un racconto breve nel quale l'autore traccia con abilità narrativa il senso di vacuità di una serata di solitudine pur tra tanta gente. E' la voglia di capire, indagare, confrontarsi tra la gente che sembra aver perduto la propria vera indentità, alla luce dei lampioni ma avvolti nel profondo buio della notte dove nasce il disagio.
salvo bonafè 12/03/2016 - 19:54
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