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La diversa percezione del tempo (parte 1 di 2)

La diversa percezione del tempo


Giorni, mesi, anni… no, non è affatto vero che il tempo scorre sempre uguale; provate a fare mente locale: i ricordi del malo tempo son molto più numerosi e persistenti di quelli, sempre e comunque troppo brevi, del felice tempo.
Della mia lunga vita che attende d’esser brandita dalla fine del mio tempo, ho ricordi di anni infelici, lunghi come lustri; appena mitigati da un unico scampolo di anno felice, breve e fragile come lo può essere l’attimo d’un afflato d’amore nel mezzo di una tragedia che sconvolse il mondo.


Nascere in un paesello incastonato dentro una solitaria e stretta valle, da cui anelavo scappare, fu una fortuna durante quel tempo infame: le squadriglie che andavano a bombardare le città passavano alte sopra i tetti, sfiorando le cime dei monti, senza degnarsi di sprecare una sola bomba su un obbiettivo di nessun interesse strategico.
Questo, unito al fatto che il borgo fosse raggiungibile solo da uno stretto e scosceso valico, pomposamente battezzato: Passo Paradiso, che s’inerpicava come una serpe lungo il fianco del monte prima di gettarsi a capofitto dentro la valle (valico, sentiero, o passo che dir si voglia, impraticabile da fine autunno sino a primavera inoltrata, per le frane provocate dalle piogge torrenziali e le valanghe dovute alle copiose nevicate) contribuì a fare della mia aspra terra un piccolo eden piazzato nel mezzo di un’immane tragedia epocale.


8 settembre 1943


“Clara! La guerra è finita! Papà tornerà finalmente a casa!”, urlava piangendo di gioia mia madre stringendomi al petto.
Non era vero, la guerra sarebbe continuata e mio padre non sarebbe mai più tornato, era caduto sul fronte russo; ma questo, né mia madre, né tantomeno io, quel giorno lo potevamo sapere.


Era stato il parroco a captare, dalla ricetrasmittente strategicamente posizionata sul campanile, la bella notizia e, dopo aver fatto suonare le campane a distesa, rendere partecipi i componenti della piccola comunità montana riunita dentro la chiesetta dell’avvenuto armistizio; dimenticandosi, forse volutamente per non spegnere precocemente la contagiosa euforia, di riportarci il finale del messaggio captato, cioè: che stavamo solo cambiando socio, e che la guerra sarebbe dunque continuata in un modo forse più giusto, ma sicuramente molto peggiore; obbligando, di fatto, italiani a combattere non solo contro i nostri ex alleati, ma anche ad ammazzare, o farsi ammazzare, dai nostri compatrioti che scelsero di restare a giocare la partita sino in fondo, seduti dalla parte sbagliata del tavolo.


In ogni povera casa del minuscolo borgo quel giorno s’appalesò la speranza, perché in ogni casa c’era un figlio, un marito o un padre assente giustificato.
L’umanità dolente rimasta a pregare e sperare era così composta: un parroco dall’apparente età del dattero, dieci tra nonne madri e spose, due infanti; sette, tra i quali mio nonno paterno, troppo vecchi per esser arruolati come carne da cannone altri quattro non ancora maturi per esserlo; e infine io: Clara Rampelli di anni sedici, sognatrice incallita nonostante tutto… oltre a nove capre, dieci pecore, dodici galline, tre galli e due muli.


Dopo una settimana di trepidante attesa, non avendo visto un sol uomo scendere dal sentiero, gli anziani compresero che la pace era ben lungi dall’approssimarsi; sensazione confermata durante l’omelia da don Oliviero, che ci relazionò sugli ultimi sviluppi da lui ascoltati poco prima alla radio.


15 Ottobre 1943


Le precoci e copiose piogge autunnali sconsigliarono anche ai più ardimentosi d’inerpicarsi lungo il passo, valicare il monte e scendere nella cittadina affacciata sul lago, per accaparrarsi le ultime provviste in previsione del lungo isolamento invernale: “Quest’ inverno sarà più lungo e duro del solito, il brutto tempo non c’ha permesso di completare le scorte; ci sarà da tirar ancor di più la cinghia.”, disse mio nonno osservando, sconfortato, le nuvole basse che occultavano le abetaie.
“Clara!”, esclamò virando lo sguardo sul castagneto sferzato da vento e pioggia.
“Sì nonno!”, feci io correndo da lui.
Passandomi un braccio dietro le spalle indicò i castagni: “Se domani spiove, vado a raccogliere le castagne e a far della legna; se prometti di non farmi dannare, ti porto con me.”, disse usando il tipico tono, burbero ma bonario del patriarca che pretende l’obbedienza e il rispetto dovuto a chi, grazie all’esperienza accumulata nel tempo, sa come e dove posare il passo su sentieri occultati da foglie fradicie.
“Lo prometto, farò quello che mi dirai.”, risposi, prima di andarmi a sedere, felice, accanto al camino.


16 Ottobre 1943


“Prima di mezzogiorno non pioverà!”, mi rassicurò mio nonno osservando il sole giocare a nascondino con nuvole nere al galoppo.
“Allora, sei pronta?”, mi chiese afferrando con una mano le briglie del mulo, bardato con il basto per trasportare la legna e le ceste per caricare le castagne.
“Andiamo.”, risposi timorosa, aggrappandomi alla mano callosa che mi porse per infondermi un po’ di coraggio.
Alle nove di mattina, illuminati da un sole intermittente; io, mio nonno e il mulo c’incamminammo lungo il sentiero del castagneto.


“Olà Rambaldo, anche tu per castagne stamattina, eh!”, esclamò il cinquantenne, claudicante, Samuele, mentre con il bastone smuoveva le foglie morte cadute sopra i frutti.
“Castagne e legna, approfitto della tregua.”, rispose mio nonno, caricando sopra il basto dei grossi rami caduti a terra per il forte vento della notte.
“Eh, se avessi un mulo lo farei pure io… ma, purtroppo, mi devo accontentare di riempire questo.”, replicò l’altro con una punta d’invidia, indicando lo zaino che portava sulle spalle.
“Se ti va, la legna la raccogliamo assieme, la carichiamo sul basto; poi, quando torniamo in paese, la si divide in parti uguali.”, disse allora il mio generoso nonno.
“Ti ringrazio immensamente, avrei voluto chiedertelo, ma non trovavo il coraggio di farlo… sei un amico Rambaldo.”, rispose Samuele, sinceramente commosso.
“Se non ci si aiuta tra noi…”, fece mio nonno smuovendo le foglie con il piede, senza concludere la frase.
In poco meno di mezz’ora, lavorando alacremente in due, riuscirono a riempire il basto di rami di castagno raccolti da terra; allora mio nonno, dopo aver staccato le ceste, disse a Samuele di andare a scaricare il mulo in paese, mentre noi, nell’attesa che tornasse per un secondo carico, avremmo iniziato a raccogliere le castagne.


“Nonno! Nonno!”, urlai spaventata trattenendo la voce, indicando un cumulo di foglie che pareva respirare.
“Non avere paura, è il vento che le smuove.”, disse con tono rassicurante; poi, vedendomi riparare dietro di lui, prese il bastone: “Toh! Guarda.”, aggiunse sorridendo.
Il sorriso gli si spense subitamente sulle labbra, quando da sotto le foglie vide comparire il lembo di un pastrano militare: “Stai indietro Clara!”, m’intimò allontanandomi da se.
“Un tedesco! Che ci fa quassù?”, si chiese dopo averlo scoperto del tutto, riconoscendo la divisa della Wermacht.
“E’… morto?”, gli chiesi tremando come una foglia.
Mio nonno si avvicinò al volto emaciato del militare: “No, respira, a fatica, ma respira.”, rispose.
“E’ congelato, non possiamo lasciarlo morire così.”, aggiunse toccandogli le guance; si alzò e, guardando lungo il sentiero vide Samuele risalirlo con il mulo: “Vieni qui con il mulo! Presto, fai presto!”, gli urlò rafforzando il concetto agitando le mani.
Samuele allungò il passo, impiegò tre, forse quattro minuti, per giungere sino a noi trascinando il mulo: “E’ un tedesco!”, esclamò ansimando, osservandolo allibito: “Come c’è arrivato fin qui?”.
“Non lo so, deve essersi perso in mezzo ai boschi, si è coperto con le foglie per combattere il gelo della notte, ma non gli è servito a molto. Se non trova un letto caldo al più presto, questo tira le cuoia… carichiamolo sul mulo, lo portiamo in paese.”, rispose mio nonno.
“Mah! E’ un soldato nemico!”, sbottò Samuele ritraendosi.
“Io non vedo nessun soldato, né amico, né nemico, ma solo un ragazzo di vent’anni che sta morendo… dammi una mano, sbrigati!”, gl’intimò usando un tono che non ammetteva repliche mio nonno.
Dopo averlo assicurato sopra il basto, scendemmo lentamente il sentiero: “E ora, chi si prenderà la responsabilità di tenerselo dentro casa?”, gli chiese perplesso Samuele quando fummo in paese.
“Il prete, e chi se no?”, rispose mio nonno.
Don Oliviero, da buon cristiano, nonché: servo del Signore, non deluse le aspettative di mio nonno e lo accolse in canonica senza batter ciglio.


**************************


Rudolf Higher, così si chiamava il soldato che, approfittando del fatto che la sua compagnia fosse distaccata nei pressi del lago, una settimana prima aveva disertato cercando di raggiungere la vicina Svizzera attraverso i monti e ch’era finito col perdersi nei boschi; dove aveva vagato in un clima da tregenda per giorni senza riuscire a trovare l’uscita dal labirinto vegetale in cui si era cacciato.
Pioggia, vento e freddo, oltre ai pochi viveri che aveva portato con se, avevano reso la sua fuga un calvario insormontabile; così quell’ultima notte, fradicio di pioggia fin dentro le ossa, esausto e senza più forze per proseguire, battendo i denti per il gelo aveva pensato bene di coprirsi con delle foglie e di attendere lì l’ormai prossima fine; aveva spiegato don Oliviero davanti all’intera piccola comunità montana, riunita dentro la chiesa.
Aggiungendo che, il ragazzo capiva e parlava l’italiano avendo, prima dello scoppio del conflitto, frequentato la facoltà di architettura presso l’università degli studi di Firenze.


Fu a quel punto che Savino, un vecchio pastore, saltò su dicendo: “Sì, va beh! Sarà anche un giovane istruito… conoscerà pure l’italiano e non so quale altra lingua… ma è pur sempre un soldato tedesco!”.
Don Oliviero lo fulminò con uno sguardo, che potrei definire cattivo se non mi riferissi a un sant’uomo a tutto tondo: “E allora!? Se si fosse trattato di una pecora l’avresti accolta nel tuo ovile… un uomo vale dunque meno di un animale? Chiedo a tutti voi! Rudolf è un ragazzo di appena ventuno anni, che ha rischiato la vita… per disertare, penserete voi… no, per non dover più uccidere o essere ucciso… per sfuggire a una logica aberrante, all’inferno in terra scatenato… badate bene, non da Dio! Ma dalla stoltezza umana!”, disse usando il tono grave e profondo del buon predicatore.
“Amen!”, fece Savino abbassando il capo; poi, rialzandolo si rivolse alla comunità: “Il problema resta comunque in piedi: disertore o meno, che ne facciamo del tedesco?”.
“Sentiamo, che ne vorresti fare… ammazzarlo per caso?”, gli chiese a muso duro don Oliviero, avvicinandosi.
“No… io non so… lo sto chiedendo a tutti quanti.”, bofonchiò Savino, indicando la comunità ammutolita seduta sulle panche.
“Siedi!”, ordinò don Oliviero aggrottando le spesse sopracciglia grigie, indicando la panca con l’indice; al che Savino si accomodò senza proferire verbo: “Qualcuno di voi, ha qualche altra brillante idea?”, chiese allora con sarcasmo il parroco alzando il tono.
“Aspettiamo che si rimetta, poi indichiamogli un sentiero sicuro tra i monti…”, iniziò a dire Rosetta, prontamente ammutolita dallo sguardo pregno di disapprovazione di don Oliviero che, subito dopo, salì i tre gradini dell’altare in modo che tutti lo potessero vedere ed ascoltare: “Ricordatevi che ognuno di voi ha un figlio, un marito, un parente stretto che da qualche parte di questa martoriata Europa cerca di sopravvivere alla guerra… non vi viene da pensare che pure qualcuno di loro potrebbe aver gettato le armi e poi cercato e trovato rifugio in qualche villaggio, tedesco, francese o di qualche altra nazione?” chiese a tutti quanti.
Ammutoliti stretti uno all’altro tra le panche, ciascuno immaginò il proprio caro accudito da una famiglia tedesca, francese o di una qualsiasi altra nazione sconvolta dall’ordalia guerresca.
“Decidere serenamente, per noi è difficile… molto difficile.”, disse Angelina, vedova sessantenne con due figli al fronte o chissà dove, ma sicuramente non dove lei desiderasse fossero.
“Eppure è così semplice… basta seguire l’insegnamento di nostro Signore.”, replicò illuminandosi il parroco, indicando il crocefisso sopra l’altare.
“Ci vuole molta, troppa fede, fame e rabbia sono cattive consigliere che troppo spesso soffocano la pietas.”, ribatté Angelina commuovendosi; poi, virando con lo sguardo sugli altri, aggiunse: “Credo d’interpretare il pensiero di tutti, chiedendo al servo del signore di decidere per noi… Don Oliviero, ci affidiamo a lei, dica cosa sarebbe giusto fare… e le prometto che ognuno di noi farà il proprio: cristiano dovere.”.
Don Oliviero ascoltò annuendo il brusio d’approvazione, prima di assegnare compiti precisi ad ogni nucleo familiare: alla mia famiglia sarebbe spettato di cucinare e poi portare in canonica il pasto caldo del mezzodì; ad altre quello di servire la colazione oppure la cena, ad altre ancora di procurare la legna necessaria a scaldare la camera dove il ragazzo alloggiava, oppure di trovargli degli indumenti civili da indossare durante il soggiorno in paese che, per forza di cose, si sarebbe protratto, perlomeno sino all’avvento della primavera.


****************************


“Non posso muovermi, devo finire di cucinare, toh! Portala in canonica.”, mi ordinò mia madre consegnandomi il fagotto dentro il quale aveva sistemato la pentola con la polenta.
Naturalmente io accettai con entusiasmo: era trascorsa un’intera settimana da quando il soldato disertore aveva sconvolto le sempre troppo uguali giornate del borgo, finalmente potevo soddisfare la curiosità di vedere il ragazzo alto, biondo e gentile decantato da mia madre ogniqualvolta tornava dalla canonica.


Ammutolita dall’emozione, rischiai di far cadere il fagotto con la polenta quando Rudolf si appalesò sulla porta della canonica: bussando ero certa che ad aprirmi sarebbe venuto don Oliviero.
“Attenta!”, fece lui sorridendo, mettendo le mani sotto il fagotto: “Ciao, come ti chiami?”, aggiunse subito dopo mentre io, arrossendo, stringevo il fagotto al petto.
“Clara.”, risposi con un fil di voce.
“Io Rudolf, entra.”, disse allora scostandosi di lato.
Abbassai il capo ed entrai: “Ecco fatto.”, dissi posando il fagotto sul tavolo senza alzare lo sguardo.
“Ti va di farmi compagnia?”, mi chiese lui mentre disfaceva il fagotto.
Annuì senza parlare.
“Cosa c’è, ti faccio paura?”, mi chiese allora imbrunendosi.
Come poteva farmi paura quella specie di arcangelo biondo con gli occhi d’un azzurro indescrivibile, che amai sin dal primo sguardo?
Trovando sconveniente mostrare il mio pur nobile sentimento, mi limitai a rispondere con una domanda: “Don Oliviero non c’è?”.
“E’ in chiesa, dovrebbe tornare a momenti.”, rispose; poi, indicando la sedia difronte a lui aggiunse, con quel suo italiano contaminato che mi mandava in brodo di giuggiole: “Parliamo un po’, cinque minuti, siedi, ti prego.”.
Cercando di trattenere il sorriso, nel timore di mostrarmi arrendevole, mi sedetti tenendo comunque sempre lo sguardo basso.
Alzando appena gli occhi, notai che Rudolf mi fissava insistentemente aspettando che mi aprissi, - cosa dico adesso, - pensavo imbarazzatissima, senza trovare il coraggio d’emettere alcun suono.
Rudolf comprese e provò a mettermi a mio agio, dicendo: “Chiedimi pure tutto quello che vuoi.”.
Così, gli chiesi la prima cosa che mi sovvenne: “Com’è Firenze?”.
Rudolf sorrise: “Stupenda…”, rispose con trasporto socchiudendo gli occhi, sospirò e proseguì commuovendosi: “Sono stato a Parigi, Vienna, Praga, Varsavia… ma Firenze mi è rimasta nel cuore.”.
“Ne hai visto di mondo tu… io invece qui son nata e da qua non mi son mai mossa.”, dissi rammaricandomi della mia condizione.
“E’ stata la guerra a prendermi per mano e a portarmi a spasso per l’Europa. Le meraviglie che ho visto, son nulla; scompaiono difronte alla visioni di morte e macerie sopra le quali ho marciato… non invidiare il mio percorso, non ne vale proprio la pena… sono io invece che invidio il tuo tranquillo vivere tra questi monti, in questa solitaria valle dove la guerra è solo un rimbombo lontano, quasi impercettibile.”, ribatté struggendosi.
Avrei voluto dirgli che no, non era un rimbombo lontano, ma un dramma ben presente in ogni famiglia anche quassù, la guerra; ma l’arrivo di don Oliviero pose fine alla conversazione.
“Ciao Clara, quando vorrai parlare mi troverai qui. “, disse salutandomi Rudolf.
Non sapendo cosa rispondere, guardai don Oliviero che, appoggiandomi una mano sulla testa, mi rassicurò: “Vieni pure quando vuoi, siete giovani, ne avete di cose da condividere.”.
“La ringrazio don Oliviero!”, esclamai illuminandomi: “Ciao Rudolf, a domani.”, lo salutai allegra, prima di correre ridendo da sola come una pazza verso casa.


CONTINUA




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Racconto scritto il 15/06/2016 - 16:59
Da vecchio scarpone
Letta n.1139 volte.
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Commenti


Ti ringrazio, avrei voluto postarlo intero ma essendo un po' lunghetto il sistema me lo rifiutava, oggi posterò la seconda e ultima parte.
Ciao Rosa

vecchio scarpone 16/06/2016 - 08:53

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Letta molto volentieri e apprezzata questa prima parte.In attesa della seconda ti faccio i miei complimenti .Buona serata

Rosa Chiarini 15/06/2016 - 23:07

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