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Undici Chilometri 4.

La preparazione del pane era uno spettacolo che andava in scena due o tre volte la settimana, al quale assistevamo con mio fratello come se si trattasse di un film. Solitamente quando arrivavamo – eravamo alloggiati in una casa di proprietà della stessa famiglia, poco distante dal centro della frazione – il forno era già in funzione, alimentato con le fascine di legno di castagno stoccate in prossimità, ed Enrico era in procinto di iniziare la fattura del pane, servendosi di una conca di legno nella quale mischiare farina, acqua e lievito. Da lì in poi era un lavoro di braccia per girare e rigirare la farina facendola divenire un tutt’uno con gli altri elementi, formando una massa omogenea che si adagiava sul fondo della conca.
La prima fase della preparazione finiva con la formazione delle picce di pane da un chilo, pesate sulla bilancia a basculla, messe sulla pala di legno e infornate dopo aver liberato il forno ormai caldo dai resti delle fascine, chiuso infine con il suo coperchio di ghisa.
A volte si aggiungevano nell’ultima infornata cose che potevano essere cotte in forno: coniglio, pollo, patate nelle rispettive teglie che approfittavano anche loro dell’ultimo calore del forno!
Ma il gran finale era l’uscita del pane caldissimo e fumante dal forno che, dopo esser stato pulito sommariamente con uno straccio dai resti della cenere, era messo su apposite tavole di legno e portato nella locanda e tenuto lì a raffreddare dispensando tutto intorno il suo intenso profumo.
A volte, su nostra richiesta o per magnanimità di Enrico, erano fatti anche dei panini che qualche volta facevamo noi stessi e che consumavamo ancora caldi; la produzione era bastante per la piccola comunità per tre giorni, ma d’estate e la domenica con qualche presenza in più potevano essere fatte anche due sfornate nei giorni successivi.


I muli erano un’altra attrattiva del posto: robusti e alti come cavalli, ma dalle orecchie lunghe, venivano dal fondovalle con i loro carichi e facevano sosta davanti alla locanda, lasciati legati in fila come in un film western. Ricordo di avere anche una foto a cavallo di uno di essi; conficcati nel muro c’erano anche degli anelli per agevolare l’aggancio della corda che li teneva, e la pila della piazza fungeva da abbeveratoio in attesa che i loro conducenti, dopo essersi rifocillati, li riprendessero per continuare il viaggio e portare le merci di là dall’Appennino.
Dopo tanti anni i gloriosi muli non ci sono più; una strada ormai larga e asfaltata oggi ha preso il posto della mulattiera, ma anche allora i muli si fecero sempre più rari e poi sparirono, come molte cose scomparse e sostituite da altre che hanno preso il loro posto.



Le serate erano al lume di candela e della fioca luce che usciva timidissima dalle lampadine; le cose che si potevano fare erano poche e la locanda le permetteva tutte, come le interminabili partite a carte sui tavoli di legno coperti da una tovaglia plastificata a quadretti bianchi e rossi, consumata in prossimità dell’appoggio dei gomiti dei giocatori seduti spesso all’interno dei lati lunghi del tavolo rettangolare per lasciare i posti liberi nella parte stretta per il pubblico. Fra quel pubblico eravamo anche io e mio fratello, colpiti, più che dal gioco delle carte, dall’osservare lo spettacolo di parole e gesti dei protagonisti, e le parole erano spesso delle bestemmie, tranne quando giocava il prete, e bestemmie assai fantasiose:
“io lai”
“io beschia”
“io campanile”
Talvolta le bestemmie diventavano dei mezzi racconti come:
“io rincorso da un lupo”
“io serpente”
“io schiacciato da un camion!”
Era questo un intercalare continuo, unito alle critiche al gioco del compagno o a quello degli avversari, cui seguiva immancabile la ricostruzione postuma della partita:
“Se tiravi il due poi lui avrebbe tirato il quattro così io….”
Tutti esperti!

La tombola era un altro dei divertimenti quando c’era abbastanza gente e ci si accordava prima della cena per essere in tanti, il più possibile.
“Allora stasera si gioca, mi raccomando venite!”.
Si sistemava per il gioco preparando un tavolo unico nella parte dell’entrata della locanda; in quel caso erano essenziali le candele perché quando andava via anche la miserrima luce era necessario concludere la partita. La vecchia matrona Eva, madre di Giovanni ed Enrico, era l’organizzatrice delle tombole e quando si facevano non c’erano storie: la stanza di ingresso era per la tombola; quelli che volevano giocare a carte dovevano andare in cucina, nella stanza del caminetto o nella adiacente stanza del bar. Per chi non giocava rimanevano comunque le chiacchiere all’aperto.


Quella delle discussioni politiche era un’altra maniera per passare le serate. Le più spettacolari erano annunciate dalla presenza del “Notarone”, un notaio di Barga, parente acquisito della famiglia; il Notarone era un liberale che affrontava le discussioni con i comunisti di montagna tra i quali mio padre, i socialisti di passaggio e il prete: il Peppe poi dava il suo contributo, non di grande spessore, ma condiva la discussione con le sue infinite bestemmie che facevano arrabbiare il prete: quando c’erano tutti lo spettacolo era assicurato.
Nelle sere d’estate, quando era possibile, la piazza o terrazza era il luogo ideale per le discussioni che “sapevan di vino e di scienza”: stavamo sdraiati sulle sdraio nel buio rischiarato solo dalla luna, seduti sulle sedie o sulla panca che cingeva lo spiazzo; le discussioni, alla fine di agosto per l’inizio dell’autunno di montagna, si spostavano attorno al camino; si poteva partire dall’universale (il comunismo, la socialdemocrazia, il cristianesimo, i valdesi) giù fino al particolare o viceversa.
“Perché il comune di Barga non ci fa arrivare la corrente?”
“Perché la comunità montana non si muove per questa cosa.”
“Ma, come comunisti, cosa pensate di..”
“Certo che la chiesa... ”
Sempre riprendendo poi i soliti temi.
Accanto al camino si ascoltavano anche i racconti della montagna narranti d’incontri con qualche animale o situazioni pericolose, concluse nel migliore dei modi, con la matrona seduta sulla sua poltrona e Giovanni, il figlio più grande, nella poltrona di fronte, di fianco al camino che provvedeva a ravvivare. Il resto dei famigliari, e affiliati come noi, seduti sulle sedie e sugli sgabelli intorno al fuoco.
Erano tre stanze dove si viveva la vita del paese: Bar, stanza d’ingresso, e la cucina con il camino.




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Racconto scritto il 25/07/2016 - 07:41
Da Glauco Ballantini
Letta n.1158 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Questo parte della storia penso mi sia piaciutà di più, per le sensazioni familiari davvero belle e coinvolgenti. C'è un senso d'umanità perduta... toccante.

Francesco Gentile 26/07/2016 - 12:32

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Vero...ora mi sovvien...tra l'altro Guccini è tra i miei 3 o 4 preferiti...pensa un po'...

Spartaco Messina 25/07/2016 - 13:31

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Grazie Spartaco, ma l'espressione tra virgolette è la citazione di un testo gucciniano, Il Frate:
"e quelle sere d'estate, sapevan di vino e di scienza, per me che lo stavo ad ascoltare, con colta benevolenza..."

Glauco Ballantini 25/07/2016 - 13:21

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La tovaglia plastificata a quadretti bianco e rossi...un classico. la cucina col fuoco, le partite a carte...e le discussioni che san " di vino e di scienz " bella questa espressione.

Spartaco Messina 25/07/2016 - 13:02

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Grazie Loris, manca solo una puntata al termine del racconto

Glauco Ballantini 25/07/2016 - 11:11

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Ho cominciato dall'ultimo ma provvederò...
Bellissime immagini di vita.
Nei paesini di campagna(come il mio)
un po'si rivivono le scene del racconto.
Buona giornata Glauco.

Loris Marcato 25/07/2016 - 09:29

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Ho cominciato dall'ultimo ma provvederò...
Bellissime immagini di vita.
Nei paesini di campagna(come il mio)
un po'si rivivono le scene del racconto.
Buona giornata Glauco.

Loris Marcato 25/07/2016 - 09:29

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Grazie Gabriela, nell'autobiografico sicuramente non si sbaglia trama, nè la psicologia dei personaggi. Come disse Pasolini, criticando alcune scene del film "La caduta degli dei" di Visconti, "Tutto si può inventare tranne la psicologia..."

Glauco Ballantini 25/07/2016 - 09:15

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Caro Glauco anche questo è un racconto bellissimo, molto gradito; l'esposizione è quella di sempre perfetta e i contenuti interessanti. Amo molto i racconti autobiografici, forse perchè amo le storie degli uomini, storie uniche che valgono tutta una vita. ti abbraccio amico mio 5+

Gabriella De Gennaro 25/07/2016 - 09:10

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