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Undici Chilometri 5.

Il ballo ha fatto la sua comparsa dopo l’arrivo della luce o forse poco prima, grazie ad un generatore di corrente a motore diesel che integrava la scarsa energia proveniente dalla rete elettrica; andavano di moda le mazurche, i fox-trot, i valzer e non poteva mancare il “casachok”, il ballo della steppa nella versione di Dori Ghezzi che una sera vide uniti nel ballo il Peppe ed il Notarone, finiti per terra cercando di ballarlo insieme in un cerchio che si era fatto intorno a loro. Era un’occasione di grande divertimento per tutti, assicurato da un juke-box vecchissimo fornito col repertorio di una quarantina di 45 giri azionato da Vinicio, figlio di Giovanni; non c’era neanche la possibilità di fare le combinazioni di lettere e numeri come negli apparecchi più moderni, ma solo un pulsante per ogni disco.


La “Tonda” era, quando si veniva per Pasqua, obbligatoria: un giro delle bellezze del posto e una visita, solo fuori, alle case che durante quei quattordici anni avevamo abitato, in pratica tutte quelle disponibili. La più “storica” era stata la canonica attigua alla chiesa, affittata dalla curia di Barga: una casa su due piani con un soggiorno, la cucina e tre camere, una delle quali fornita di campanella esterna; c’era proprio un buco con una corda che permetteva di suonare una piccola campana posta su di una specie di torrino esterno. Il gabinetto era, credo, un’aggiunta novecentesca alla chiesa, risalente a qualche secolo prima. Infine la sala del trono, una specie di salotto al piano superiore con una sedia savonarola con la spalliera alta, e davanti ad essa un tappeto rosso appoggiato sul solaio di legno, dal quale saliva il calore delle stanze sottostanti.
La chiesa era anche provvista di un piccolo forno accanto alla canonica, ristrutturato negli anni, e che servì persino da pollaio per una gallina, che avrebbe avuto vita breve, comprata da Valentina, la moglie di Peppe il bestemmiatore, una voce acuta immersa tra gli animali da cortile, un animale tra gli animali che curava in vita e che uccideva quando era il momento.
La gallina fu comprata per farla al forno: con mio fratello eravamo riusciti a farcela dare viva, così di giorno in giorno divenne sempre più difficile ammazzarla e mangiarsela, tanto che poi, alla fine della vacanza, dopo aver soggiornato sotto il forno, venne a Livorno con noi finendo nel pollaio di mio nonno, dove terminò ormai vecchia la sua vita per un pranzo di Natale.
Di un periodo successivo rispetto alla chiesa è il campanile costruito a una cinquantina di metri dalla chiesa stessa, nel punto più alto, così che le campane potessero essere udite dalle due parti del crinale. Anche il campanile era un’avventura, vista la pericolosità dei solai. Ci andavamo con mio zio a suonare le campane; ci voleva un po’ per metterle in funzione, ma poi c’era la soddisfazione del fare una cosa proibita.
Davanti alla canonica, una strada sterrata si ricongiungeva con la via dell’Alpe, che portava al passo delle Radici e di lì si poteva godere della vista sulla valle ed i paesi della prima parte delle alture intorno a Castelnuovo Garfagnana; intorno alla chiesa, due grandi prati scoscesi con solo un piccolo accenno di terrazzamento, nei quali pascolavano spesso le pecore e qualche capra, specie nel pomeriggio, quando si avvicinava l’ora che Giovanni le riaccompagnava per la notte all’ovile lì vicino.


Giovanni era un vero montanaro! Credo che si sia mosso poche volte da quel posto; si occupava delle pecore e delle capre, oltre a fare la pulizia del bosco. Era un uomo di altri tempi, poteva essere anche un residuato ottocentesco, non corrotto in alcun modo dalla realtà in movimento. Vestiva con orgoglio i suoi scarponi pesanti che si toglieva davanti al camino ed i calzettoni di lana che si era tenuto per tutto il giorno; non aveva bisogno di molto altro che non fosse la sua camicia di tutti i giorni e quella di ricambio per la domenica. Ricordo di lui i baffetti fini curati e le sigarette che si faceva con le mani, tanto ruvide e grosse quanto abili a rollare le sigarette. Quando stavamo per certi periodi da soli con la mia mamma e mio fratello, poiché babbo tornava a casa per il lavoro, passava prima di cena a controllare che fosse tutto a posto, beveva un bicchiere di vino e andava via. Era una presenza rassicurante, una forza calma che incuteva rispetto e infondeva sicurezza.


Accanto all’ovile si trovava un’altra casa, dove abbiamo abitato, più recente, dalla quale si poteva assistere alla tosatura delle pecore e alla raccolta della lana, che era fatta a metà di agosto con l’ausilio di personale esterno alla famiglia. La mattina della tosatura si sentiva il rumore delle macchinette con le quali erano tosate le pecore; dopo il lavoro grosso del taglio della lana sul corpo delle pecore, con le vecchie forbici a molla erano fatti i ritocchi nelle parti che erano difficilmente raggiungibili con le macchinette come il sotto coda, le orecchie e intorno alle corna; poi la lana veniva raggruppata su dei grossi teli di plastica e lavata grossolanamente nel lavatoio della piazza vicino alla bottega.
Anche questa casa accanto all’ovile era frutto della ristrutturazione di una stalla; disposta su due livelli, con due appartamenti gemelli sopra e sotto. Davanti c’era un piccolo slargo dove giocare interminabili partite a volano o badmington come si chiama più propriamente, e sul retro un grande prato alla fine del quale si trovava la pista di scivolo con i cartoni sull’erba, dove occupare una parte delle mattinate.
L’erba di quel prato, accanto ad un grande ciliegio, era molto ruvida e non si prestava allo scivolamento, anche perché la discesa era ripida; l’ultima parte invece, sotto ai castagni, era di erba morbida, all’ombra e di pendenza giusta, con il finale della recinzione ad evitare sconfinamenti pericolosi in una parte piena di sassi e di vecchi ricci senza più le castagne, insomma l’ideale per uno scivolamento agevole.


Il primo pomeriggio degli ultimi anni era dedicato alla lettura, sfruttando la frescura dell’ombra della casa dove mi preparavo per l’anno scolastico successivo; ho letto diversi libri sulla poltrona al fresco: I promessi sposi, Il rosso e il nero, Il giardino dei Finzi Contini, Fontamara ed altri che mi portavo da casa facendo i compiti delle vacanze. Negli ultimi anni poi, con l’arrivo della energia elettrica, portavamo da casa anche la televisione, e le sere non era più obbligatorio passarle nella piazza.

I primi anni eravamo i soli villeggianti del posto, ma in quelli successivi la colonia livornese si è fatta imponente: ricordo di un anno in cui eravamo più noi di famiglia che gli abitanti del posto. Ricordo nell’ordine:
Noi 4, le zie materne, nonna e nonno, la sorella di nonna con marito, il fratello del marito di una zia con famiglia, sua mamma e babbo.
Una dozzina di livornesi che sconvolsero la località: l’anno dell’invasione fu quello dell’invenzione della toponomastica. Furono inventati i nomi alle vie, e posizionati i relativi cartelli, dipinti sul legno a cura del fratello di mio zio, rimasti poi lì appesi per parecchi anni.
Furono create:
Piazza Eva, la matrona che ebbe la piazza principale prospiciente la locanda.
Piazza della Repubblica, uno slargo sovrastante la piazza dove passava la via dell’Alpe e dove fu ricavata la fermata del bus che portava a Barga, il capolinea.
Via Claudio Pardini – pittore – il fratello di mio zio, l’ideatore del progetto.
Via Bruno Giuntini – attore – mio nonno, al quale fu dedicata la via che portava alla chiesa.
Piazza Pinelli – anarchico – l’unica dedicata ad un morto.


La colonia dei livornesi si muoveva spesso abbastanza compatta per le passeggiate, che erano la vera specialità del posto. Le più brevi all’Abetaia ed a Bebbio, abbastanza in piano e fatte spesso durante il mese di permanenza; più ardimentosa era la passeggiata alla Casermetta , su di una strada transitabile ma impervia e molto lunga, dalla quale si poteva poi affrontare la traversata del monte Giovo per andare al Lago Santo dall’altra parte del monte. Quella gita io non la feci mai, all’inizio perché troppo piccolo e dopo perché non se ne fecero più. Peccato!
Le escursioni al Lago Santo erano promosse da mio nonno Bruno, grande camminatore, un reduce dalla campagna di Russia che veniva da noi per un periodo; non poteva rimanere fermo ed ogni giorno ci portava in giro per la montagna, ma l’escursione al Lago Santo era ogni anno la “sua” passeggiata, una camminata a dire il vero non facile per i sentieri a volte stretti e franosi, tanto che una volta lui e mio zio Gigi scivolarono durante il ritorno finendo in un cespuglio di mirtilli, e tornando “insanguinati” ed un po’ sbucciati, ma ovviamente pieni di gloria.


La sala pranzo di oggi è cambiata; hanno tolto i vecchi quadri di Enrico, ed anche uno del mio babbo che gli aveva regalato, così come la cucina, ormai a norma, in luogo della vecchia che si allargava, oltre ai consueti fuochi, anche al camino utilizzato per la polenta e la pasta; per gli arrosti c’era invece il forno, dove era cotto il pane.
Quando venivamo a mangiare per qualche occasione, il menù era stabilito telefonicamente e non variava: spaghetti con il ragù con un gran sapore di cipolla, poi arrosti misti con il coniglio e il pollo di produzione locale, patate arrosto e dolce fatto in casa.
I proprietari mangiavano lo stesso pranzo nella stanza del camino, sul tavolo lungo che era servito per fare la pasta in casa e da punto di appoggio per cucinare, sbarazzato ed apparecchiato; erano sempre pronti, specie Enrico, ad alzarsi per l’arrivo di qualche avventore della bottega.
Il pranzo era preparato da Giulia, moglie di Giovanni e mamma di Vinicio, una donna che col tempo si era sempre più incurvata, come se si fosse adattata a stare china: in effetti, si vedeva china sui fornelli o nei pressi del camino, china al lavatoio sulla piazza, china sul lavandino in pietra della cucina, che per qualche oscura ragione era più basso di quelli che avevamo a casa. La chiamavano tutti l’”Alpa”, nata e vissuta in montagna; non credo si sia mai mossa da là.
Aiuto per la preparazione del cibo era garantito da Eva, la matrona, il cui raggio di azione è sempre stato la casa, le tre stanze e il piano di sopra; l’ho sempre vista vecchissima e sempre a sedere o quasi, vestita con pantaloni e cardigan scuri, ma si capiva che su certe cose l’ultima parola la metteva lei; gli ordini più chiari erano poi fatti in un dialetto incomprensibile parlato con Giovanni, come invece non lo era quello di Enrico.
D’altra parte loro non avevano grandi rapporti con il mondo esterno: erano gli altri che avevano bisogno di loro, che erano nell’ambiente giusto al posto giusto.


Nella sala pranzo oltre ai quadri, di cui uno non terminato con una parte ancora bianca, ma comunque incorniciato, c’era un vecchio appendiabiti al muro con illustrazioni di caccia e degli attrezzi che ancora erano usati. Dove oggi c’è un ricordo del passato, allora c’era proprio una casa di montanari con le attrezzature in uso, tra le quali c’erano anche, appoggiate in un angolo, le tavole che servivano per mettere il pane a raffreddare dopo la cottura.
In quella sala festeggiammo anche il 24 agosto del 1975 la comunione mia e di mio fratello con una tavolata con don Luciano, il prete che anni dopo lasciò gli abiti talari per sposarsi, e tutti noi con nonno, nonna e le zie, alla fine del pranzo anche Enrico e Giovanni per il brindisi.
Il catechismo per la comunione fu molto rapido: eravamo già grandini e il tutto durò un paio di giorni. Si fecero delle chiacchierate col prete, le ricordo all’aperto, ma forse mi sbaglio. Poi la domenica la festa per il piccolo paese, noi due ai lati dell’altare vestiti a festa e la piccola folla della domenica pomeriggio; Luciano ci regalò due vangeli a testa, il classico piccolo e quello illustrato, un vangelo “cronologico” dove erano messi in ordine gli avvenimenti raccontati dai diversi punti di vista degli evangelisti, e illustrati con le cartine dei luoghi dove gli stessi si svolgevano.


Il prete era un’altra figura significativa del posto; ne sono cambiati molti e degli stampi più diversi. Alcuni abitavano nella canonica, tranne quando l’affittavano, altri venivano da Barga. Abbiamo avuto quindi un prete molto aperto, quale era quello che ci ha comunicati, altri molto ortodossi, fino ad uno abbastanza disincantato che passava molto tempo a giocare a carte nella locanda e quando arrivò la notizia della morte di papa Paolo VI disse a commento:
“Chiudo a zero!”, vincendo la mano di carte che stava giocando ed entrando nella leggenda del posto, tanto che, diversi anni dopo, si parlava ancora dell’episodio con intenti anche polemici da parte valdese e comunista.


Un appuntamento fisso di fine estate era poi il mercato dei funghi, occasione in cui la piazza si popolava di auto con i portelloni posteriori aperti sulle cassette e ceste di funghi porcini, perché i funghi erano solo i porcini! Questo di solito avveniva nella seconda metà di agosto, quando la locanda era frequentata da molti forestieri che arrivavano sull’Alpe appunto alla ricerca dei funghi e si fermavano per uno spuntino ed un bicchiere di vino, con le scarpe pesanti ed i vestimenti per andare al bosco. L’ambiente diventava meno familiare con l’entrata e l’uscita di avventori sconosciuti; la familiarità però tornava a sera quando il via vai finiva, con l’arrivo del freddo pungente dopo che il sole era sceso dietro al monte Pania e con la chiusura della porta di ingresso, nella giornata rimasta sempre aperta. Si presentava quindi di nuovo il volto consueto degli ambienti e si tornava tutti dentro attorno al fuoco per la serata.
Nelle giornate di fine agosto, ultime della vacanza, il tempo peggiorava, cominciavano le prime pioggerelle ed era il momento di ritornare a casa.


L’ultima visita da fare era al cimitero, posto nella parte alta del paese, sopra la bottega, sulla cresta della montagna. Piccolissimo, con un cancello sempre aperto dal quale si accedeva al prato verde dove spuntavano solo le pietre verticali delle lapidi, che davano proprio la sensazione di un cimitero inglese: il bianco delle lapidi ed il verde del prato.
Sono tutti là i Marchi, a cento metri dalla loro casa, a guardare Renaio attraverso gli alberi della loro montagna.


Eva, Enrico, Giovanni e Giulia “dormono sulla collina” e il loro mondo, la sotto, ormai perduto: il Vinicio, la Valentina, il Peppe, il Notarone, i preti, le bestemmie, le pecore e le capre, il formaggio, la Skoda rossa, l’erba e i cartoni, i bastoni per le camminate, tutto finito “nel tacito e infinito andar del tempo”.
Tutto tranne loro, i castagni, che hanno visto nascere e ancora presidiano Renaio.




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Racconto scritto il 26/07/2016 - 07:46
Da Glauco Ballantini
Letta n.1428 volte.
Voto:
su 4 votanti


Commenti


Bellissimo ritratto di un tempo passato troppo in fretta dove semplicità e profonda saggezza si fondevano armoniosamente...stupenda l'ultima immagine che dà il senso della continuità.5*

Gabriella De Gennaro 28/07/2016 - 11:54

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Splendida lettura, direi avvolgente.
Piaciuto molto il degno finale, con gli alberi che sopravvivono al tempo.
Buona giornata Glauco.

Loris Marcato 26/07/2016 - 13:30

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Grazie a Spartaco e Francesco per il tempo dedicato a questa lunga lettura che è una saga decennale, quasi uno sceneggiato degli anni settanta.

Glauco Ballantini 26/07/2016 - 13:11

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Questo finale, un po' più lungo, ha premiato la voglia di leggerlo tutto... e con estrema soddisfazione.

Francesco Gentile 26/07/2016 - 12:56

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Degnissimo finale per questa testimonianza di vita reale che ha contribuito a conoscere Renaio e ad inchinarsi ai suoi castani che sono sopravvissuti al tacito e infinito andar del tempo. Ciaociao

Spartaco Messina 26/07/2016 - 09:43

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