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Signora solitudine

Signora solitudine


L’oste seguiva con occhio vigile, e orecchio ben teso, il concerto eseguito dalla pioggia battente sui sampietrini della piazza deserta.
L’ansimare rauco e fastidioso della vecchia corriera che, salendo dal fianco della collina, prese possesso della scena, rovinò la musicalità dell’evento atmosferico.
Lentamente, la corriera completò il periplo della piazza e, prima d’imboccare in senso contrario il tornante destrorso appena affrontato in salita, si arrestò.
Allo sbuffo d’aria compressa dell’impianto frenante seguì, un istante dopo, quello dell’apertura automatica delle porte.
Una donna si avvicinò all’uscita, guardò il cielo, sospirando appoggiò la valigia sul predellino, poi aggrappandosi al maniglione della porta allungò la gamba destra e posò il piede sul suolo bagnato; subito dopo posò anche l’altro, riprese la valigia, salutò l’autista e s’incamminò.
La donna, anche se lo sguardo dolente segnato da troppo dolore contribuiva ad assegnargliene qualcuno in più, aveva cinquant’anni, indossava un impermeabile color cachi e un foulard dello stesso colore, portava la tracolla della borsa appoggiata sulla spalla sinistra e, con la mano destra, stringeva la maniglia della valigia in similpelle dai colori consunti dal tempo e dall’uso.
«Ahi! E’ tornata signora solitudine!» commentò l’oste scuotendo il capo, osservando lo sguardo incupito e il suo lento deambulare sotto la pioggia battente in direzione dell’osteria.
L’oste tornò dietro il bancone, e prima che la donna dal passo lento, quasi strascicato, tipico del condannato che ambirebbe non raggiungere l’ultima meta, arrivasse all’ingresso dell’osteria, preparò un buon caffè.
«Bentornata, Rosetta!» esclamò posando la tazzina davanti a lei.
La donna non rispose, posò la valigia a terra, sorseggiò il caffè, riprese la valigia e, allungando la mano aperta, usando un tono che evidenziò la profonda tristezza d’animo tipica di chi aveva perso qualcuno a cui si è profondamente legati, si limitò a dire: «Grazie… le chiavi, per favore».
L’oste, facendo violenza alla propria natura, non le chiese altro, trasse un mazzo di chiavi dal cassetto sotto il bancone e lo appoggiò sopra il palmo della mano della donna.
Lei guardò le chiavi, le strinse, piegò gli angoli della bocca abbozzando un sorriso forzato, si volse e uscì dal locale.
Fatti pochi passi, aprì la porta accanto all’ingresso dell’osteria, salì la ripida scala dagli scricchiolanti gradini in legno ed entrò nel suo piccolo appartamento, sito sopra al locale.
L’oste, che era cresciuto assieme alla donna e conoscendo vita morte e miracoli della sua famiglia nutriva per lei un affetto fraterno, da dietro il bancone seguiva con apprensione, tenendo l’orecchio ben teso e spostando lo sguardo lungo il soffitto in legno, i passi della donna all’interno dell’appartamento.
Attese che il battito dei tacchi sull’assito fosse sostituito da un suono più ovattato. “Ha messo le ciabatte… ecco, è entrata in camera, andrà a distendersi sul letto… Questa volta l’ho vista male, molto peggio delle altre volte, non era mai tornata così depressa… spero che riesca a dormire almeno un po’”, pensava con gli occhi incollati al soffitto, prima di tornare a seguire, con lo sguardo e l’udito, la pioggia che continuava a cadere copiosa sulla piazza deserta.


Dovendo rimanere lontana dal paese per lunghi periodi, spesse volte per molti mesi - in un caso l’assenza si era protratta addirittura per quasi due anni -, aveva l’esigenza di lasciare le chiavi di casa a qualcuno di cui si fidasse; in modo che, periodicamente, potesse controllare il buon funzionamento degli impianti.
E la scelta non poteva che cadere su l’unica persona del borgo a cui si sentiva legata da un forte sentimento di amicizia: l’oste. Il quale provvedeva anche a ritirare la posta dalla casella e posarla sulla consolle nell’ingresso dell’appartamento.
Ma qual era il lavoro che teneva la donna per così lunghi periodi lontano da casa?
Un lavoro estremamente difficile e socialmente molto utile… la badante!
Fare il lavoro di badante, e farlo bene, è un impegno sociale totalizzante, che assorbe le energie psicofisiche per l’intero arco della giornata; un compito che richiede passione e dedizione monacale.
Il suo compito era ugualmente prezioso ma ancor più complicato di quello già difficilissimo di una badante, che potremmo definire “normale”, il cui compito è quello di accudire un anziano non più autosufficiente per l’età avanzata.
Lei, infermiera diplomata, aveva deciso che il suo lavoro, la sua “missione” come amava definirlo, fosse quello di un tipo particolare di badante. Lei prestava la sua opera a chi era costretto a vivere l’ultima pare della propria vita nella solitudine e nel dolore. Dolore morale, ma soprattutto fisico, lancinante, che ti morde le carni, le ossa e non ti lascia un attimo di tregua: il dolore dei malati terminali all’ultimo stadio!
Per comprendere perché avesse sacrificato quasi trent’anni di vita, dedicandosi completamente agli altri, dobbiamo tornare indietro nel tempo, quando Rosetta aveva solo diciotto anni.


Rosetta era nata in quella casa sopra l’osteria, e lì viveva ancora con il padre e la madre. Aveva raggiunto da pochi mesi la maggiore età, quando sua madre l’aveva informata che al padre rimanevano pochi mesi di vita.
Sarebbero stati mesi durissimi. Lei e la madre si erano prese in carico l’uomo, oramai ridotto a una larva, dopo che l’ospedale non potendo più fare nulla per aiutarlo lo aveva rimandato a casa.
In certi frangenti, quando il padre urlando dal dolore malediceva tutto e tutti, le due donne non
sapevano come comportarsi. Ogni volta dovevano attendere, fra le urla strazianti dell’uomo, che il dottore, o un infermiere, arrivasse per praticargli un’iniezione, o per applicargli una flebo.
E molte volte l’attesa si protraeva per ore: nel piccolo paese collinare non v’erano né medici, né infermieri.
Erano stati mesi terribili. “Mai più dovrà accadere che io non sia in grado di assistere qualcuno che mi chiede disperatamente di aiutarlo”, aveva giurato a sé stessa, guardando la bara del padre il giorno del funerale.
Subito dopo si era iscritta a un corso per infermiere, e in poco più di sei mesi aveva ottenuto il diploma.
Stava ancora vagliando le proposte di lavoro, quando un’altra tegola gli era caduta sulla testa.
Sua madre era stata colpita dalla stessa patologia del padre. Questa volta toccava a lei sola assistere la genitrice. Lo sapeva bene che avrebbe potuto contare solo sulle proprie forze, ma non si era lasciata prendere dal panico. A differenza della volta precedente, si sentiva forte, in grado di accudire e rinfrancare la madre nei momenti più duri, senza l’aiuto di dottori o infermieri.
E aveva saputo assolvere il suo compito come meglio non si sarebbe potuto. Con capacità professionale e molto amore era riuscita ad alleviare le sofferenze della madre e ad accompagnarla, facendole apparire meno duro il cammino, fin oltre la soglia della vita.
Rimasta sola al mondo, aveva poi deciso che era giusto mettere a disposizione l’esperienza maturata nell’assistere la madre, per aiutare chi ancora poteva usufruirne.
Con entusiasmo aveva accettato un posto da infermiera nel reparto oncologico di un grande ospedale, dove i malati combattevano la loro battaglia per la vita.
Ma l’entusiasmo iniziale era scemato rapidamente. Fin da subito, il dolore di uomini e donne colpiti duramente dalla malattia, la sconvolsero nel profondo. Il loro dolore era anche il suo; soffriva con loro e, quando un paziente non riusciva a farcela, sentiva lo stesso dolore che aveva provato il giorno che aveva perso prima il padre e poi la madre.
Era invasa da una sofferenza smisurata quando, pazienti oramai allo stato terminale, venivano dimessi per trascorrere gli ultimi mesi, o giorni di vita, accanto ai propri affetti.
L’impotenza per non essere riuscita con il suo calore, il suo amore, il suo essere partecipe al dramma del paziente, ad aiutarlo a superare l’arduo ostacolo, la prostrava moralmente e fisicamente.
Avrebbe voluto fare molto di più, stare vicino a loro, stringere le loro mani mentre esalavano l’ultimo respiro rantolando e maledicendo tutto e tutti.
L’occasione si era presentata quando il primario si era rivolto a un paziente, dicendogli che lo avrebbe dimesso all’indomani.
L’uomo lo aveva supplicato di trattenerlo. Piangeva come un bambino, dicendo che era solo al mondo, che avrebbe pagato pur di restare accanto a quell’infermiera eccezionale che sapeva trasmettergli una serenità d’animo mai provata, nemmeno prima che il male lo aggredisse.
Il primario era stato irremovibile. Non era cattiveria la sua; ma i posti letto erano pochi, e quando un paziente non poteva più ricevere le cure, doveva lasciare il posto a chi, una speranza di guarigione l’aveva ancora.
E quando l’uomo, in preda alla disperazione più nera aveva minacciato di suicidarsi, l’infermiera non era riuscita ad assistere inerme, e si era offerta di assisterlo a domicilio.
L’uomo aveva accettato con entusiasmo, il primario un po’ meno; perdere la sua migliore assistente non lo aveva reso certo felice. Ma Rosetta aveva fatto la propria scelta di vita: da lì in avanti il suo compito sarebbe stato quello di assistere e far sentire amate le persone malate e sole, durante l’ultimo doloroso atto della loro vita.
No, non era un lavoro il suo, ma una vera e propria missione; l’osmosi tra l’assistente e l’assistito era così profonda, da far provare a Rosetta gli stessi lancinanti dolori provocati dal male sul malato terminale.
E ogni qualvolta l’evento ineluttabile le portava via la sua ragione di vita, cadeva in una profonda prostrazione. Allora tornava desolata al suo paese, si richiudeva in casa e lasciava libero sfogo a pensieri distruttivi.
Durava comunque poco il periodo buio; la richiesta di personale, professionalmente portato al duro lavoro di assistenza ai malati terminali, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, era molto alta.
Dopo pochi giorni, Rosetta, sentendo di poter essere ancora d’aiuto a chi reclamava la sua presenza, ritrovava la serenità d’animo necessaria per ripartire nuovamente.
«Oooh, finalmente se né andata, signora solitudine!» esclamava allora l’oste, accogliendo nelle sue ruvide mani le chiavi dell’appartamento, prima di ogni ripartenza.
Rosetta, non replicava, si limitava a mostrare il sorriso gentile che, da lì in avanti, avrebbe elargito ogni giorno al suo assistito. Poi prendeva la valigia che aveva precedentemente posato a terra e, salutando con l’altra mano, si avviava, serena, alla fermata della corriera.


FINE




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Racconto scritto il 07/10/2018 - 19:00
Da vecchio scarpone
Letta n.849 volte.
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Commenti


un racconto pregno di quel sentimento chiamato amore, nella sua forma più altruista.
Ti ringrazio.
Ciao Grazia

vecchio scarpone 08/10/2018 - 20:50

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Davvero un bel racconto...ed un personaggio straordinario...

Grazia Giuliani 08/10/2018 - 18:59

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credo che persone del genere esistano davvero... poche, ma esistono... penso al ragazzo salvadoregno che ha assistito mio padre negli ultimi anni (mio padre non era malato, ma solo molto anziano, è morto a 96 anni),Alexander, così si chiama, il giorno fatidico lo trovai abbracciato a mio padre che piangeva come un figlio. Una persona davvero straordinaria, eccezzionale... gli ho dedicato pure un racconto... Devo controllare la lista dei testi di narrativa che ho postato, poi, se non l'ho ancora fatto, penso che, se ci sto dentro con il numero dei caratteri, presto proverò a pubblicarlo. Ti ringrazio.
Ciao Laisa
Giancarlo

vecchio scarpone 08/10/2018 - 17:53

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Un angelo
Un angelo che ha deciso di abitare tra gli uomini. Meraviglioso e, come sempre, complimenti Giancarlo

laisa azzurra 08/10/2018 - 12:05

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