Purtroppo Carlo, ossia il Professor Carlo Righetti Bianchi, non aveva tutti i torti.
Ricordo ancora la sua faccia incredula quando gli dissi che il mio sogno era quello di poter essere docente delle scuole superiori.
Sembrano passati secoli e si... mi sono pentito di quella scelta.
È difficile ammetterlo ma è così.
Ero un giovane pieno di illusioni, di speranze, che credeva veramente nelle proprie capacità, nel voler cambiare le cose, nel migliorarle, nel poter dare un apporto alle giovani menti.
La prima “nota stonata” iniziò già con il primo incarico: professore di fisica presso l'Istituto Tecnico Gaetano Pescasseroli.
Mi domandai chi mai fosse questo personaggio che aveva dato il nome all'Istituto e scoprì, con mia sorpresa, che questi era un “oscuro” insegnante il cui merito era stato quello di aver donato parte del terreno dove poi l'Istituto stesso nacque. Capisco dare un riconoscimento ad un benefattore ma dedicargli l'Istituto mi sembrava troppo.
Si, lo so, questo può sembrare una sciocchezza, anzi di certo lo è, ma per me il nome di un Istituto ha anche un valore simbolico e .. insomma, sentivo di partire con il piede sbagliato.
Non dovrei essere superstizioso, sono un uomo di scienza, ma anch'io ho le mie debolezze, le mie banalità, i miei controsensi.
Sono perfettamente cosciente che non sarei mai diventato un Einstein, non ho la capacità comunicativa di Feynman, né la memoria di Fermi ma, a detta di chi mi conosceva, avrei comunque sicuramente fatto una buona, anzi, a detta del mio mentore, ottima carriera nel campo dell'astrofisica.
La mia idea di fare l'insegnante prese piede nella mia mente pian piano nel corso degli studi.
L'ho difesa strenuamente e solo ora, a distanza di anni, mi sono arreso, prendendo atto che per me è stata una scelta sbagliata.
L'avevo capito già da tempo ma semplicemente non volevo ammetterlo a me stesso, figuriamoci agli altri.
Ricordo un bisticcio con mio padre, dipendente delle ferrovie che aveva sacrificato tanto per far laureare il suo unico figlio e che per lui vedeva un luminoso futuro nel campo della fisica.
Erano andati a casa dei miei alcuni colleghi per dirgli che il professor Logan, della Hopkins University, aveva visto alcuni miei lavori ed aveva parlato, durante un convegno a Londra, con Carlo esprimendogli il desiderio di conoscermi ad un convegno in programma a Roma il mese seguente, e magari avermi nel suo gruppo per il telescopio Hubble.
Io avevo già detto a Carlo che ci avrei pensato ma lui, conoscendomi, interpretò come un no quel: “ dammi un po' di tempo per pensarci”.
I colleghi insistettero, calcarono la mano sul fatto che questa era una opportunità importante, che l'allora nuovo telescopio Hubble era il futuro dell'astronomia, insomma la rabbia in mio padre montava, il tutto alimentato dalla benzina dei colleghi, che non so se mi volevano un bene dell'anima (improbabile) oppure erano lì perché Carlo gli aveva chiesto il piacere di provare a convincere mio padre, la cui opinione, naturalmente, avevo in grande considerazione, per farmi pressione per accettare quel colloquio con il Professor Logan.
Era una tranquilla giornata di aprile, decisi di andare a trovare i miei, ignaro della visita dei colleghi.
Me ne disse di tutti i colori, tirò fuori cose che con Hubble e la fisica non centravano un bel nulla, solo l'intervento di mia madre, spaventata da quell'accesso d'ira, riuscì a calmare le acque.
Rimasi un mese senza andare dai miei, poi mia madre, al telefono, mi disse di avvicinarmi da loro.
Scoprì che a mio padre era stata diagnosticata una brutta malattia.
Confesso che allora rimasi molto combattuto se continuare per la strada che avevo in programma di seguire o dare soddisfazione a mio padre, seguendo Carlo a Roma per incontrare il Professor Logan.
Certo, essere contattati dal Professor Logan era un qualcosa che mi faceva onore, molti colleghi invidiavano quell'interessamento e per la mia Università il poter avere un proprio membro nel gruppo del Professore era una “buona carta”.
Continuai per la mia strada.
Leggendo la biografia di Fermi mi imbattei in un “personaggio”, ossia un collega del padre, Adolfo Amidei, che “scoprì” il ragazzo e l'aiutò nella sua formazione.
Ecco, volevo essere l'Amidei per tutti i Fermi che attendevano di essere scoperti, o perlomeno indirizzare verso una cultura scientifica il maggior numero di ragazzi/e possibile.
Mi rendevo perfettamente conto che solo una piccola parte avrebbe seguito gli studi in fisica e che pochissimi sarebbero stati i potenziali Fermi, io, però, mi accontentavo di obbiettivi modesti.
Mi dicevo che se su 100 miei studenti 20 si fossero iscritti in fisica avrei fatto un ottimo lavoro; il mio obbiettivo minimo era almeno 10 su 100.
Ero molto fiducioso sulle mie capacità divulgative, solo dopo mi resi conto che le sovrastimavo.
Non era semplice, almeno per me, trasmettere a ragazzini/e la passione per la fisica.
Avevo sempre avuto un uditorio di persone già appassionate alla materia, anche i miei lo erano, e stupidamente, non posso che dire stupidamente, mi ero fatto l'idea che anche la maggior parte delle persone lo fosse, quindi ritenevo che sarebbe stato relativamente semplice divulgare la materia a chi la conosceva poco o per nulla.
Mi rendo conto che certi concetti di fisica non sono di immediata comprensione.
Durante le lezioni, solo alcuni erano realmente attenti altri scarabocchiavano, sbadigliavano comunque non prestavano molta attenzione.
Se poi mancavano pochi minuti alla fine della lezione, la maggior parte guardava l'orologio piuttosto che seguire quello che dicevo.
Mi venne il dubbio che il problema fossi io.
Magari non spiegavo in modo coinvolgente. Anch'io ho avuto dei professori che “strapazzavano” la loro materia, per gli studenti diventava un vero suplizio riuscire a seguirli.
Ora c'è internet, ci sono su Youtube dei divulgatori scientifici molto bravi e coinvolgenti, ma ai miei tempi tutto questo non esisteva, quindi cercai di capire, informandomi dove potevo, come migliorare la mia comunicazione.
Certo, buona parte della comunicazione è un qualcosa dovuto al modo di essere di chi insegna, mi viene in mente Feynman, che era un grande divulgatore, ricordato ancora oggi a molti anni dalla scomparsa.
Vidi che le modifiche al mio modo di presentare la fisica ottennero un discreto successo.
I ragazzi sembravano più interessati, facevano più domande.
A molti ragazzi sembrava assurdo pensare che la velocità della luce non poteva essere superata.
Mi chiedevano dei viaggi nel tempo, se potevano esistere universi paralleli eccetera.
Una volta gli raccontai come Feynman riuscì a capire cosa aveva causato l'esplosione dello Shuttle, impostai il tutto come se fosse stato un thriller e i ragazzi seguirono volentieri.
Carlo, ogni tanto passava a trovarmi, mi chiedeva come andava, se ero interessato a una collaborazione, gli rispondevo che la famiglia e la scuola assorbivano tutto il mio tempo.
Anche lui, poi, smise di passare, ogni tanto ci sentivamo per gli auguri di natale o capodanno poi più nulla. Seppi da un giornale locale che un infarto se lo portò via una notte d'agosto.
Un collega prese il suo posto, Marco Calvini.
Incontrai casualmente Marco in un centro commerciale, dopo un po' che stavamo chiacchierando mi confidò che, a suo parere, sarei dovuto essere io al suo posto, conoscendolo mi stava dicendo qualcosa che pensava davvero e la cosa mi fece naturalmente molto piacere, un sincero complimento da un fisico di valore.
Non lo ammisi, né a lui, né a me stesso, ma già allora le cose non stavano andando come previsto.
Dei tanti studenti che avevo visto passare fino a quel momento, solo quattro, almeno di quelli di cui ero a conoscenza, si erano iscritti in fisica e solo uno era arrivato alla laurea per poi diventare, anche lui, insegnante.
Non avevo scoperto nessun Fermi, non avevo, per quanto ne sapevo, creato nessuna nuova generazione di amanti della fisica, insomma fino a quel momento un vero fallimento su tutto il programma, ma di certo a Marco questo... non è che non potevo dirglielo ma non volevo dirglielo... non volevo ammetterlo neanche a me stesso figuriamoci a dirlo a lui.
Un giorno venne il padre di una ragazza che aveva preso un brutto voto, mi ero impegnato per spiegarle, impiegando del tempo al di fuori dell'orario di lezione, le basi della fisica, ma lei, anche se a parole si diceva interessata, non voleva imparare un bel nulla.
Il padre me ne disse di tutti i colori, incolpandomi delle carenze della figlia.
A nulla valse fargli presente che, per il bene della figlia, mi ero impegnato anche oltre il mio dovere.
Cercai, anche se avrei voluto mettergli le mani addosso e lanciarlo verso la finestra, di mantenere la calma lui invece continuò, ad un certo punto fu lui che mi mise le mani addosso.
Ero in piedi chiedendo al tipo la cortesia di abbassare la voce e magari di tornare quando era più calmo, il tipo, invece, fece partire due sonori schiaffoni che mi mandarono a terra, mi alzai con l'intento di prenderlo a pedate, solo l'intervento dei colleghi che allontanarono l'esagitato si scongiurò il peggio.
La cosa finì in tribunale.
Cambiai successivamente Istituto, pensai che il cambio potesse farmi trovare un ambiente migliore e forse anche più stimoli per andare avanti.
Invece non fu così, il nuovo Istituto era la “fotocopia” del precedente, anzi i genitori esagitati, non presi più ceffoni ma incontrai spesso gente che alzava volentieri la voce, divennero quasi una prassi.
Diventai sempre più nervoso, gli sforzi per presentare una fisica a misura di ragazzo/a si ridussero a zero, facevo la mia lezione senza stare li a controllare se mi seguivano o meno.
Lo stress mi stava distruggendo, mangiavo male, ero sempre distratto e divenni scontroso con Chiara, mia moglie.
Alla fine: il re è nudo. Anche se era evidente da tempo, era giunto il momento di ammetterlo.
Fare l'insegnante mi stava logorando, o meglio il non aver raggiunto, neanche minimamente, gli obbiettivi che mi avevano portato a fare quella scelta a discapito di una brillante carriera nel mondo della fisica mi aveva “buttato giù” in modo pesante.
Chiara, che era figlia unica, mi disse che i genitori erano d'accordo nel lasciarle, già da quel momento, la baita in montagna e i 22 ettari di terreno sparsi nella nostra provincia.
“ Giulio, facciamo così... vendiamo la baita, alcuni terreni e ti ritiri. Tanto l'abbiamo capito … penso che sia la cosa più giusta da fare” mi disse Chiara, rimasi senza parole.
Ci pensai tutta la notte e alla fine accettai.
I colleghi rimasero di sasso.
La cosa buffa, se così vogliamo dire, è che non si preoccuparono dei ragazzi ma: Così perdi la pensione, era il commento più ricorrente.
Non poteva essere che avevo sprecato la mia vita.
“Avrò pur fatto qualcosa di buono nel aver fatto l'insegnante” mi ripetevo continuamente ma trovavo molta difficoltà a darmi una risposta positiva.
Si ruppe un bagno, chiamai l'idraulico e venne questo ragazzo che riconobbi essere stato un mio studente, anche bravino; cercai di capire se mi aveva riconosciuto, sembrava di no, allora andai diretto e gli chiesi se si ricordava di me lui mi disse di no, ci rimasi malissimo.
L'altro giorno ho sognato mio padre, era seduto su una vecchia sedia dal fondo in paglia, all'interno di una stanza vuota. Mi sono avvicinato a lui, non so da dove è apparsa un'altra sedia e mi sono seduto anch'io, lui non diceva nulla, poi... poi mi sono scusato per tutto quello che gli avevo fatto passare e gli ho detto che aveva ragione lui, l'aveva vista giusta... chiedevo ancora scusa anche se tardivamente. Lui mi ha guardato, ha sorriso, si è alzato, si è avvicinato a me toccandomi una spalla prima di allontanarsi. Mi aveva perdonato.
Non ho mai potuto dirglielo, ma, anche se non è certo la stessa cosa, averglielo potuto dire in sogno è stato per me molto importante, mi ha fatto sentire bene il fatto di essermi potuto in qualche modo scusare con lui.
Scoprì che il collega che era stato preso al mio posto nella Hopkins University aveva preso il posto del Professor Logan. Ci sarei dovuto essere io al suo posto.
Quando lessi la notizia non riuscì a trattenere le lacrime, erano lacrime di rabbia, dettate dalla convinzione di aver buttato al vento una carriera che mi avrebbe sicuramente dato più soddisfazioni che andare dietro ad un sogno, a... non lo so neanch'io cosa.
Oramai era troppo tardi per rimediare.
Ricordo ancora la sua faccia incredula quando gli dissi che il mio sogno era quello di poter essere docente delle scuole superiori.
Sembrano passati secoli e si... mi sono pentito di quella scelta.
È difficile ammetterlo ma è così.
Ero un giovane pieno di illusioni, di speranze, che credeva veramente nelle proprie capacità, nel voler cambiare le cose, nel migliorarle, nel poter dare un apporto alle giovani menti.
La prima “nota stonata” iniziò già con il primo incarico: professore di fisica presso l'Istituto Tecnico Gaetano Pescasseroli.
Mi domandai chi mai fosse questo personaggio che aveva dato il nome all'Istituto e scoprì, con mia sorpresa, che questi era un “oscuro” insegnante il cui merito era stato quello di aver donato parte del terreno dove poi l'Istituto stesso nacque. Capisco dare un riconoscimento ad un benefattore ma dedicargli l'Istituto mi sembrava troppo.
Si, lo so, questo può sembrare una sciocchezza, anzi di certo lo è, ma per me il nome di un Istituto ha anche un valore simbolico e .. insomma, sentivo di partire con il piede sbagliato.
Non dovrei essere superstizioso, sono un uomo di scienza, ma anch'io ho le mie debolezze, le mie banalità, i miei controsensi.
Sono perfettamente cosciente che non sarei mai diventato un Einstein, non ho la capacità comunicativa di Feynman, né la memoria di Fermi ma, a detta di chi mi conosceva, avrei comunque sicuramente fatto una buona, anzi, a detta del mio mentore, ottima carriera nel campo dell'astrofisica.
La mia idea di fare l'insegnante prese piede nella mia mente pian piano nel corso degli studi.
L'ho difesa strenuamente e solo ora, a distanza di anni, mi sono arreso, prendendo atto che per me è stata una scelta sbagliata.
L'avevo capito già da tempo ma semplicemente non volevo ammetterlo a me stesso, figuriamoci agli altri.
Ricordo un bisticcio con mio padre, dipendente delle ferrovie che aveva sacrificato tanto per far laureare il suo unico figlio e che per lui vedeva un luminoso futuro nel campo della fisica.
Erano andati a casa dei miei alcuni colleghi per dirgli che il professor Logan, della Hopkins University, aveva visto alcuni miei lavori ed aveva parlato, durante un convegno a Londra, con Carlo esprimendogli il desiderio di conoscermi ad un convegno in programma a Roma il mese seguente, e magari avermi nel suo gruppo per il telescopio Hubble.
Io avevo già detto a Carlo che ci avrei pensato ma lui, conoscendomi, interpretò come un no quel: “ dammi un po' di tempo per pensarci”.
I colleghi insistettero, calcarono la mano sul fatto che questa era una opportunità importante, che l'allora nuovo telescopio Hubble era il futuro dell'astronomia, insomma la rabbia in mio padre montava, il tutto alimentato dalla benzina dei colleghi, che non so se mi volevano un bene dell'anima (improbabile) oppure erano lì perché Carlo gli aveva chiesto il piacere di provare a convincere mio padre, la cui opinione, naturalmente, avevo in grande considerazione, per farmi pressione per accettare quel colloquio con il Professor Logan.
Era una tranquilla giornata di aprile, decisi di andare a trovare i miei, ignaro della visita dei colleghi.
Me ne disse di tutti i colori, tirò fuori cose che con Hubble e la fisica non centravano un bel nulla, solo l'intervento di mia madre, spaventata da quell'accesso d'ira, riuscì a calmare le acque.
Rimasi un mese senza andare dai miei, poi mia madre, al telefono, mi disse di avvicinarmi da loro.
Scoprì che a mio padre era stata diagnosticata una brutta malattia.
Confesso che allora rimasi molto combattuto se continuare per la strada che avevo in programma di seguire o dare soddisfazione a mio padre, seguendo Carlo a Roma per incontrare il Professor Logan.
Certo, essere contattati dal Professor Logan era un qualcosa che mi faceva onore, molti colleghi invidiavano quell'interessamento e per la mia Università il poter avere un proprio membro nel gruppo del Professore era una “buona carta”.
Continuai per la mia strada.
Leggendo la biografia di Fermi mi imbattei in un “personaggio”, ossia un collega del padre, Adolfo Amidei, che “scoprì” il ragazzo e l'aiutò nella sua formazione.
Ecco, volevo essere l'Amidei per tutti i Fermi che attendevano di essere scoperti, o perlomeno indirizzare verso una cultura scientifica il maggior numero di ragazzi/e possibile.
Mi rendevo perfettamente conto che solo una piccola parte avrebbe seguito gli studi in fisica e che pochissimi sarebbero stati i potenziali Fermi, io, però, mi accontentavo di obbiettivi modesti.
Mi dicevo che se su 100 miei studenti 20 si fossero iscritti in fisica avrei fatto un ottimo lavoro; il mio obbiettivo minimo era almeno 10 su 100.
Ero molto fiducioso sulle mie capacità divulgative, solo dopo mi resi conto che le sovrastimavo.
Non era semplice, almeno per me, trasmettere a ragazzini/e la passione per la fisica.
Avevo sempre avuto un uditorio di persone già appassionate alla materia, anche i miei lo erano, e stupidamente, non posso che dire stupidamente, mi ero fatto l'idea che anche la maggior parte delle persone lo fosse, quindi ritenevo che sarebbe stato relativamente semplice divulgare la materia a chi la conosceva poco o per nulla.
Mi rendo conto che certi concetti di fisica non sono di immediata comprensione.
Durante le lezioni, solo alcuni erano realmente attenti altri scarabocchiavano, sbadigliavano comunque non prestavano molta attenzione.
Se poi mancavano pochi minuti alla fine della lezione, la maggior parte guardava l'orologio piuttosto che seguire quello che dicevo.
Mi venne il dubbio che il problema fossi io.
Magari non spiegavo in modo coinvolgente. Anch'io ho avuto dei professori che “strapazzavano” la loro materia, per gli studenti diventava un vero suplizio riuscire a seguirli.
Ora c'è internet, ci sono su Youtube dei divulgatori scientifici molto bravi e coinvolgenti, ma ai miei tempi tutto questo non esisteva, quindi cercai di capire, informandomi dove potevo, come migliorare la mia comunicazione.
Certo, buona parte della comunicazione è un qualcosa dovuto al modo di essere di chi insegna, mi viene in mente Feynman, che era un grande divulgatore, ricordato ancora oggi a molti anni dalla scomparsa.
Vidi che le modifiche al mio modo di presentare la fisica ottennero un discreto successo.
I ragazzi sembravano più interessati, facevano più domande.
A molti ragazzi sembrava assurdo pensare che la velocità della luce non poteva essere superata.
Mi chiedevano dei viaggi nel tempo, se potevano esistere universi paralleli eccetera.
Una volta gli raccontai come Feynman riuscì a capire cosa aveva causato l'esplosione dello Shuttle, impostai il tutto come se fosse stato un thriller e i ragazzi seguirono volentieri.
Carlo, ogni tanto passava a trovarmi, mi chiedeva come andava, se ero interessato a una collaborazione, gli rispondevo che la famiglia e la scuola assorbivano tutto il mio tempo.
Anche lui, poi, smise di passare, ogni tanto ci sentivamo per gli auguri di natale o capodanno poi più nulla. Seppi da un giornale locale che un infarto se lo portò via una notte d'agosto.
Un collega prese il suo posto, Marco Calvini.
Incontrai casualmente Marco in un centro commerciale, dopo un po' che stavamo chiacchierando mi confidò che, a suo parere, sarei dovuto essere io al suo posto, conoscendolo mi stava dicendo qualcosa che pensava davvero e la cosa mi fece naturalmente molto piacere, un sincero complimento da un fisico di valore.
Non lo ammisi, né a lui, né a me stesso, ma già allora le cose non stavano andando come previsto.
Dei tanti studenti che avevo visto passare fino a quel momento, solo quattro, almeno di quelli di cui ero a conoscenza, si erano iscritti in fisica e solo uno era arrivato alla laurea per poi diventare, anche lui, insegnante.
Non avevo scoperto nessun Fermi, non avevo, per quanto ne sapevo, creato nessuna nuova generazione di amanti della fisica, insomma fino a quel momento un vero fallimento su tutto il programma, ma di certo a Marco questo... non è che non potevo dirglielo ma non volevo dirglielo... non volevo ammetterlo neanche a me stesso figuriamoci a dirlo a lui.
Un giorno venne il padre di una ragazza che aveva preso un brutto voto, mi ero impegnato per spiegarle, impiegando del tempo al di fuori dell'orario di lezione, le basi della fisica, ma lei, anche se a parole si diceva interessata, non voleva imparare un bel nulla.
Il padre me ne disse di tutti i colori, incolpandomi delle carenze della figlia.
A nulla valse fargli presente che, per il bene della figlia, mi ero impegnato anche oltre il mio dovere.
Cercai, anche se avrei voluto mettergli le mani addosso e lanciarlo verso la finestra, di mantenere la calma lui invece continuò, ad un certo punto fu lui che mi mise le mani addosso.
Ero in piedi chiedendo al tipo la cortesia di abbassare la voce e magari di tornare quando era più calmo, il tipo, invece, fece partire due sonori schiaffoni che mi mandarono a terra, mi alzai con l'intento di prenderlo a pedate, solo l'intervento dei colleghi che allontanarono l'esagitato si scongiurò il peggio.
La cosa finì in tribunale.
Cambiai successivamente Istituto, pensai che il cambio potesse farmi trovare un ambiente migliore e forse anche più stimoli per andare avanti.
Invece non fu così, il nuovo Istituto era la “fotocopia” del precedente, anzi i genitori esagitati, non presi più ceffoni ma incontrai spesso gente che alzava volentieri la voce, divennero quasi una prassi.
Diventai sempre più nervoso, gli sforzi per presentare una fisica a misura di ragazzo/a si ridussero a zero, facevo la mia lezione senza stare li a controllare se mi seguivano o meno.
Lo stress mi stava distruggendo, mangiavo male, ero sempre distratto e divenni scontroso con Chiara, mia moglie.
Alla fine: il re è nudo. Anche se era evidente da tempo, era giunto il momento di ammetterlo.
Fare l'insegnante mi stava logorando, o meglio il non aver raggiunto, neanche minimamente, gli obbiettivi che mi avevano portato a fare quella scelta a discapito di una brillante carriera nel mondo della fisica mi aveva “buttato giù” in modo pesante.
Chiara, che era figlia unica, mi disse che i genitori erano d'accordo nel lasciarle, già da quel momento, la baita in montagna e i 22 ettari di terreno sparsi nella nostra provincia.
“ Giulio, facciamo così... vendiamo la baita, alcuni terreni e ti ritiri. Tanto l'abbiamo capito … penso che sia la cosa più giusta da fare” mi disse Chiara, rimasi senza parole.
Ci pensai tutta la notte e alla fine accettai.
I colleghi rimasero di sasso.
La cosa buffa, se così vogliamo dire, è che non si preoccuparono dei ragazzi ma: Così perdi la pensione, era il commento più ricorrente.
Non poteva essere che avevo sprecato la mia vita.
“Avrò pur fatto qualcosa di buono nel aver fatto l'insegnante” mi ripetevo continuamente ma trovavo molta difficoltà a darmi una risposta positiva.
Si ruppe un bagno, chiamai l'idraulico e venne questo ragazzo che riconobbi essere stato un mio studente, anche bravino; cercai di capire se mi aveva riconosciuto, sembrava di no, allora andai diretto e gli chiesi se si ricordava di me lui mi disse di no, ci rimasi malissimo.
L'altro giorno ho sognato mio padre, era seduto su una vecchia sedia dal fondo in paglia, all'interno di una stanza vuota. Mi sono avvicinato a lui, non so da dove è apparsa un'altra sedia e mi sono seduto anch'io, lui non diceva nulla, poi... poi mi sono scusato per tutto quello che gli avevo fatto passare e gli ho detto che aveva ragione lui, l'aveva vista giusta... chiedevo ancora scusa anche se tardivamente. Lui mi ha guardato, ha sorriso, si è alzato, si è avvicinato a me toccandomi una spalla prima di allontanarsi. Mi aveva perdonato.
Non ho mai potuto dirglielo, ma, anche se non è certo la stessa cosa, averglielo potuto dire in sogno è stato per me molto importante, mi ha fatto sentire bene il fatto di essermi potuto in qualche modo scusare con lui.
Scoprì che il collega che era stato preso al mio posto nella Hopkins University aveva preso il posto del Professor Logan. Ci sarei dovuto essere io al suo posto.
Quando lessi la notizia non riuscì a trattenere le lacrime, erano lacrime di rabbia, dettate dalla convinzione di aver buttato al vento una carriera che mi avrebbe sicuramente dato più soddisfazioni che andare dietro ad un sogno, a... non lo so neanch'io cosa.
Oramai era troppo tardi per rimediare.
Racconto scritto il 17/06/2020 - 16:59
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