Claudio lasciò i comandi e chiese: “Vedetta, quanto dista la base spaziale?!”.
Mario si sporse in avanti, per scrutare meglio l’orizzonte, poi cavò dalla tasca un foglio sgualcito, lo esaminò con cura e rispose: “Meno di duemila anni luce, signore!”.
Soddisfatto dalla risposta, Claudio si voltò verso di me e sibilò: “Tracce di alieni?”.
“Nessuna, signore!”.
Adolfo, relegato sul modulo lunare agganciato all’astronave, aggiunse: “Anche qui nessun alieno!”.
E invece gli alieni c’erano eccome. Si erano mutati ed avevano preso le sembianze dello zio Gigetto.
Presto la loro presenza si manifestò: “Maledetti imbecilli!”, urlò a squarciagola lo zio Gigetto, “Scendete da quel cavolo di trattore prima scassarlo del tutto!”.
Anche stavolta ci aveva scoperti. Non ci restava altro da fare che sbarcare dall’astronave e tornarcene a giocare in giro per la cascina.
Lo zio Gigetto abitava in una piccola cascina sul limitare dal paese. Si leggeva cascina ma, in realtà, quella sembrava più una discarica. Aveva una forma malsana e l’edificio principale era vecchio, con l’intonaco cadente che piangeva tutta la sua disperazione. Il tetto era pieno di buchi, rabberciati alla meglio con pezzi di lamiera, e il porticato era in parte pericolante, con i mattoni chiazzati dal tempo e dall’umidità e l’edera che se lo mangiava piano.
Nel cortile regnava l’anarchia: mobili sfondati, cataste di legna, bidoni vuoti di cherosene, damigiane, casse di bottiglie, bombole di gas, altra immondizia varia e, persino, una vecchia 500, arrugginita e priva di ruote, erano abbandonati alla rinfusa a formare un labirinto impenetrabile e davvero stomachevole.
L’unico fabbricato abbastanza decente sembrava essere la rimessa, che lo zio Gigetto utilizzava come deposito per il trattore, il carro e tutti gli altri attrezzi agricoli, più un intruglio inimmaginabile di utensili vari, ferraglia ed elettrodomestici defunti. Il piano superiore fungeva da fienile dove si accatastava il fieno che poi lo zio Gigetto vendeva ad altri allevatori, considerato che lui non possedeva bestiame.
L’entrata era costituita da un grosso portone in legno tarlato che cadeva a pezzi e scricchiolava sempre a causa del vento, con la serratura arrugginita ad indicare che non si sarebbe chiuso mai più.
L’interno era mite ed accogliente come una base militare in Afghanistan. L’aria vibrava di un silenzio innaturale e l’odore pungente di legno marcio, ruggine, muffa e tarme sanguinava nelle narici e scavava i polmoni.
In mezzo al disordine totale, nidi di topi, insetti morti, ragnatele, tarme e tanta sporcizia.
In un angolo, seminascosta, c’era una vecchia poltrona, che aveva ormai da tempo partorito tutta l’imbottitura, accanto ad un tavolo con tre sole gambe. Lì lo zio Gigetto, nascosto da quel cumulo impressionante di ciarpame, si ritirava spesso a perfezionare il livello dei bottiglioni o trafficare con certe riviste patinate.
Tutta quella fatiscenza, che avrebbe retto onorevolmente il confronto con la più orrenda baraccopoli odierna, non ci impressionava più di tanto. Tutte le volte che entravamo in quel cortile per noi era come entrare in un’altra dimensione attraverso un cancello magico. Non rendeva certo l’immagine di ordine e pulizia, quel posto, ma offriva tante possibilità per divertirsi.
E a noi bastava poco, allora, per radunare tutta la nostra felicità infinita e proteggerla. Anche in mezzo a tutto quel degrado.
A volte giocavamo agli esploratori, in mezzo alle cianfrusaglie del cortile altre, invece, salivamo sul fienile e saltavamo di sotto, dentro il mucchio di fieno ancora da accatastare. Quando saltavamo giù da quella meraviglia di rifugio, sembrava di lanciarsi da un elicottero, come in quei film dove cercano di salvare qualcuno da un’inondazione. Non smettevamo più di salire e scendere. Per ore non facevamo altro.
Ma la l’oggetto segreto delle nostre voglie nascoste restava sempre il trattore.
Lo zio Gigetto possedeva un trattore Fiat 316R che faceva un po’ meno fumo ed un po’ meno rumore di una locomotiva a vapore. Era così vecchio che non si sapeva bene se dovesse tirare le cuoia prima lui o il suo proprietario.
Quando lo si vedeva passare in paese, sempre scoppiettando e a tutta velocità, le donne si facevano il segno della croce mentre gli uomini scuotevano la testa e scommettevano su quanti pezzi avrebbe perso per strada prima di girare alla curva del fornaio.
Se solo avessimo potuto salirci! E, magari, accenderlo, anche solo per un attimo. Non dico farlo muovere, quello no, ma solo accenderlo un pochino, per gustarne le vibrazioni ed ammirare le nuvole di fumaccio nero sputate fuori dallo scappamento corroso.
Ma, per quanti sforzi facessimo, per quante preghiere gli indirizzassimo, lo zio Gigetto era irremovibile.
Solo Claudio poteva, sporadicamente, salirci e metterlo in moto. Lo zio Gigetto gli aveva insegnato i comandi e, a volte, quando tornava dai campi, se era troppo stanco o troppo ubriaco, mollava il trattore in cortile e ordinava a Claudio di ricoverarlo nella rimessa.
Era un tragitto di pochi metri ma a Claudio sembrava di toccare il Paradiso con un dito.
Noi, invece, eravamo condannati in eterno ad invidiare il nostro amico al volante e tenerci a distanza, zitti e buoni, come un cucciolo davanti ad un cane grosso.
Ma un pomeriggio, lo zio Gigetto, uscito di casa, cacciò un urlo ed ordinò di avvicinarci.
"L’altro giorno ho tagliato l’erba nel campo vicino alla chiusa….”, biascicò, “Ora è bella secca ed è pronta per essere raccolta!”.
Ognuno di noi assunse una perfetta espressione da ebete. Ci guardammo in faccia senza riuscire a capire cosa volesse dirci. I casi erano due: o al bar aveva esagerato con gli aperitivi, o a pranzo aveva tolto il freno al bottiglione.
Claudio prese timidamente la parola: “Va bene, zio, vuol dire che, quando tornerai con il carico, ti aiuteremo a portarlo sul fienile….”.
"Devo andare di corsa al Consorzio Agrario e non ho tempo!”, sbottò lo zio Gigetto, “A raccogliere il fieno ci andrete voi!”.
Non ci potevamo credere! Lo zio Gigetto ci permetteva di fare un tragitto vero e proprio a bordo del trattore. Da soli!
Ne avrei avute di cose da raccontare ai miei amici in città alla ripresa dell’anno scolastico!
Claudio aveva 13 anni ed era il più vecchio, a scalare seguivamo Mario ed io. Più distaccato, chiudeva Adolfo con i suoi 8 anni. Il tragitto fino al campo poteva essere lungo si e no circa cinquecento metri, di cui quasi metà in strada sterrata. A quel tempo le auto in paese si contavano su due dita di una mano, i Vigili Urbani erano roba di città e i Carabinieri ogni tanto passavano e ogni tanto no.
“E mi raccomando!”, minacciò poi, “Raccoglietelo tutto perché passerà De Giorgis con il camioncino a prenderselo!”, quindi avviò quella che poteva sembrare una Fiat 126 e scomparve sferragliando nelle campagne.
L’eccitazione aumentò: De Giorgis era il padrone di un grosso podere e aveva un sacco di bestie. Avrebbe pagato più che bene quel fieno e questo significava che qualcosa sarebbe arrivata pure a noi. Magari non del denaro, quello no perché, da quel lato, lo zio Gigetto dava lezioni persino agli Scozzesi, però un bicchiere di aranciata semi-fresca o un bel gelato non ce li avrebbe levati nessuno.
Ma, alla fine, denaro, aranciate e gelati contavano poco: per noi la ricompensa più grande era quella di andare da soli sul trattore a fare un mestiere da grandi. I miei amici in città sarebbero morti di invidia.
Una volta rimasti soli Claudio, anziché elaborare un piano giudizioso per portare a termine il compito assegnato, si fece prendere da pericolose manie di grandezza.
“Voglio fare una partenza stile Gran Premio!”, annunciò al resto della truppa che lo stava ammirando come una divinità. Nessuno obiettò ed accettammo la decisione senza fiatare. Il capo designato adesso era lui e se volevamo farci un bel viaggetto sul trattore non avevamo altra scelta che obbedir tacendo, anche a costo di giocarci l’osso del collo.
Il cortile era abbastanza lungo per prendere una bella rincorsa. Sgomberammo in fretta un po’ di cianfrusaglie e preparammo la pista di lancio. Dovevamo solo stare attenti ad uscire dal cancello perché là c’era la strada asfaltata e qualche auto poteva passare. Inoltre, in quel punto, la strada disegnava una brutta curva a gomito che ostacolava parecchio la visibilità: ci voleva per forza qualcuno che buttasse un occhio e desse il via libera.
Claudio studiò attentamente la cosa e modificò di poco il piano: una volta dato il segnale di partenza, sarebbe uscito dal cortile a razzo e avrebbe percorso la curva a gomito cercando di non finire fuori strada, quindi si sarebbe fermato e avrebbe raccolto me e Adolfo per proseguire a tutta birra alla volta del campo.
Poi accese il trattore e lo portò fuori dalla rimessa. Mario agganciò il carro.
Quindi si portò in fondo al cortile e Mario prese posto sul carro.
Adolfo con la velocità e l’agilità di uno scoiattolo scalò l’alto platano che stava in cortile. Da lassù poteva tenere d’occhio non solo la strada ma anche mezza provincia. Io, che ero stato nominato starter, mi posizionai in mezzo al cortile.
Il cielo era una distesa d’argento che abbracciava il paese deserto, sprofondato nel sonno del pomeriggio.
Intorno, ettari su ettari di campagna rovente.
Dal cofano del vecchio trattore saliva un brontolio sordo e feroce. In attesa del via Claudio tormentava il povero motore sgasando e giocando con la frizione.
Tutto sembrava tranquillo. Non lo era.
Dopo alcuni minuti, che sembrarono un’eternità, Adolfo, da lassù, fece il segnale di via libera. Abbassai il braccio e urlai “Via!!!”, con tutto il fiato che avevo in gola.
Claudio pigiò al massimo sull’acceleratore e nel cortile si scatenò l’inferno.
Il trattore prima muggì, poi ululò e quindi volò via sgommando e sollevando un nugolo di terriccio e sassi.
Varcò il cancello a velocità supersonica, in una nuvola di polvere, fumo e terra, mentre lo spostamento d’aria faceva tremare i vetri della casa.
Fino a lì tutto bene. Claudio stava riuscendo veramente a fare una partenza da Gran Premio.
Ma, come dice il saggio, bastano pochi ingredienti per sfornare un disastro.
Nel nostro caso ne bastò uno solo.
Mario, nella fretta di agganciare il carro, si era dimenticato di fissare il fermo al perno del gancio. In condizioni normali quella non sarebbe stata una grave dimenticanza, per noi, invece, risultò fatale visto che Claudio, appena varcato il cancello a tutta velocità, centrò in pieno una buca.
Il contraccolpo che ne seguì sbalzò via il perno e, mentre il trattore superava in velocità la curva a gomito, con una tenuta di strada da lasciare allibiti anche i più esperti piloti di Formula 1, il carro, liberato dal gancio, se ne filava via dritto, attraversava la strada, tagliava l’orto dei Rovani, portandosi via la rete metallica e metà della verdura, e terminava la sua corsa piombando nel canale di scolo, con Mario sopra.
Il tutto accadde in un attimo ma ricordo ancora perfettamente che Mario non tentò nemmeno di buttarsi giù quando vide la fine che stava per fare. Come un valoroso capitano rimase a bordo fino all’ultimo ed affondò impavido con la sua nave.
E anche dopo tutti questi anni mi piace pensare che non fu la paura ad impedirgli di saltare. Sentendosi responsabile del disastro Mario preferì, con onore, espiare la sua colpa finendo a mollo nell’acqua e nei liquami.
Adolfo volò giù dal platano. Io mi precipitai sul luogo dell’affondamento, ma poi cambiai idea e tornai indietro. Bisognava assolutamente correre a recuperare Claudio che, non accortosi di nulla, stava continuando a rombare allegramente per la strada.
Agguantai la bicicletta e mi gettai all’inseguimento. La strada era una lingua rovente di canicola, pozzanghere di arsura, allucinazione liquide, si aprivano sull’asfalto come bocche di catrame.
Lo raggiunsi che era quasi arrivato al campo. Avevo la lingua che toccava terra e il cuore che voleva uscirmi dalla bocca. Per farlo fermare, visto che il rombo del motore, al massimo dei giri, copriva i miei urli, quasi mi buttai sotto le ruote. Appena mi fui ripreso indicai la parte posteriore del trattore e lo invitai a verificare se, secondo lui, fosse tutto in ordine.
La faccia di Claudio non aveva mai sprizzato particolare intelligenza, ma in quell’istante sembrò quella di un perfetto idiota. Snocciolando una serie irripetibile di imprecazioni fece manovra e tornò indietro. Io lo seguii attaccandomi al parafango e facendomi trainare.
Mario, intanto, era riuscito a risalire da solo l’argine. Ci concentrammo sul problema del carro.
“Beh, potremmo tirarlo su noi….”, esordì Adolfo e la cosa ci parve possibile tanto quanto il fatto che ci crescessero le ali, la coda ed un rubinetto d'acciaio zincato sulla fronte.
Il carro era finito nel canale con tutte e quattro le ruote: per tirarlo fuori ci voleva per forza una gru.
“Chiediamo aiuto al papà di Gigi!”, suggerì Mario. Buona idea: il vecchio Foschi, uno dei tanti proprietari terrieri del paese, possedeva una piccola gru. Io e Claudio marciammo verso la sua tenuta. Adolfo rimase a fare la guardia alla cascina e Mario, che era bagnato fradicio e non odorava certo di verbena, venne nascosto a forza sotto il portico.
Fummo fortunati perché trovammo il vecchio Foschi praticamente subito: se ne stava spaparanzato all’ombra fuori dal bar a fare un emerito tubo. La nostra fortuna, però, finì lì perché, insieme a lui, c’erano anche quattro o cinque avvinazzati del posto e così la notizia di quello che era successo finì in un battibaleno sulla bocca di tutti.
E quando, dopo circa mezz’ora, il vecchio Foschi arrivò, con trattore e gru, dietro c’era praticamente mezzo paese che sghignazzava e lanciava commenti irripetibili.
Avevamo appena finito il recupero quando, all’improvviso, lo zio Gigetto tornò.
Nel vedere quell’assembramento di gente mollò l’auto e si fiondò a vedere cosa era successo. E quando lo vide, per prima cosa sparò un’orrenda bestemmia, poi andò a cercare Claudio per fare giustizia sommaria.
Lo stava quasi per acciuffare quando incrociò la mamma di Mario di ritorno dalla bottega e le raccontò tutto. terminato il racconto la mamma di Mario lasciò cadere la bicicletta e corse a stanare il figlio per linciarlo a dovere.
Mario, a quel punto, stabilì che era meglio cambiare aria e sgattaiolò fuori dal portico. Ma sua mamma lo scoprì e si mise a rincorrerlo. Anche Claudio partì in quarta per suonargliele dato che tutto quel disastro era successo per colpa sua.
Nel frattempo il vecchio Foschi aveva bloccato lo zio Gigetto e, a gran voce, pretendeva il pagamento del servizio di recupero. Al solo pensiero di dover sborsare dei soldi, lo zio Gigetto si mise a urlare e giurò che, piuttosto, si sarebbe fatto accoppare.
Il vecchio Foschi, allora, lo minacciò con una grossa chiave inglese ma, per un pelo, non finì sotto le ruote del camioncino di De Giorgis, che era arrivato per caricare il fieno che lo zio Gigetto doveva consegnargli.
Non appena De Giorgis seppe che il fieno, che aveva pagato profumatamente ed in anticipo, non c’era, reclamò la restituzione del denaro e, ricevendo puntualmente un netto rifiuto, prese il crick dalla cabina del camion e si unì al vecchio Foschi nell’intento di modificare i tratti somatici dello zio Gigetto.
Dulcis in fundo, sopraggiunse, ruggendo, Rovani con in mano una grossa mazza da demolizioni, deciso a farsi risarcire i danni del suo orto.
“Peccato che sia finita così….”, sospirò Adolfo nel trambusto generale, “Mi sarebbe tanto piaciuto vederlo, il Gran Premio!”.
Diedi un’occhiata all’assembramento e lo tranquillizzai, “Aspetta e vedrai….!”.
In una frazione di secondo Mario se la diede a gambe levate, inseguito da sua mamma e da Claudio. Dietro, a tallonarli, lo zio Gigetto che rincorreva Claudio, ma che, a sua volta, era rincorso dal vecchio Foschi e, ad un paio di lunghezze, da De Giorgis. Più distaccato, incalzava Rovani al quale non importava chi fosse stato a patto che qualcuno gli ripagasse i danni.
Chiudeva la corsa il gruppone dei curiosi, ansiosi di vedere chi ci avrebbe lasciato le penne per primo.
Presi la bicicletta ed uscii dal cancello, consapevole che, per un bel pezzo, il trattore, ma anche i giochi nella cascina dello zio Gigetto, ce li saremmo potuti scordare.
“Hai visto?”, chiesi ad Adolfo, “Ecco il Gran Premio!”.
Adolfo sorrise soddisfatto e ritornò in cima al platano per godersi meglio tutto lo spettacolo.
Sui campi dorati risplendeva accecante il sole estivo e il cielo era un oceano azzurro che rifletteva l’ebbrezza dei miei sogni.
Montai sulla bici e pedalai verso casa, mentre il serpentone urlante si perdeva nell’immensità dei campi.
Mario si sporse in avanti, per scrutare meglio l’orizzonte, poi cavò dalla tasca un foglio sgualcito, lo esaminò con cura e rispose: “Meno di duemila anni luce, signore!”.
Soddisfatto dalla risposta, Claudio si voltò verso di me e sibilò: “Tracce di alieni?”.
“Nessuna, signore!”.
Adolfo, relegato sul modulo lunare agganciato all’astronave, aggiunse: “Anche qui nessun alieno!”.
E invece gli alieni c’erano eccome. Si erano mutati ed avevano preso le sembianze dello zio Gigetto.
Presto la loro presenza si manifestò: “Maledetti imbecilli!”, urlò a squarciagola lo zio Gigetto, “Scendete da quel cavolo di trattore prima scassarlo del tutto!”.
Anche stavolta ci aveva scoperti. Non ci restava altro da fare che sbarcare dall’astronave e tornarcene a giocare in giro per la cascina.
Lo zio Gigetto abitava in una piccola cascina sul limitare dal paese. Si leggeva cascina ma, in realtà, quella sembrava più una discarica. Aveva una forma malsana e l’edificio principale era vecchio, con l’intonaco cadente che piangeva tutta la sua disperazione. Il tetto era pieno di buchi, rabberciati alla meglio con pezzi di lamiera, e il porticato era in parte pericolante, con i mattoni chiazzati dal tempo e dall’umidità e l’edera che se lo mangiava piano.
Nel cortile regnava l’anarchia: mobili sfondati, cataste di legna, bidoni vuoti di cherosene, damigiane, casse di bottiglie, bombole di gas, altra immondizia varia e, persino, una vecchia 500, arrugginita e priva di ruote, erano abbandonati alla rinfusa a formare un labirinto impenetrabile e davvero stomachevole.
L’unico fabbricato abbastanza decente sembrava essere la rimessa, che lo zio Gigetto utilizzava come deposito per il trattore, il carro e tutti gli altri attrezzi agricoli, più un intruglio inimmaginabile di utensili vari, ferraglia ed elettrodomestici defunti. Il piano superiore fungeva da fienile dove si accatastava il fieno che poi lo zio Gigetto vendeva ad altri allevatori, considerato che lui non possedeva bestiame.
L’entrata era costituita da un grosso portone in legno tarlato che cadeva a pezzi e scricchiolava sempre a causa del vento, con la serratura arrugginita ad indicare che non si sarebbe chiuso mai più.
L’interno era mite ed accogliente come una base militare in Afghanistan. L’aria vibrava di un silenzio innaturale e l’odore pungente di legno marcio, ruggine, muffa e tarme sanguinava nelle narici e scavava i polmoni.
In mezzo al disordine totale, nidi di topi, insetti morti, ragnatele, tarme e tanta sporcizia.
In un angolo, seminascosta, c’era una vecchia poltrona, che aveva ormai da tempo partorito tutta l’imbottitura, accanto ad un tavolo con tre sole gambe. Lì lo zio Gigetto, nascosto da quel cumulo impressionante di ciarpame, si ritirava spesso a perfezionare il livello dei bottiglioni o trafficare con certe riviste patinate.
Tutta quella fatiscenza, che avrebbe retto onorevolmente il confronto con la più orrenda baraccopoli odierna, non ci impressionava più di tanto. Tutte le volte che entravamo in quel cortile per noi era come entrare in un’altra dimensione attraverso un cancello magico. Non rendeva certo l’immagine di ordine e pulizia, quel posto, ma offriva tante possibilità per divertirsi.
E a noi bastava poco, allora, per radunare tutta la nostra felicità infinita e proteggerla. Anche in mezzo a tutto quel degrado.
A volte giocavamo agli esploratori, in mezzo alle cianfrusaglie del cortile altre, invece, salivamo sul fienile e saltavamo di sotto, dentro il mucchio di fieno ancora da accatastare. Quando saltavamo giù da quella meraviglia di rifugio, sembrava di lanciarsi da un elicottero, come in quei film dove cercano di salvare qualcuno da un’inondazione. Non smettevamo più di salire e scendere. Per ore non facevamo altro.
Ma la l’oggetto segreto delle nostre voglie nascoste restava sempre il trattore.
Lo zio Gigetto possedeva un trattore Fiat 316R che faceva un po’ meno fumo ed un po’ meno rumore di una locomotiva a vapore. Era così vecchio che non si sapeva bene se dovesse tirare le cuoia prima lui o il suo proprietario.
Quando lo si vedeva passare in paese, sempre scoppiettando e a tutta velocità, le donne si facevano il segno della croce mentre gli uomini scuotevano la testa e scommettevano su quanti pezzi avrebbe perso per strada prima di girare alla curva del fornaio.
Se solo avessimo potuto salirci! E, magari, accenderlo, anche solo per un attimo. Non dico farlo muovere, quello no, ma solo accenderlo un pochino, per gustarne le vibrazioni ed ammirare le nuvole di fumaccio nero sputate fuori dallo scappamento corroso.
Ma, per quanti sforzi facessimo, per quante preghiere gli indirizzassimo, lo zio Gigetto era irremovibile.
Solo Claudio poteva, sporadicamente, salirci e metterlo in moto. Lo zio Gigetto gli aveva insegnato i comandi e, a volte, quando tornava dai campi, se era troppo stanco o troppo ubriaco, mollava il trattore in cortile e ordinava a Claudio di ricoverarlo nella rimessa.
Era un tragitto di pochi metri ma a Claudio sembrava di toccare il Paradiso con un dito.
Noi, invece, eravamo condannati in eterno ad invidiare il nostro amico al volante e tenerci a distanza, zitti e buoni, come un cucciolo davanti ad un cane grosso.
Ma un pomeriggio, lo zio Gigetto, uscito di casa, cacciò un urlo ed ordinò di avvicinarci.
"L’altro giorno ho tagliato l’erba nel campo vicino alla chiusa….”, biascicò, “Ora è bella secca ed è pronta per essere raccolta!”.
Ognuno di noi assunse una perfetta espressione da ebete. Ci guardammo in faccia senza riuscire a capire cosa volesse dirci. I casi erano due: o al bar aveva esagerato con gli aperitivi, o a pranzo aveva tolto il freno al bottiglione.
Claudio prese timidamente la parola: “Va bene, zio, vuol dire che, quando tornerai con il carico, ti aiuteremo a portarlo sul fienile….”.
"Devo andare di corsa al Consorzio Agrario e non ho tempo!”, sbottò lo zio Gigetto, “A raccogliere il fieno ci andrete voi!”.
Non ci potevamo credere! Lo zio Gigetto ci permetteva di fare un tragitto vero e proprio a bordo del trattore. Da soli!
Ne avrei avute di cose da raccontare ai miei amici in città alla ripresa dell’anno scolastico!
Claudio aveva 13 anni ed era il più vecchio, a scalare seguivamo Mario ed io. Più distaccato, chiudeva Adolfo con i suoi 8 anni. Il tragitto fino al campo poteva essere lungo si e no circa cinquecento metri, di cui quasi metà in strada sterrata. A quel tempo le auto in paese si contavano su due dita di una mano, i Vigili Urbani erano roba di città e i Carabinieri ogni tanto passavano e ogni tanto no.
“E mi raccomando!”, minacciò poi, “Raccoglietelo tutto perché passerà De Giorgis con il camioncino a prenderselo!”, quindi avviò quella che poteva sembrare una Fiat 126 e scomparve sferragliando nelle campagne.
L’eccitazione aumentò: De Giorgis era il padrone di un grosso podere e aveva un sacco di bestie. Avrebbe pagato più che bene quel fieno e questo significava che qualcosa sarebbe arrivata pure a noi. Magari non del denaro, quello no perché, da quel lato, lo zio Gigetto dava lezioni persino agli Scozzesi, però un bicchiere di aranciata semi-fresca o un bel gelato non ce li avrebbe levati nessuno.
Ma, alla fine, denaro, aranciate e gelati contavano poco: per noi la ricompensa più grande era quella di andare da soli sul trattore a fare un mestiere da grandi. I miei amici in città sarebbero morti di invidia.
Una volta rimasti soli Claudio, anziché elaborare un piano giudizioso per portare a termine il compito assegnato, si fece prendere da pericolose manie di grandezza.
“Voglio fare una partenza stile Gran Premio!”, annunciò al resto della truppa che lo stava ammirando come una divinità. Nessuno obiettò ed accettammo la decisione senza fiatare. Il capo designato adesso era lui e se volevamo farci un bel viaggetto sul trattore non avevamo altra scelta che obbedir tacendo, anche a costo di giocarci l’osso del collo.
Il cortile era abbastanza lungo per prendere una bella rincorsa. Sgomberammo in fretta un po’ di cianfrusaglie e preparammo la pista di lancio. Dovevamo solo stare attenti ad uscire dal cancello perché là c’era la strada asfaltata e qualche auto poteva passare. Inoltre, in quel punto, la strada disegnava una brutta curva a gomito che ostacolava parecchio la visibilità: ci voleva per forza qualcuno che buttasse un occhio e desse il via libera.
Claudio studiò attentamente la cosa e modificò di poco il piano: una volta dato il segnale di partenza, sarebbe uscito dal cortile a razzo e avrebbe percorso la curva a gomito cercando di non finire fuori strada, quindi si sarebbe fermato e avrebbe raccolto me e Adolfo per proseguire a tutta birra alla volta del campo.
Poi accese il trattore e lo portò fuori dalla rimessa. Mario agganciò il carro.
Quindi si portò in fondo al cortile e Mario prese posto sul carro.
Adolfo con la velocità e l’agilità di uno scoiattolo scalò l’alto platano che stava in cortile. Da lassù poteva tenere d’occhio non solo la strada ma anche mezza provincia. Io, che ero stato nominato starter, mi posizionai in mezzo al cortile.
Il cielo era una distesa d’argento che abbracciava il paese deserto, sprofondato nel sonno del pomeriggio.
Intorno, ettari su ettari di campagna rovente.
Dal cofano del vecchio trattore saliva un brontolio sordo e feroce. In attesa del via Claudio tormentava il povero motore sgasando e giocando con la frizione.
Tutto sembrava tranquillo. Non lo era.
Dopo alcuni minuti, che sembrarono un’eternità, Adolfo, da lassù, fece il segnale di via libera. Abbassai il braccio e urlai “Via!!!”, con tutto il fiato che avevo in gola.
Claudio pigiò al massimo sull’acceleratore e nel cortile si scatenò l’inferno.
Il trattore prima muggì, poi ululò e quindi volò via sgommando e sollevando un nugolo di terriccio e sassi.
Varcò il cancello a velocità supersonica, in una nuvola di polvere, fumo e terra, mentre lo spostamento d’aria faceva tremare i vetri della casa.
Fino a lì tutto bene. Claudio stava riuscendo veramente a fare una partenza da Gran Premio.
Ma, come dice il saggio, bastano pochi ingredienti per sfornare un disastro.
Nel nostro caso ne bastò uno solo.
Mario, nella fretta di agganciare il carro, si era dimenticato di fissare il fermo al perno del gancio. In condizioni normali quella non sarebbe stata una grave dimenticanza, per noi, invece, risultò fatale visto che Claudio, appena varcato il cancello a tutta velocità, centrò in pieno una buca.
Il contraccolpo che ne seguì sbalzò via il perno e, mentre il trattore superava in velocità la curva a gomito, con una tenuta di strada da lasciare allibiti anche i più esperti piloti di Formula 1, il carro, liberato dal gancio, se ne filava via dritto, attraversava la strada, tagliava l’orto dei Rovani, portandosi via la rete metallica e metà della verdura, e terminava la sua corsa piombando nel canale di scolo, con Mario sopra.
Il tutto accadde in un attimo ma ricordo ancora perfettamente che Mario non tentò nemmeno di buttarsi giù quando vide la fine che stava per fare. Come un valoroso capitano rimase a bordo fino all’ultimo ed affondò impavido con la sua nave.
E anche dopo tutti questi anni mi piace pensare che non fu la paura ad impedirgli di saltare. Sentendosi responsabile del disastro Mario preferì, con onore, espiare la sua colpa finendo a mollo nell’acqua e nei liquami.
Adolfo volò giù dal platano. Io mi precipitai sul luogo dell’affondamento, ma poi cambiai idea e tornai indietro. Bisognava assolutamente correre a recuperare Claudio che, non accortosi di nulla, stava continuando a rombare allegramente per la strada.
Agguantai la bicicletta e mi gettai all’inseguimento. La strada era una lingua rovente di canicola, pozzanghere di arsura, allucinazione liquide, si aprivano sull’asfalto come bocche di catrame.
Lo raggiunsi che era quasi arrivato al campo. Avevo la lingua che toccava terra e il cuore che voleva uscirmi dalla bocca. Per farlo fermare, visto che il rombo del motore, al massimo dei giri, copriva i miei urli, quasi mi buttai sotto le ruote. Appena mi fui ripreso indicai la parte posteriore del trattore e lo invitai a verificare se, secondo lui, fosse tutto in ordine.
La faccia di Claudio non aveva mai sprizzato particolare intelligenza, ma in quell’istante sembrò quella di un perfetto idiota. Snocciolando una serie irripetibile di imprecazioni fece manovra e tornò indietro. Io lo seguii attaccandomi al parafango e facendomi trainare.
Mario, intanto, era riuscito a risalire da solo l’argine. Ci concentrammo sul problema del carro.
“Beh, potremmo tirarlo su noi….”, esordì Adolfo e la cosa ci parve possibile tanto quanto il fatto che ci crescessero le ali, la coda ed un rubinetto d'acciaio zincato sulla fronte.
Il carro era finito nel canale con tutte e quattro le ruote: per tirarlo fuori ci voleva per forza una gru.
“Chiediamo aiuto al papà di Gigi!”, suggerì Mario. Buona idea: il vecchio Foschi, uno dei tanti proprietari terrieri del paese, possedeva una piccola gru. Io e Claudio marciammo verso la sua tenuta. Adolfo rimase a fare la guardia alla cascina e Mario, che era bagnato fradicio e non odorava certo di verbena, venne nascosto a forza sotto il portico.
Fummo fortunati perché trovammo il vecchio Foschi praticamente subito: se ne stava spaparanzato all’ombra fuori dal bar a fare un emerito tubo. La nostra fortuna, però, finì lì perché, insieme a lui, c’erano anche quattro o cinque avvinazzati del posto e così la notizia di quello che era successo finì in un battibaleno sulla bocca di tutti.
E quando, dopo circa mezz’ora, il vecchio Foschi arrivò, con trattore e gru, dietro c’era praticamente mezzo paese che sghignazzava e lanciava commenti irripetibili.
Avevamo appena finito il recupero quando, all’improvviso, lo zio Gigetto tornò.
Nel vedere quell’assembramento di gente mollò l’auto e si fiondò a vedere cosa era successo. E quando lo vide, per prima cosa sparò un’orrenda bestemmia, poi andò a cercare Claudio per fare giustizia sommaria.
Lo stava quasi per acciuffare quando incrociò la mamma di Mario di ritorno dalla bottega e le raccontò tutto. terminato il racconto la mamma di Mario lasciò cadere la bicicletta e corse a stanare il figlio per linciarlo a dovere.
Mario, a quel punto, stabilì che era meglio cambiare aria e sgattaiolò fuori dal portico. Ma sua mamma lo scoprì e si mise a rincorrerlo. Anche Claudio partì in quarta per suonargliele dato che tutto quel disastro era successo per colpa sua.
Nel frattempo il vecchio Foschi aveva bloccato lo zio Gigetto e, a gran voce, pretendeva il pagamento del servizio di recupero. Al solo pensiero di dover sborsare dei soldi, lo zio Gigetto si mise a urlare e giurò che, piuttosto, si sarebbe fatto accoppare.
Il vecchio Foschi, allora, lo minacciò con una grossa chiave inglese ma, per un pelo, non finì sotto le ruote del camioncino di De Giorgis, che era arrivato per caricare il fieno che lo zio Gigetto doveva consegnargli.
Non appena De Giorgis seppe che il fieno, che aveva pagato profumatamente ed in anticipo, non c’era, reclamò la restituzione del denaro e, ricevendo puntualmente un netto rifiuto, prese il crick dalla cabina del camion e si unì al vecchio Foschi nell’intento di modificare i tratti somatici dello zio Gigetto.
Dulcis in fundo, sopraggiunse, ruggendo, Rovani con in mano una grossa mazza da demolizioni, deciso a farsi risarcire i danni del suo orto.
“Peccato che sia finita così….”, sospirò Adolfo nel trambusto generale, “Mi sarebbe tanto piaciuto vederlo, il Gran Premio!”.
Diedi un’occhiata all’assembramento e lo tranquillizzai, “Aspetta e vedrai….!”.
In una frazione di secondo Mario se la diede a gambe levate, inseguito da sua mamma e da Claudio. Dietro, a tallonarli, lo zio Gigetto che rincorreva Claudio, ma che, a sua volta, era rincorso dal vecchio Foschi e, ad un paio di lunghezze, da De Giorgis. Più distaccato, incalzava Rovani al quale non importava chi fosse stato a patto che qualcuno gli ripagasse i danni.
Chiudeva la corsa il gruppone dei curiosi, ansiosi di vedere chi ci avrebbe lasciato le penne per primo.
Presi la bicicletta ed uscii dal cancello, consapevole che, per un bel pezzo, il trattore, ma anche i giochi nella cascina dello zio Gigetto, ce li saremmo potuti scordare.
“Hai visto?”, chiesi ad Adolfo, “Ecco il Gran Premio!”.
Adolfo sorrise soddisfatto e ritornò in cima al platano per godersi meglio tutto lo spettacolo.
Sui campi dorati risplendeva accecante il sole estivo e il cielo era un oceano azzurro che rifletteva l’ebbrezza dei miei sogni.
Montai sulla bici e pedalai verso casa, mentre il serpentone urlante si perdeva nell’immensità dei campi.
Racconto scritto il 19/05/2021 - 14:19
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