“No!, no! e poi no!”
“Ma mamma?!”
“Quante volte te lo devo ripetere ancora?...non devi mettere piede in quel luogo…e, soprattutto non devi avere nessun contatto con lei!”
“Ma?, potrebbe essere la nostra unica…”
“Zitta! Non ne voglio più discutere, e mettitelo bene in testa…cosa fai?, non oserei uscire da quella porta, se fossi in te!”
Ali spiegate
“Ma mamma?!”
“Quante volte te lo devo ripetere ancora?...non devi mettere piede in quel luogo…e, soprattutto non devi avere nessun contatto con lei!”
“Ma?, potrebbe essere la nostra unica…”
“Zitta! Non ne voglio più discutere, e mettitelo bene in testa…cosa fai?, non oserei uscire da quella porta, se fossi in te!”
Maneggio J. Richardson, California, cinque anni prima…
Taipa correva a perdifiato lungo la prateria in direzione del maneggio. La notizia le era arrivata tramite il vecchio Bennett che faceva ritorno dai campi: “Ho visto il dottor Ross prendere la borsa e salire sul pickup di gran fretta, forse ci siamo…”. Taipa correva, veloce come il vento, era una bambina agilissima, inciampò su un sasso e si rialzò con la velocità di una lepre che stesse sfuggendo dal suo predatore. Il sole batteva forte quel giorno, e sentiva il sudore colarle lungo la schiena. Percorse i trecento metri che separavano casa sua dal maneggio in meno di un minuto.
“Dottor Ross! È vero?!” disse in fiato entrando nella scuderia.
“Taipa! Cosa ci fai qui?”
“La prego, dottore, voglio assistere, la supplico…”
“Non lo so, sei ancora piccola, potresti impressionarti…”
“Dottore, la prego. Le prometto che sarò forte!”
La giumenta era riversa a terra e sbuffava come una locomotiva. Il veterinario aveva in mano le gambe del puledro e tirava forte con entrambe le braccia. Una membrana opalescente penzolava da un buco non ben identificato sotto la coda e la segatura per terra era tutta imbrattata di un liquido biancastro. Dopo alcuni minuti che sembrarono un’eternità, finalmente il puledro venne fuori. Era tutto bagnato, magro e con le gambe che sembravano dei giunchi. La giumenta si alzò e cominciò a leccare il figlio. Il puledro fece forza con le gambe e con andatura dinoccolata andò subito a cercare il latte della madre. Era dello stesso colore della terra di campagna, marrone non troppo scuro, con una striscia bianca che partiva dalla fronte fino al naso, come una pennellata accidentale data da un imbianchino che fosse passato di lì per caso.
“Ehi, Taipa. Sei rimasta lì impalata? Vieni qui ad accarezzarlo!”
“Ah, ah, hai perso la parola…”, un grosso omone entrò in quel momento nella scuderia.
Taipa e il dott. Ross si girarono a guardare il nuovo arrivato. “Signor Richardson, mi dispiace, io l’avevo avvertita che…”
“Non fa niente, Robert. La ragazzina è abbastanza grande per…”, si fermò un attimo a riflettere, “quanti anni hai adesso Taipa?”
“Nove anni, signore.”
“Ehm…ecco, appunto, come dicevo…la ragazzina è abbastanza grande.”
In quel momento il puledro andò a leccare la mano della bambina.
“Robert, il puledro è maschio o è femmina?”
“E’ una femmina, signor Rochardson. Una bellissima puledra.”
“Bene! Dobbiamo darle un nome…come la chiameresti tu?” disse rivolgendosi alla bambina.
“Non saprei, signore.” Taipa parve pensarci un attimo, poi le sue labbra si schiusero in un largo sorriso e rispose: Numees!”
I due uomini la guardarono incuriositi. “E’ un nome indiano, vero? Cosa vuol dire?” chiese il signor Richardson.
“Oh, niente di particolare…significa: sorella” e si strinse nelle spalle.
Il dottor Ross, per rompere il momento d’imbarazzo, richiuse la borsa, si mise il cappello e, con un gesto della mano, li salutò e andò via.
“Taipa, vieni qui. Andiamoci a sedere là fuori” disse il proprietario del maneggio.
Il signor Richardson aveva conosciuto il padre della bambina, una persona buona e gentile che decise di trasferirsi da quelle parti cinque anni fa. Purtroppo un giorno il cuore del pover’uomo si fermò mentre lavorava nei campi e lasciò la moglie a crescere la figlia da sola. Vivevano di pochi stenti, la donna si recava spesso in paese per sbrigare dei lavoretti mentre la bambina frequentava assiduamente il maneggio, affascinata dai cavalli.
“Taipa, nel tuo sangue scorre sangue indiano… Hai mai pensato di cavalcare?”
“Oh, signor Richardson, sarebbe un sogno…” gli rispose con un sorriso.
“Benissimo, facciamo così. Io ti regalo Numees. Fate amicizia. E poi si vedrà…”
Passarono tre anni e Taipa e Numees divennero una cosa sola. Il signor Richardson a volte si fermava incantato a guardarla. Il vento le smuoveva i capelli neri finissimi e spesso la ragazza chiudeva gli occhi e alzava le braccia al cielo mentre cavalcava, come a ringraziare l’universo per la felicità che provava in quel momento.
“Taipa! Taipa! Vieni qui” la chiamò da lontano il signor Richardson.
La ragazza non doveva neanche indirizzare la cavalla, sembrava comunicassero telepaticamente.
“Oh, signor Richardson.”
“Scendi dalla sella, Taipa. Non riesco a guardati con il sole negli occhi…”
La ragazza scese, ormai era diventata quasi una donna, dimostrava un’età maggiore rispetto alle sue coetanee.
“Taipa, ti ho appena iscritta ad una gara di cross-country. Sei brava, potremmo classificarci nei primi posti, coi soldi potresti aiutare tua madre.”
La ragazza non rispose nemmeno, tanto era la gioia. Abbracciò il signor Richardson e rimontò su Numees.
“Stasera stesso comincerai le lezioni, nel giro di tre-quattro mesi tu e Numees sarete in grado di affrontare una vera gara!”
Taipa spronò Numees e partì al galoppo lasciando una nuvola di fumo dietro di sé.
Lavorarono duramente per giorni e giorni, la cavalla rispondeva a tutte le sollecitazioni di Taipa, saltava tronchi, fossi, laghetti e ostacoli di ogni genere. Ogni volta riuscivano a migliorare i tempi delle prestazioni. In breve tempo il signor Richardson si convinse d’avere fra le mani un talento da sfruttare pienamente. La madre di Taipa non era felice per l’attività della figlia, avrebbe voluto un maggior aiuto in casa ma, ogni volta che poteva, la ragazza correva via. Il signor Richardson andò più volte dalla donna a tranquillizzarla e ad assicurala che la figlia non stesse sprecando il suo tempo.
Il giorno della gara arrivò e, manco a dirlo, Taipa si classificò prima, staccando nettamente le altre partecipanti. Nei due anni successivi vinse tutto quello che c’era da vincere. La ragazza riuscì a mettere da parte un bel gruzzoletto e decise di iscriversi a scuola all’età di quattordici anni.
Poi un giorno avvenne l’irreparabile. Dopo aver percorso il circuito prestabilito, la cavalla cominciò a zoppicare e per il dolore diventò molto irrequieta. Neanche Taipa riusciva a capire cosa avesse. Fu chiamato di gran fretta il dottor Ross che giunse al bordo del suo pickup. Dopo aver visitato la cavalla, il dottore si espresse sulla diagnosi. “Credo si tratti di una sobbattitura”. Il signor Richardson gli chiese di essere più esplicito. “La sobbattitura è una contusione della suola o del tallone, a volte si possono formare suppurazioni o ascessi.” A questo punto intervenne Taipa: “Ma non si vede niente di tutto ciò!”. “Si, è così, spesso le sobbattiture fanno zoppicare il cavallo senza che sia visibile alcuna lesione…guardate”, il veterinario prese una specie di tenaglia e cominciò a comprimere il punto sospetto, Taipa si avvicino al dottore con curiosità mista ad ansia e vide che dal punto compresso cominciava a trasudare del sangue. “Vedete, in questo punt…”. Non fece in tempo a finire la frase che la cavalla scalciò con violenza. Un urlo di dolore parve arrivare dall’antichissimo popolo indiano Miwok. Taipa giaceva a terra con le mani sul volto e del sangue cominciò ad uscirle a getti dall’orbita destra. “Presto! Presto! Chiamiamo un’ambulanza! Oh mio Dio, oh mio Dio!” il signor Richardson andò a prendere una pezza per tamponare la ferita. Taipa intanto svenne dal dolore e lasciò la presa sull’occhio destro lasciando intravedere l’orbita ormai vuota e la profonda deformazione del viso interessante le ossa della fronte e dello zigomo. Dopo una corsa in ospedale la operarono d’urgenza. L’intervento durò cinque ore durante le quali i medici cercarono di risistemare le ossa del massiccio facciale ma per l’occhio fu subito evidente che non c’era niente da fare. Rimase in ospedale per un mese. Il signor Richardson venne a trovarla ogni giorno e ogni giorno le raccontava la solita bugia, cioè che sarebbe tornata a gareggiare. La madre di Taipa evitava accuratamente di incontrarsi con il signor Richardson. Per quanto le riguardava, sua figlia non avrebbe più messo piede in un maneggio.
“Signor Richardson... Fra poco mi mettono la protesi. I medici mi hanno assicurato che non sarà possibile distinguere l’occhio vero da quello finto.”
“Taipa, ne abbiamo discusso tante volte. Non è questo il punto. Nessun giudice ti darà l’ok per gareggiare. I medici hanno detto che con un occhio solo perderai la capacità di calcolare le distanze, la profondità, gli ostacoli, rischieresti la vita a gareggiare e questo non posso permetterlo.”
“Signor Richardson, quello che mi sta dicendo è vero ma i medici mi hanno spiegato che questo avverrà in modo graduale. Ancora per poco sono in grado di calcolare le distanze, conosco a memoria il percorso e poi c’è Numees, sono sicura che mi aiuterà. La prego, ho bisogno di gareggiare un’ultima volta e poi mi farò da parte. I soldi che ho guadagnato fin’ora se ne sono andati nelle spese dell’assicurazione sanitaria. Voglio continuare gli studi e diventare veterinaria. La prego, ho bisogno di quei soldi.”
“Posso aiutarti io economicamente, Taipa. Non c’è bisogno di ritornare a gareggiare.”
“Signor Richardson, lei non capisce. Non c’è solo questo. Mia madre è malata, non lo vuole ammettere ma è così. Durante questo mese l’ho costretta a sottoporsi a degli esami in quest’ospedale ed è uscito fuori che ha un linfoma. I medici dicono che si può salvare ma lei non si vuole curare, dice che non abbiamo abbastanza soldi e i pochi che ci restano servono per la mia protesi e per gli studi. La prego, mi aiuti a gareggiare un’ultima volta!”
“Taipa, dai per scontato che tu possa vincere. Se questo non dovesse accadere tu rischieresti solo la vita per nulla.”
“Vincerò, signor Richardson, me lo deve lei e me lo deve ancor di più Numees.”
Il signor Richardson si afflosciò sulla sedia. “Ok, va bene. Ammettiamo che io riesca a truccare l’esame di ammissione. Come riusciresti a convincere tua madre?”
Taipa ritornò a casa. Il suo viso non era più grazioso come una volta ma conservava ancora quei lineamenti tipici degli indiani d’America. La protesi all’occhio non le dava alcun fastidio, ormai si era abituata. La toglieva prima d’andare a letto e la metteva subito dopo essersi alzata al mattino, sempre con grande cura. Non avrebbe detto mai a nessuno dell’incidente. Le sue palpebre disegnavano delle fessure lievemente piegate verso il basso ed era impossibile sospettare che uno dei due occhi fosse finto, anche a distanza molto ravvicinata. Il signor Richardson riuscì a farle ottenere il lasciapassare medico per la gara grazie ad un dottore che era in forte debito con lui. Numees fu curata ed allenata duramente nell’ultimo mese, era in splendida forma, come le aveva assicurato il dottor Ross. Taipa aspettò il giorno della gara per affrontare sua madre. Fin dalle prime battute, capì che non sarebbe riuscita ad avere la sua approvazione…
“No!, no! e poi no!”
“Ma mamma?!”
“Quante volte te lo devo ripetere ancora?...non devi mettere piede in quel luogo…e, soprattutto non devi avere nessun contatto con lei!”
“Ma?, potrebbe essere la nostra unica…”
“Zitta! Non ne voglio più discutere, e mettitelo bene in testa…cosa fai?, non oserei uscire da quella porta, se fossi in te!”
“Non importa mamma, non riuscirai a fermarmi. Vincerò la gara e con i soldi tu ti curerai, non abbiamo altra scelta, mi dispiace.”
E così dicendo scappò via lasciandosi alle spalle la porta aperta. Cominciò a correre verso il maneggio. Un’aquila reale volava alta nel cielo e il suo grido riecheggiò lungo la vallata. Si ricordò allora, come le disse una volta suo padre, che il nome Taipa significava “ali spiegate” ed in quel momento si sentì pronta per volare un’ultima volta verso la vittoria.
Voto: | su 10 votanti |
Che hai rivolto in occasione della mia partecipazione alla proposta di scrittura creativa.
Complimenti
il racconto chiude armonicamente i limiti imposti, tre personaggi dal carattere diverso, paternale, materno, ardente ben si fondono nella struttura narrativa, che si sviluppa via via pur nelle tragiche condizioni. Complimenti per la solita bravura.*****
Complimenti e
buon fine settimana
Nadia
Lo salverò su un file per poterlo leggere ai miei nipotini quando cresceranno. Bravo ! 6 stelle !