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AL BUIO IN UNA CAVERNA

Le istruzioni sono:

La scena si svolge in una caverna. Il protagonista, assieme ad altre persone, si ritrova improvvisamente al buio. Quali sono i suoi pensieri e le sue preoccupazioni? La grotta ha dei pericoli. Cosa succederà? Quale sarà la conclusione? Scrivere una storia così ambientata.


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VOLPI IN TRAPPOLA

“Lo sapevo che ci saremmo infilate in un casino! Non ne usciremo vive! Tu che ti credi Indiana Jones, e invece sei solo una stupida stronza!”
Adriana inveiva contro di me, preda di una crisi isterica alimentata da tanta rabbia, quella che solo un immane paura può provocare. Eravamo rimaste al buio, dentro quella grotta isolata e pericolosa, per colpa mia. Sì, Adriana aveva ragione, ero io la responsabile di questa tragedia che si stava per consumare ed ormai non potevamo più tornare indietro: eravamo isolate e nessuno avrebbe mai saputo dove trovarci, vive o morte. A poco valevano le mie parole per cercare di placarla, era terrorizzata, come lo eravamo anche io, Lucia ed Anna. Queste piangevano con lunghi e strazianti singulti, mentre il mio terrore era un muto e gelido fluido che pietrificava ogni centimetro del mio corpo, che sentivo già morto. Ormai non avevamo scampo e dovevamo solo attendere la fine, che sapevamo non sarebbe stata lieta. Cercavo di guardare dentro il buio, spalancando all’inverosimile i miei occhi ma senza risultato ed evitando di toccare ciò che aveva dato conferma ai nostri tragici sospetti.
Eravamo partite dal campo quella mattina all’alba, attrezzate di mappe, bussole e di pochi viveri, giusto l’essenziale per passare fuori un’intera giornata e far rientro all’ora del tramonto. Ma le cose erano andate diversamente: ci eravamo inizialmente addentrate in un sentiero appena tracciato, forse da capre e cacciatori e poi avevamo proseguito spezzando rami di cisto e di lentischio, graffiandoci le braccia e le gambe per poter raggiungere un’altura e poi decidere come e dove muoverci. Le mappe e le bussole le avevamo lasciate negli zaini nel momento in cui avevamo scorto, buttati tra i fitti cespugli, dei quotidiani, uno locale ed uno nazionale. Erano tanti, e riportavano date abbastanza recenti. Ma che ci facevano quei quotidiani nascosti in quella montagna sperduta, lontana dai classici sentieri per escursionisti?
Si insinuò nella mia mente un pensiero che non confidai alle mie compagne per non minare la serena avventura che stavamo vivendo in mezzo a quella natura incontaminata, con cardellini che ne suonavano la colonna sonora e rapaci che volteggiavano sui nostri passi.
“Osservazione e deduzione” era tra i tanti motti di Baden Powell, il fondatore dello scautismo, osserva e ragiona, osserva e rifletti, osserva e trai delle conclusioni.
Se solo avessi dato voce alle mie osservazioni le mie amiche sarebbero volute tornare indietro, di corsa fino al campo e noi, la squadriglia delle Volpi saremmo state ridicolizzate per aver perso ogni astuzia dell’animale che volevamo rappresentare. Saremmo state lo zimbello dell’intero gruppo, le volpi tignose e spelacchiate.
Ad un certo punto notai il terreno già calpestato ed i rametti di cisto già spezzati da qualcuno che ci aveva preceduti. Ma chi?
Camminavamo in silenzio noi quattro, giusto una battutina ogni tanto per smorzare la stanchezza in quella salita sotto il sole cocente di luglio che durava ormai da due ore e che infine ci portò in una piccola radura dove si apriva l’ingresso di una grotta.
Avevamo quindici anni, eravamo ancora troppo giovani ed incoscienti, noncuranti della paura che anzi ci eccitava in un misto di orgoglio e balentìa e così ci addentrammo in quella sorta di grande sala alla cui estremità si trovava, appoggiato alla parete un lungo tronco di ginepro i cui rami laterali fungevano da gradini per poter salire fino ad un foro. Convinsi le mie amiche, diffidenti ed impaurite a salire fino al foro, spinta da una silenziosa curiosità che volevo colmare a tutti i costi. Quasi non mi riconoscevo, così impavida di fronte ad un rischio troppo alto che avremmo potuto pagare con la vita. Eppure ero attratta da quell’incognita, volevo scoprire, a costo di mettere a repentaglio la vita di tutte noi. Dal foro, del diametro di circa un metro, partiva una stretta e lunga galleria che a tratti percorremmo strisciando sulla pancia, ed illuminata dall’unica torcia in nostro possesso. Cercavamo di non toccare le pareti, viscide ed abitate da strane lucertole ed altri sconosciuti esseri viventi.
Giungemmo infine su una sala dove troneggiava una stalagmite che ci tolse il fiato, paralizzandoci per la sua bellezza. Sembrava la pietà del Michelangelo, forgiata pazientemente dalla natura nel corso di tanti secoli. Non avevamo macchine fotografiche con cui immortalare quel miracolo e mostrarlo agli altri e a quel tempo non c’erano smartphone con cui farci i selfie e comunicare al mondo intero la nostra scoperta.
Proseguimmo ancora per qualche metro e ad un certo punto notammo degli stracci appallottolati in un angolo: erano indumenti, erano insanguinati ed era evidente che fossero di un bambino. Una lancia mi trafisse il cuore, centrandolo come un bersaglio, esattamente come la risposta che cercavo alla mia curiosità e che ora era lì davanti ai miei occhi. Avevo fatto centro e non ero per niente felice. Cercai di non darlo a vedere alle mie amiche ma nel frattempo anche loro avevano capito che probabilmente eravamo entrate dentro una tana troppo pericolosa, dove i predatori non avrebbero esitato ad eliminare qualsiasi testimone, e senza alcuna pietà. C’era quel bambino ancora in mano ai rapitori, quel povero bambino innocente, ferito nell’anima e nel corpo con una brutalità che anche le bestie più feroci ignorano. Lo cercavano, lo cercavano ovunque, per le campagne, per le montagne, dentro le grotte, eppure nessun indizio era stato ancora trovato.
“SCAPPIAMO!!” urlai con tutta la voce che avevo in gola e nella corsa, impellente e confusa mentre cercavamo di infilarci nello stretto corridoio, la nostra torcia, l’unica torcia volò, andando a frantumarsi contro la parete e spargendo pezzi inutili sul pavimento fangoso.
Al buio raggiungemmo il foro dal quale eravamo entrate e dal quale filtrava un po’ di luce dall’esterno ma per un soffio Anna, la prima della fila, non cadde nel vuoto: il tronco di ginepro, che fungeva da scala non c’era più, era appoggiato sull’altra parete. Qualcuno lo aveva spostato, qualcuno che aveva notato la nostra presenza si era fatto beffe del nostro misero coraggio. E buttarci da lassù era improponibile, un salto troppo alto e neanche la forza della disperazione ci avrebbe preservato da gravi fratture che non ci avrebbero permesso di scappare, se non di strisciare e guardare negli occhi gli assassini che avrebbero calcato i loro piedi sui nostri visi contorti dallo stupore e dal dolore.
Senza dire una parola tornammo indietro a tastoni, radunandoci tremanti ai piedi di quella statua naturale dove la Madonna piangeva il suo figlio ucciso. Noi saremmo morte lì, abbandonate nel buio e nel freddo senza le calde lacrime di nessuna madre a scivolare sui nostri corpi inerti.
Ed io ero l’unica responsabile di tutto questo: la mia ingenua curiosità di adolescente strideva con il mondo vero, quello a me sconosciuto abitato da abili e spietati personaggi.
“E’ tutta colpa tua!” rimbombò nella grotta. Non sapevo più di chi fosse la voce, se di una delle mie amiche, se di tutte e tre in coro o se fosse quella della mia misera coscienza. Ero stanca e afflitta e cercavo la luce, la cercavo ovunque mentre il cuore iniziava a dolermi per il troppo peso con cui lo avevo caricato. Avevo paura, paura del freddo, paura del buio e paura della fine: come sarebbe stata? Chissà se sarebbe stata dolce come il sonno come quella volta che ero svenuta. Pensai che in fondo morire così non sarebbe stato doloroso, sarebbe stato come morire cullata.
“Vi voglio bene” riuscii a dire, mentre Lucia prendeva la sua armonica dalla tasca ed iniziava a suonare il Cantico delle Creature. Ci prendemmo per mano, senza proferir parola e accompagnammo mentalmente tutto il canto con copiose lacrime, le ultime. La musica cessò e nella grotta i nostri sospiri produssero un’eco rassegnata, in attesa del silenzio. Appoggiai la testa all’indietro, alla fredda statua, chiudendo gli occhi per immergermi in un buio ancora più fitto dal quale non sarei più risalita e mi sembrò di sentire un lontano scampanellìo. Pensai al mio angelo custode che, rassegnato, si congedava da me. “Cos’è? Sentite anche voi?” chiese Adriana, tra la paura e la speranza.
Sì, sentivamo tutte e sembravano le campane di un gregge di pecore, sempre più vicine. Non sapevamo se muoverci e chiedere aiuto o attendere che si allontanassero, non capivamo cosa avrebbe potuto salvarci la vita, se un urlo disperato o il silenzio. L’abbaiare di un cane nella direzione del foro decise del nostro destino perché indusse il pastore a riposizionare il tronco del ginepro e a infilarsi nella grotta, dove illuminandoci con la torcia, restò sorpreso della nostra presenza. “E cosa ci fate qui? Ajò, scendete!”


La sera attorno al fuoco tutte le squadriglie raccontarono, tra battute e risate la loro avventura. Io, Adriana, Anna e Lucia restammo strette, in un eloquente e complice silenzio a custodire un segreto troppo grande mentre il riflesso delle fiamme asciugava la paura e illuminava i nostri sguardi, protesi verso il futuro. Mentre le ultime braci si spegnevano la nostra capo ci accompagnò nella tenda, ci guardò negli occhi e disse: “Un giorno mi racconterete.”


Millina Spina, 11 ottobre 2017


Foto web




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Scrittura creativa scritta il 12/10/2017 - 01:01
Da Millina Spina
Letta n.1150 volte.
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Commenti


Grazie tante Aurelia, mi fa veramente piacere essere riuscita a trasportarti in questa avventura e a lasciarti con il fiato sospeso fino all'ultimo, senza far risultare il racconto lungo e/o noioso.
Grazie!

Millina Spina 15/10/2017 - 18:12

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Si legge tutto d’un fiato e con l’animo sospeso fino alla conclusione liberatoria. Piaciuto tanto. Brava,molto brava, 5* Aurelia

Aurelia Strada 14/10/2017 - 15:51

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Grazie GianMaria, sì "ajò" significa anche andiamo, ma spesso lo usiamo come esortazione...sopratutto con i maschi!!
Grazie Grazia per aver vissuto questa avventura.
Ciao!

Millina Spina 12/10/2017 - 20:07

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Avvincente...
molto bello, complimenti!

Grazia Giuliani 12/10/2017 - 13:28

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Ottima descrizione di una avventura che mi ha lasciato col fiato sospeso... dove c'è paura, lì sta il fascino. Ecco perché ho sempre avuto paura delle donne....eheheheh...i miei complimenti per l'abilità narrativa. Un saluto...ajò significa andiamo, immagino.

GianMaria Agosti 12/10/2017 - 08:00

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