Al buio di una caverna…
Il nostro organizzatore, amico e collega Angelo, aveva programmato, come al solito, una nuova gita per visitare uno di quei tanti famosi castelli sparsi in Sicilia, assieme i soliti colleghi docenti con cui da qualche mesetto non ci si vedeva.
Questa volta la destinazione della nostra escursione, era la visita al castello di Mussomeli, nel nisseno, noto anche come castello manfredonico, fortezza eretta tra il XIV e il XV secolo.
Tutto era stato come sempre prenotato, organizzato alla perfezione, così pure le eventuali soste dopo la partenza in pullman.
Durata del viaggio: alcune ore.
Il gruppo dei quaranta partecipanti riprese così, dopo la pausa estiva, l’abituale ritmo d’allegra spensieratezza. Da considerare che eravamo docenti taluni in pensione , altri decisamente più giovani, ancora in servizio.
Tutto si svolse con la solita briosa prassi.
Un paesaggio multicolore, simile a un quadro di Vincent van Gogh, che scivolava lentamente davanti ai nostri occhi, mentre l’autobus iniziava a percorrere quel piacevole tragitto.
Mi piaceva vedere scorrere lo spettacolo della natura, come fossi in un cinematografo davanti ad una pellicola in cinemascope.
C’è da precisare che in quel pullman abbondava tanta di quella bizzarra confusione, concitazione che, a dire il vero, il comportamento festoso, agitato e confusionario di quei docenti risultava, in certi momenti, ancora più deprecabile di quello dei propri alunni più discoli e scatenati, quando vengono accompagnati nelle scampagnate scolaresche.
Si sa che solitamente in un folto gruppo, se ne creano poi tanti altri più piccoli, formati da due, tre coppie che solitamente affiatate, condividono lo stesso tavolo nella cena, nel pranzo, le passeggiate nelle località di destinazione, e così in tutte le altre svariate occasioni che via via si presentano.
Insomma, gruppetti di circa tre/quattro coppie unite, consolidate, che oramai s’intendono e sanno come regolarsi perché amici di vecchia data.
All’arrivo a destinazione, solitamente usano ricordarsi:
- Allora, siamo d’accordo che, chi scende prima dalla camera, s’impegna a occupare a tavolo, il posto per sé e per gli altri, nell’ora della cena e del pranzo?
Intesi vero?
- Certo! Rispondeva l’amico.
Facciamo come al solito.
Durante i pasti a volte capitava che le mogli si sedessero tutte vicine tra di loro e i maschi dalla parte opposta.
Si notava chi piaceva gustare il vino della casa, chi il pane casereccio, chi l’olio di produzione del luogo e poi ci si disponeva a mettere proprio “a tavola”, insomma a “intavolare” i soliti discorsi che riguardavano la salute, le pillole che si devono prendere per tenere a bada il cuore, chi la glicemia, le artrosi, il colesterolo e chi altri più ne ha, più ne metta.
Non era strano sentir battibeccare:
- Senti moglie mia, almeno in gita non voglio veti né limitazioni.
Sono qui per divertirmi perciò, una volta tanto, non accetto restrizioni, tantomeno veti.
Mi va di mangiare ciò che mi aggrada!
- Ma almeno il dolce evitalo. Rispondeva la consorte con quell’espressione compassionevole e convincente.
Poi… se ti sentirai male, saranno mie le preoccupazioni…
- Ho detto basta!
Per oggi non acconsentirò a divieti.
- Ma si! Rispondevo io
Mangeremo un po’ di tutto e moderatamente.
Alla fine, in compagnia, è bene mangiare, bere e divertirsi.
Non siamo qui anche per questo?
A queste mie affermazioni quella moglie mi rispose con una sbirciata di traverso che mi impietrì.
Bastò un attimo e tutto tornò sereno, allegro, spensierato come prima, immersi nella piacevole allegra, briosa compagnia e nella conversazione divertente tra cari amici e colleghi.
Dovevamo andare a visitare, il giorno dopo, proprio uno di quei famosi castelli di quella zona di Mussomeli, appartenenti ai Chiaramonte, antica famiglia siciliana molto potente nel XIV secolo.
Il nostro bravo organizzatore aveva preso la guida e arrivati tutti sul posto, nei pressi del castello, uscimmo da quel pullman come uccelli che evadono appena aprono la gabbia.
In un primo momento ognuno, incuriosito, si allontanava per ammirare il panorama, i ruderi, la vallata, ma quando la guida cominciava a descrivere il castello e i suoi originari proprietari, appunto i Chiaramonte, potente famiglia siciliana il cui ramo siciliano ebbe per esponente Federico I, tutti si avvicinavano come quando il contadino butta il cibo ai pulcini e tutti arrivano di corsa a beccare.
Man mano che la guida ci conduceva in quelle immense sale, quella del trono, poi degli ospiti, nella camera da letto dei nobili, in quella da pranzo, di nuovo i gitanti cominciavano a sparpagliarsi in ogni dove, come se ognuno avesse individuato un punto particolare da fissare, osservare intensamente, fosse magari un quadro, una parete in pietra viva, le stesse mura, un semplice sporadico arredo di quel castello.
L’accompagnatrice raccontava, tra le tante narrazioni di quella nobile famiglia siciliana con tutti i suoi numerosi discendenti sparsi in tutta l’isola, anche simpatici eventi, fatterelli, leggende, tradizioni di taluni personaggi agguerriti e spietati, avidi conquistatori ad ogni costo, pur di soddisfare la sete di ricchezza, di prestigio.
Ci rappresentava le sortite e le preparazioni dei guerrieri per le battaglie nelle varie zone siciliane o in quelle fuori il territorio isolano o italiano.
Narrava tra l’altro le varie leggende, tra cui quella delle tre sorelle del potente principe residente in quel castello che, dovendo partire per la guerra e non avendo fiducia su nessuno; per questo motivo, le chiuse a chiave in una stanza lasciando loro il cibo che ritenne necessario e bastevole per la durata della sua assenza.
Il principe però, fece male i suoi conti, perché al suo ritorno trovò le tre gentildonne Costanza, Clotilde e Margherita, morte con le scarpe tra i denti, serrati in quella stanza, perché la guerra era durata più a lungo di quanto previsto.
Questa fu la lugubre leggenda che impressionò tutti non poco.
Anch’io, come altri, senza rendermi conto, poco a poco, mi allontanai dal gruppo e cominciai a scendere giù, in quelle sale immense, destinate ai viveri, alle stalle e poi ancora in fondo sino alle prigioni, proprio senza rendermene conto, spinto dalla mia curiosità.
Quando mi decisi di tornare indietro mi accorsi che la porta alle mie spalle si era chiusa, facendo un tonfo infernale, freddo, di morte, come se qualcuno l’avesse voluta sbattere apposta a mio dispetto, per avere osato varcare quel limite.
Mi resi conto che ero dentro una caverna, al buio più pesto, anche se sentivo, poco più lontano, le voci di altre persone nella sala accanto che si spostavano, e per questo il loro tono si smorzava.
Per fortuna vennero a cercarmi i miei amici che forzarono la porta ed entrarono, ma non s’accorsero che anche stavolta, quella li chiuse misteriosamente assieme a me, e rimasero serrati in quella stanza simile ad una caverna, al buio.
Dapprima insieme cominciammo a prenderci reciprocamente in giro, a scherzare e a fare battute umoristiche, davvero fuori posto, proprio per smorzare la tensione, i timori oppressivi che quel buio provocava dentro ciascuno.
All’improvviso intervenni con una sciocca battuta, come se tutta quella questione fosse assurda, irreale, e mi trovassi in sogno.
Dissi sorridendo:
- Ragazzi, niente timori e preoccupazioni!
Vedrete che presto si accorgeranno della nostra assenza e verranno a liberarci.
Rilassiamoci, e chi lo desidera, può farsi pure una pennichella.
Ci guadagneremo in salute
Facciamo finta d’avere gli occhi chiusi e d’essere davanti ad uno psicoanalista che voglia farci trascorrere un po’ di tempo, per poi scoprire, scrutare la nostra anima, l’inconscio, i nostri timori, le inquietudini, le paure da troppo tempo tenute tra le pieghe dell’inconsapevolezza.
Già che ci siamo, possiamo farla anche tra di noi questa specie di gioco, di auto-psicoanalisi.
Che ne pensate?
Oppure facciamo finta che ci è stato assegnato un tema, simile a quello che fate svolgere il classe, come è capitato fare a voi docenti con i vostri alunni, dal titolo: improvvisamente al buio. Quali sono i pensieri e le preoccupazioni?
Che ne pensate di questa mia idea?
- Fai presto tu a scherzare con le cose serie! Mi rispose l’amico Pasquale.
Intanto siamo isolati e pure al buio e ciò non ci fa sperare di certo positivamente.
Non vorrei facessimo la fine come le tre sorelle della leggenda, chiuse a chiave e poi morte di stenti, per la fame, per inedia.
- Ma dai! Rispose l’altro amico Nicola.
Stiamo scherzando?
Smettetela e siate obiettivi.
Cerchiamo di sdrammatizzare la situazione.
Intanto, mentre si discuteva del più e del meno, passavano i minuti e forse anche le ore.
Del resto si sa, che quando si è chiusi in una stanza e pure al buio più pesto, si perde il concetto del tempo, della sua dimensione e poi forse, poco a poco, ci si trasferisce, per autodifesa, in un’altra realtà, sicuramente e idealmente migliore, possibilmente luminosa, piena di speranza, per tentare di rendere meno obbrobriosa quella presente, tenebrosa, angosciante e minacciosa.
Oppure si rischia di scivolare nell’angoscia profonda e nella disperazione?
Mentre facevo alcune mie riflessioni su quel nuovo stato, andavo poco per volta estraniandomi, come se volessi fare con me stesso uno di quegli strani giochi da bambino, quello a occhi chiusi e che le regole dettate dai compagni, impongono di tenere gli occhi rigidamente chiusi, pena, il pagamento di un pegno o di una penalità spesso antipatica, e sicuramente poco onorevole cui dover sottostare.
Nella mia mente mi sono allontanato da quel contesto.
Anziché sperdermi nel buio di quella che potevo considerare simile a una caverna, mi misi a osservare intensamente le fessure inferiori della porta; proprio da lì potevo intravedere un flebile chiarore che indirettamente, per vie traverse, si collegava con sopra e quindi con l’esterno, col chiarore.
Quel buio pesto mi sembrava lo spiraglio della salvezza, il mio appiglio, la mia ancora su cui i miei occhi poterono trovare motivo di speranza e riposo.
Non sapendo cos’altro fare, per non cadere nell’angoscia, nel terrore, nell’oppressione, cominciai a sentire, usando la mia immaginazione, le grida, poi le risate convulse dei miei compagni di gioco proprio all’uscita della scuola elementare.
Socchiusi i miei occhi ancora una volta, lentamente, per restare per un po’ di tempo nel “mio” buio, quello che adesso apparteneva a me, intimamente, che mi era amico, familiare e voluto dalla mia volontà, del tutto estraneo a quello esterno che mi era ostile, nemico.
Superata questa prima fase, mi predisposi ad affrontare la nuova orrenda situazione, tentando di non farmi sopraffare da quel temporaneo malessere, più psicologico che fisico.
Mentre facevo queste riflessioni, le mie orecchie cominciarono a ì percepire come eco, parole, frasi vaghe, pronunciate dagli amici intorno, simili a:
- Temo davvero che faremo la fine di quelle tre nobildonne rimaste chiuse in quella stanza.
Ho paura e mi sento opprimere, schiacciare.
Mi comincia a mancare l’aria e il mio respiro si sta facendo affannoso.
Temo che se passerà troppo, non resisterò.
Moriremo tutti.
Era logico che i nostri amici lì fuori, ci avrebbero liberato, aprendo quella porta che sembrava ci avesse chiuso e gettati nella più cupa disperazione.
Feci un profondo respiro e mi sedetti per terra, consigliando di fare altrettanto ai miei compagni.
Non ricordo se lo eseguì di proposito, oppure quella fu la mia immaginazione, ma presi la mano di mia moglie, la strinsi, la portai al mio cuore e cominciai a pensare, a riflettere tentando di rimanere sereno più possibile.
Non sapevo cosa, dove, e neanche come cominciare, mentre mille idee si affollavano nella mia mente.
Chi richiamare alla mia memoria in quel momento?
Chi immaginare, chi riportare vivo nella mente? Forse i miei affetti più cari, oppure fantasticare il paesaggio assolato lasciato sopra di noi…?
Se ricordare i giorni di festa, quelli felici, delle nascite dei figli, dei nipoti, delle gioie delle ricorrenze, dei piccoli gesti d’affetto quotidiano?
Se lasciarmi illudere dalle percezioni dei baci dei nipotini dopo gli incontri, con le mie braccia protese, aperte, spalancate, nell’attesa fossero riempite dalla corsa del mio adorato nipotino verso di me, dopo troppo tempo trascorso lontano.
Del resto, rimuginavo nella mia mente, questa grotta che pericoli può contenere? Davvero nulla, anzi siamo più al sicuro noi, come fossimo in un rifugio antiaereo, antiatomico.
Ma che andava pensando la mia mente? E se quella caverna lugubre nascondesse dei pericoli?
No, è impossibile.
Oggigiorno basta poco per allertare tutti e presto. Di sicuro, verranno a trovarci e liberarci da questa che potrebbe rappresentare l’oppressione della mente, della ragione, il buio della vita, la cecità dell’intelligenza che viene sopraffatta dalla realtà malefica di quella condizione obbrobriosa.
Maledizione!
Neanche i cellulari avevano il campo necessario libero per poterci connettere con l’esterno.
Come si può resistere a lungo?
Anche la mia mente cominciava a vacillare, succube di quella situazione ambientale che stava cancellando, annullando ogni convinzione che dovevo ad ogni costo resistere.
Eppure, la mia ragione… il senno e pure la mia fantasia, chiamate tutte a gran consulto, mi continuavano a propinare e convincere che dovevo per forza riflettere e non restare succube di quella situazione, che di certo, era solo momentanea.
Mi concentrai con tutte le mie forze per tentare di restare ancora lucido.
Di tanto in tanto riaprivo i miei occhi, appositamente, per tornare a riguardare quei millimetri di spiraglio che permettevano di intravedere un certo chiarore fuori dalla porta.
Socchiusi di nuovo gli occhi e cominciai a ragionare, a chiedere a me stesso, quali fossero effettivamente le mie paure della vita.
Dio mio come faccio a dare risposte sensate in questo luogo cupo e funesto che sembra condurmi alla morte.
È infelice, sinistro, e ciò non mi permette neanche di riflettere con la lucidità dovuta.
Eppure devo concentrarmi ad ogni costo!
Ah si… Adesso che rifletto meglio, riesco a ricordare quali sono le ansie, le angosce, gli affanni che inquietano da sempre la mia esistenza…
Io ho paura solo del nulla eterno, del niente.
Della mancanza dell’infinito.
Pensare al mio “dopo” come fosse “niente”, sarebbe come se adesso, in questa situazione, mi mancasse del tutto l’aria.
Non saprei veramente resistere.
Ho bisogno di pensare a chi, passato il mio tempo, è pronto ad accogliere le mie gracilità, a perdonare tutte le mie mancanze, le mie omissioni, i miei numerosi errori.
Ho bisogno di “credere” per affidarmi, e ritrovare la salvezza, la terra del mio riposo, la pace, la quiete dell’anima dello spirito e del corpo.
Di ciò ho terrore, e adesso il buio in questa caverna, amplifica a dismisura le mie paure.
Ma non le altera,
Il falso pericolo una simile grotta, è di quello offuscare, annebbiare la mente, l’animo degli uomini.
La caverna di questa grotta rappresenta idealmente un raccoglitore, come fosse il cranio stesso dell’uomo che contiene, da una parte “buio” dell’ignoranza, della diffidenza, dell’oblio, dello sbarramento, dello smarrimento, del muro alzato; dall’altra, la “luce” della verità, dell’intelligenza, della scienza e della conoscenza, dell’intelletto, del sapere che non ha limiti, della ricerca continua, della navigazione in mare e spaziale, alla scoperta di nuovi mondi, terre, tesori immateriali infiniti.
Il vero pericolo delle caverne buie è quello che l’uomo costruisce dentro se stesso, nella propria mente, e non certo questo ubicato nei meandri cupi di un castello.
Fin quando avrò il desiderio dell’infinto, dell’immortalità tutta da conquistare soprattutto attraverso i miei piccoli gesti quotidiani, pur inutili e insignificanti…
Fin quando godrò gli affetti dei miei cari, fossero anche solo quelli dell’ultimo vecchio bisognoso…
Fin quando potrò dare una carezza e asciugare possibilmente una lacrima…
Fin quando l’anima mia genererà amore e ancora amore all’infinito, fosse pure piccolo quanto una scintilla, la fiammella di una minuscola candelina di natale….
Fin quando avrò la speranza, senso della carità, della donazione, dell’utilità io… non avrò mai paura.
E se dovrò pur morire proprio qui dentro, in questo buio che è esterno alla mia ragione, mi resterà di certo la forza di invocare la luce.
Così solo non perirò nelle tenebre.
Di questo, ne sono più che certo.
Finita questa considerazione mentale, mi predisposi a rilassarmi e pormi nell’attesa… quando all’improvviso senti a voce dell’amico, il capo del gruppo organizzatore che mi chiamava accorato.
Dopo aver aperto agevolmente la porta, sorridendo aggiunse:
- Finalmente ti ritrovo!
Ma dove ti eri cacciato?
Sei sempre il solito curiosone alla ricerca delle cose impossibili.
Tutti gli altri sono sopra, pronti per ripartire.
- Aspetta Risposi.
Gli altri miei amici che erano qui con me, dove sono?
- Che dici?
Ti ripeto che tu solo sei rimasto chiuso in questa stanza buia.
Hai avuto un bel coraggio a restare chiuso qui!
Comunque adesso avviamoci al ritorno.
Stanno aspettando proprio a te per partire.
- Mi spiace!
Chissà da quante ore avete atteso.
Che potevo fare?
- Ma ché? Mi ripose quel collega.
Appena dieci minuti sono trascorsi da quando ti abbiamo perso di vista.
Si vede che al buio il tempo non passa mai.
Ebbi modo di girare lo sguardo e vidi la porta alle mie spalle chiudersi lentamente da sola, come in segno di gran rispetto.
Che quella fosse stata una prova?
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