CONFESSIONI
Le istruzioni sono:
Ripensa ad un episodio un po' 'oscuro' della tua infanzia e connettilo con il tuo carattere attuale, adulto, o con qualche tua abitudine o tendenza. Meno significativo (in apparenza) è questo episodio e meglio è. Non ti chiediamo di farti da psicoanalista di te stesso: niente ti impedisce di inventare o di usare ricordi altrui.
Ad esempio Rousseau nella sua autobiografia "Le confessioni" dopo aver parlato di un castigo avuto nell'infanzia dice: "Chi crederebbe mai che quel castigo infantile, ricevuto a otto anni da una donna di trenta, ha deciso dei miei gusti, dei miei desideri, delle mie passioni, di me stesso per il resto della vita e precisamente nel senso contrario a quello che ......"
Ad esempio Rousseau nella sua autobiografia "Le confessioni" dopo aver parlato di un castigo avuto nell'infanzia dice: "Chi crederebbe mai che quel castigo infantile, ricevuto a otto anni da una donna di trenta, ha deciso dei miei gusti, dei miei desideri, delle mie passioni, di me stesso per il resto della vita e precisamente nel senso contrario a quello che ......"
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Confessioni: la malattia
Avevo circa sette anni quando mi ammalai di un virus particolare e inaspettato.
Era fine ottobre, la temperatura si era improvvisamente abbassata e l’influenza stava mietendo famiglie intere.
Persino mia madre si ammalò, io non l’avevo mai vista a letto, ma quell’anno le venne una febbre così alta che non ce la faceva ad alzarsi.
Io a quei tempi vivevo in un paesino sul mare, un paesino come ce ne sono tanti lungo le nostre coste, tutto squadrato, con tre strade parallele, la prima sul lungomare, la seconda subito dietro e la terza parallela alla pineta.
Ci conoscevamo tutti ed eravamo una grande famiglia.
Quel giorno mia madre, costretta a rimanere a letto, mi disse di andare a prendere il pane al panificio proprio accanto a casa nostra.
A quei tempi le automobili che circolavano erano proprio poche e semmai potevano passare persone in bicicletta o in motorino, ma io non avrei neanche dovuto attraversare la strada e questo rendeva tranquilla mia madre perché già altre volte mi aveva mandato a prendere qualcosa nei negozi sotto casa: il panificio, il negozio di frutta e verdura, la macelleria e la latteria, anzi volevo andare sempre io a prendere il latte perché il lattaio aveva una figlia dela mia stessa età e noi due giocavamo sempre insieme, quando non eravamo a scuola. Andavo a prendere il latte con un tegamino con il coperchio e anche se da casa mia la bottega distava solo pochi metri, io impiegavo sempre un sacco di tempo perché mi mettevo a giocare insieme alla mia amica e mi dimenticavo persino il motivo per cui ero uscita.
C’era sempre un tempo massimo e quando lo superavo, me ne accorgevo sentendo la voce di mia madre che mi chiamava e che veniva a recuperarmi per riportarmi a casa.
Quel giorno però ero molto preoccupata per la mia mamma che stava male e preso il pane volevo correre subito a casa, me lo ricordo come se fosse ora, ma quel giorno non riuscivo assolutamente a correre, mi faceva male l’alluce del piede destro e rientrai a casa zoppicando e piangendo.
Mia madre mi chiese subito cosa mi fosse successo, soprattutto voleva sapere se fossi caduta o altro, ma io, piangendo, le rispondevo che non avevo fatto niente e che mi faceva solo tanto male un piedino.
Dapprima la mamma cercò di darmi coraggio e di minimizzare il mio dolore, ma quando vide che io stavo sempre più male, si alzò prontamente dal letto per prendermi in braccio e accadde una cosa che nessuno di noi si sarebbe mai immaginato: mi ritrovai tutta paralizzata e non potevo più muovere né le braccia né le gambe.
La mamma spaventata mi mise a letto e chiamò subito il dottore e mio padre che era al lavoro.
“Dolori articolari acuti” fu la diagnosi implacabile del dottore che in un primo tempo mi voleva far ricoverare subito nell’ ospedale della vicina città, ma i miei genitori, sentito anche il parere del medico, optarono per tenermi a casa e curarmi così sotto il controllo del pediatra.
Quell’anno ci furono diversi casi come il mio e tutti erano bambini della mia stessa età.
Non potevo muovermi, stavo sempre sdraiata a letto ed ero costretta a prendere un sacco di iniezioni e pasticche di tutti i colori. Mi ricordo che la mamma teneva sul cassettone un foglio con l’elenco di tutte le medicine che dovevo prendere nell’arco della giornata: ore 9, pasticca gialla; ore 10 pasticca rossa e così per tutto il giorno.
I giorni passavano uno dopo l’altro, mia madre era disperata non solo per vedermi in quello stato, ma anche perché vegliava su di me notte e giorno e temeva di non farcela.
Sua madre, ovvero mia nonna, pur abitando lontana, decise alla fine di trasferirsi da noi per starmi più vicina. Io avevo sempre voluto un bene enorme alla mia nonna materna e quando la mamma mi avvertì che sarebbe venuta a stare con noi, ero piena di gioia anche se non riuscivo ad esprimerlo apertamente.
Sentii la voce della nonna sulle scale, la vidi entrare nella mia camera e avvicinarsi al letto e dentro di me non so cosa accadde, ma improvvisamente, dopo settimane di immobilità, mi alzai sul letto e buttai le braccia al collo della nonna.
La nonna felice di questa accoglienza aveva già cominciato a sgridare la figlia perché l’aveva fatta preoccupare inutilmente , ma le parole le si troncarono in gola perché dopo pochi secondi mi accasciai fra le sue braccia e ricaddi sul letto.
Momenti drammatici che sono rimasti dentro di me per sempre e che da allora hanno spesso condizionato la mia vita.
Costretta a rimanere sdraiata a letto senza potermi muovere , mi imboccavano per mangiare, anzi dovevo mangiare, a detta del dottore, per contrastare l’effetto distruttivo di certi farmaci che ero costretta a prendere.
Lentamente le cure cominciarono a fare effetto ed io potei ricominciare a muovermi un poco per volta.
Quell’anno non potei certo andare a scuola, ma, quando cominciai a stare meglio, le mie compagne mi portavano la lezione che la maestra assegnava loro e così io potevo studiare anche senza andare a scuola.
Ogni giorno veniva anche una maestra a casa e anche se io ero sempre a letto, con lei potevo studiare per non perdere l’anno.
Avrei dovuto frequentare la terza classe della scuola elementare e, a quei tempi c’era da studiare anche storia, geografia e scienze.
A me piaceva tanto la storia e siccome piaceva tanto anche a mio padre, quando poteva si fermava un po’ con me a farmi ripetere la storia e in particolare la storia della mia città con tutti i suoi monumenti, argomento questo scelto appunto dalla maestra.
Avevo visto solo poche volte la maestra perché a quei tempi la scuola iniziava ad ottobre ed io mi ero ammalata proprio dopo le prime settimane per cui la maestra non era ancora riuscita a conoscere tutti gli alunni.
A primavera inoltrata, con la bella stagione, i dolori erano scomparsi e il medico disse che potevo provare a tornare a scuola.
Mia madre, pur con tante preoccupazioni e paure, ogni mattina, nonostante che la bella stagione ormai fosse alle porte, continuava a vestirmi tutta con indumenti di lana per timore che prendessi freddo.
Per me era un imbarazzo enorme vedermi vestita in quel modo mentre le mie compagne indossavano già abiti più leggeri, ma non avrei potuto fare altrimenti.
Del resto lo stare chiusa in casa, in un letto, tutto l’inverno, era stato veramente difficile e avevo anche bisogno di stare un po’ con le amichette della mia età.
Il rientro a scuola fu a dir poco traumatico ma in realtà anche di soddisfazione.
Nemmeno a farlo apposta il giorno del mio rientro la maestra ricevette la visita dell’ispettore scolastico che a fine anno faceva la visita in tutte le classi per dare la valutazione agli insegnanti.
La mia maestra era molto nervosa quella mattina, mi salutò affrettatamente e mi mise all’ultimo banco anche perché sono sempre stata la più alta della mia classe e mi disse anche di non preoccuparmi e di non aprire bocca.
Ero agitata da una parte ma euforica dall’altra, sapevo di avere studiato tutto l’inverno e mi sentivo anche piuttosto sicura di quello che avevo studiato soprattutto mi sentivo forte in storia.
L’ispettrice, con aria severa passava in mezzo ai banchi, guardava i quaderni e faceva delle domande in qua e là e dava la possibilità di alzare la mano se un alunno avesse voluto rispondere.
Nonostante le raccomandazioni della maestra, alla domanda di storia sui monumenti della mia città, non potei fare a meno di alzare la mano.
La maestra terrorizzata si affrettò a dire all’ispettrice di non tener conto di me perché ero stata ammalata e che ero rientrata proprio quella mattina.
Una parte dentro di me si ribellò e, noncurante quello che la maestra stava dicendo, mi rivolsi all’ispettrice dicendo:
- Ma io so rispondere.
L’ispettrice venne in mia difesa e disse alla maestra:
- Se la bambina si sente di rispondere, lasciamola parlare.
Ero fiera di me, avevo studiato tutta la storia dei monumenti cittadini, sapevo quando erano stati costruiti, sapevo gli architetti e tutto quello che c’era da sapere e lo dissi tutto d’un fiato, senza mai fermarmi, lasciando meravigliati tutti, soprattutto la maestra e mi presi pure i complimenti dell’ispettrice.
Che cosa potevo sperare di più.
Questa esperienza scolastica ha segnato negli anni la mia vita di studente e anche quando sono stata più grande, non ho mai perso la voglia di studiare e di apprendere, sostenuta da una curiosità di imparare sempre cose nuove e di mettermi in gioco sempre.
Durante la malattia la lettura e lo studio erano state le uniche cose che erano riuscite a darmi la motivazione e la forza di reagire e che mi facevano allo stesso tempo sognare paesi e mondi diversi dal mio, anche perché non dobbiamo dimenticare che a quei tempi la televisione non era entrata ancora in tutte le case ed era difficile immaginarsi i deserti, la giungla, le terre polari e tante altre cose che per un bambino di oggi sono diventati normali perché li vedono in televisione, al cinema, nei cartoni animati.
Mi ci volle un anno intero per guarire, le cure dei medici e l’amore dei miei genitori e della mia nonna mi portarono alla completa guarigione senza lasciarmi strascichi fisici di nessun genere se non una tendenza ad ingrassare dovuta a tutto il cortisone che ero stata costretta a prendere in quell’anno.
Posso dire che la passione per lo studio fu un aspetto positivo di quell’esperienza negativa , ma non posso certo dimenticare anche le altre conseguenze che mi hanno accompagnato negli anni come quella di dovermi coprire di lana per non prendere freddo, di non poter fare il bagno in mare per cinque anni e se uno pensa che abitavo a pochi metri dal mare, si può anche immaginare la sofferenza che tutto questo mi aveva procurato in quegli anni, soprattutto perché i miei genitori erano diventati sempre più iperprotettivi nel timore che potessi ammalarmi di nuovo.
A distanza di anni mi ero abituata alle raccomandazioni di mia madre: non prendere freddo, mettiti la sciarpa, non fare il bagno, asciugati bene i capelli, non tenere troppo le mani nell’acqua, non fare il bagno se l’acqua è fredda e così potrei continuare ancora all’infinito.
Mi sentivo condizionata, prigioniera e più gli anni passavano più rimuginavo dentro di me come poter uscire da quella gabbia e la soluzione la trovai quando, appena adolescente, allo scadere dei fatidici cinque anni, decisi di fare tutto quello che non avevo mai fatto da quando ero bambina.
La prima cosa che mi tolsi fu la maglietta di lana, cominciai ad alleggerirmi in tutti i sensi e soprattutto ripresi a fare il bagno in mare.
Il mare lo adoro in modo particolare, l’ho sempre amato, mi piace il mare d’estate, mi piace il mare d’inverno, mi piace quando è calmo e quando è mosso, mi piace quando è azzurro e trasparente e quando è limaccioso.
Mi chiedo ancora oggi come possa essere riuscita a stare lontana dal mare per tutti quegli anni e spesso ripenso al sacrificio che ho fatto quando potevo solo guardarlo.
Ho vinto allora una sfida con me stessa, ma il mio tribolare non era ancora cessato e forse non finirà mai.
Quando divenni madre, le paure che avevo cercato di allontanare da me, ritornarono per le mie figlie.
Avevo paura per loro e il rischio era quello di condizionarle come mia madre aveva fatto con me per il troppo amore.
Negli anni ho imparato a controllarmi, a non esprimere le mie paure, a non essere una madre apprensiva, ed ora riesco a tenerle nascoste, ma sono ancora latenti dentro di me, così come la voce di mia madre che continua a farmi le sue raccomandazioni.
Era fine ottobre, la temperatura si era improvvisamente abbassata e l’influenza stava mietendo famiglie intere.
Persino mia madre si ammalò, io non l’avevo mai vista a letto, ma quell’anno le venne una febbre così alta che non ce la faceva ad alzarsi.
Io a quei tempi vivevo in un paesino sul mare, un paesino come ce ne sono tanti lungo le nostre coste, tutto squadrato, con tre strade parallele, la prima sul lungomare, la seconda subito dietro e la terza parallela alla pineta.
Ci conoscevamo tutti ed eravamo una grande famiglia.
Quel giorno mia madre, costretta a rimanere a letto, mi disse di andare a prendere il pane al panificio proprio accanto a casa nostra.
A quei tempi le automobili che circolavano erano proprio poche e semmai potevano passare persone in bicicletta o in motorino, ma io non avrei neanche dovuto attraversare la strada e questo rendeva tranquilla mia madre perché già altre volte mi aveva mandato a prendere qualcosa nei negozi sotto casa: il panificio, il negozio di frutta e verdura, la macelleria e la latteria, anzi volevo andare sempre io a prendere il latte perché il lattaio aveva una figlia dela mia stessa età e noi due giocavamo sempre insieme, quando non eravamo a scuola. Andavo a prendere il latte con un tegamino con il coperchio e anche se da casa mia la bottega distava solo pochi metri, io impiegavo sempre un sacco di tempo perché mi mettevo a giocare insieme alla mia amica e mi dimenticavo persino il motivo per cui ero uscita.
C’era sempre un tempo massimo e quando lo superavo, me ne accorgevo sentendo la voce di mia madre che mi chiamava e che veniva a recuperarmi per riportarmi a casa.
Quel giorno però ero molto preoccupata per la mia mamma che stava male e preso il pane volevo correre subito a casa, me lo ricordo come se fosse ora, ma quel giorno non riuscivo assolutamente a correre, mi faceva male l’alluce del piede destro e rientrai a casa zoppicando e piangendo.
Mia madre mi chiese subito cosa mi fosse successo, soprattutto voleva sapere se fossi caduta o altro, ma io, piangendo, le rispondevo che non avevo fatto niente e che mi faceva solo tanto male un piedino.
Dapprima la mamma cercò di darmi coraggio e di minimizzare il mio dolore, ma quando vide che io stavo sempre più male, si alzò prontamente dal letto per prendermi in braccio e accadde una cosa che nessuno di noi si sarebbe mai immaginato: mi ritrovai tutta paralizzata e non potevo più muovere né le braccia né le gambe.
La mamma spaventata mi mise a letto e chiamò subito il dottore e mio padre che era al lavoro.
“Dolori articolari acuti” fu la diagnosi implacabile del dottore che in un primo tempo mi voleva far ricoverare subito nell’ ospedale della vicina città, ma i miei genitori, sentito anche il parere del medico, optarono per tenermi a casa e curarmi così sotto il controllo del pediatra.
Quell’anno ci furono diversi casi come il mio e tutti erano bambini della mia stessa età.
Non potevo muovermi, stavo sempre sdraiata a letto ed ero costretta a prendere un sacco di iniezioni e pasticche di tutti i colori. Mi ricordo che la mamma teneva sul cassettone un foglio con l’elenco di tutte le medicine che dovevo prendere nell’arco della giornata: ore 9, pasticca gialla; ore 10 pasticca rossa e così per tutto il giorno.
I giorni passavano uno dopo l’altro, mia madre era disperata non solo per vedermi in quello stato, ma anche perché vegliava su di me notte e giorno e temeva di non farcela.
Sua madre, ovvero mia nonna, pur abitando lontana, decise alla fine di trasferirsi da noi per starmi più vicina. Io avevo sempre voluto un bene enorme alla mia nonna materna e quando la mamma mi avvertì che sarebbe venuta a stare con noi, ero piena di gioia anche se non riuscivo ad esprimerlo apertamente.
Sentii la voce della nonna sulle scale, la vidi entrare nella mia camera e avvicinarsi al letto e dentro di me non so cosa accadde, ma improvvisamente, dopo settimane di immobilità, mi alzai sul letto e buttai le braccia al collo della nonna.
La nonna felice di questa accoglienza aveva già cominciato a sgridare la figlia perché l’aveva fatta preoccupare inutilmente , ma le parole le si troncarono in gola perché dopo pochi secondi mi accasciai fra le sue braccia e ricaddi sul letto.
Momenti drammatici che sono rimasti dentro di me per sempre e che da allora hanno spesso condizionato la mia vita.
Costretta a rimanere sdraiata a letto senza potermi muovere , mi imboccavano per mangiare, anzi dovevo mangiare, a detta del dottore, per contrastare l’effetto distruttivo di certi farmaci che ero costretta a prendere.
Lentamente le cure cominciarono a fare effetto ed io potei ricominciare a muovermi un poco per volta.
Quell’anno non potei certo andare a scuola, ma, quando cominciai a stare meglio, le mie compagne mi portavano la lezione che la maestra assegnava loro e così io potevo studiare anche senza andare a scuola.
Ogni giorno veniva anche una maestra a casa e anche se io ero sempre a letto, con lei potevo studiare per non perdere l’anno.
Avrei dovuto frequentare la terza classe della scuola elementare e, a quei tempi c’era da studiare anche storia, geografia e scienze.
A me piaceva tanto la storia e siccome piaceva tanto anche a mio padre, quando poteva si fermava un po’ con me a farmi ripetere la storia e in particolare la storia della mia città con tutti i suoi monumenti, argomento questo scelto appunto dalla maestra.
Avevo visto solo poche volte la maestra perché a quei tempi la scuola iniziava ad ottobre ed io mi ero ammalata proprio dopo le prime settimane per cui la maestra non era ancora riuscita a conoscere tutti gli alunni.
A primavera inoltrata, con la bella stagione, i dolori erano scomparsi e il medico disse che potevo provare a tornare a scuola.
Mia madre, pur con tante preoccupazioni e paure, ogni mattina, nonostante che la bella stagione ormai fosse alle porte, continuava a vestirmi tutta con indumenti di lana per timore che prendessi freddo.
Per me era un imbarazzo enorme vedermi vestita in quel modo mentre le mie compagne indossavano già abiti più leggeri, ma non avrei potuto fare altrimenti.
Del resto lo stare chiusa in casa, in un letto, tutto l’inverno, era stato veramente difficile e avevo anche bisogno di stare un po’ con le amichette della mia età.
Il rientro a scuola fu a dir poco traumatico ma in realtà anche di soddisfazione.
Nemmeno a farlo apposta il giorno del mio rientro la maestra ricevette la visita dell’ispettore scolastico che a fine anno faceva la visita in tutte le classi per dare la valutazione agli insegnanti.
La mia maestra era molto nervosa quella mattina, mi salutò affrettatamente e mi mise all’ultimo banco anche perché sono sempre stata la più alta della mia classe e mi disse anche di non preoccuparmi e di non aprire bocca.
Ero agitata da una parte ma euforica dall’altra, sapevo di avere studiato tutto l’inverno e mi sentivo anche piuttosto sicura di quello che avevo studiato soprattutto mi sentivo forte in storia.
L’ispettrice, con aria severa passava in mezzo ai banchi, guardava i quaderni e faceva delle domande in qua e là e dava la possibilità di alzare la mano se un alunno avesse voluto rispondere.
Nonostante le raccomandazioni della maestra, alla domanda di storia sui monumenti della mia città, non potei fare a meno di alzare la mano.
La maestra terrorizzata si affrettò a dire all’ispettrice di non tener conto di me perché ero stata ammalata e che ero rientrata proprio quella mattina.
Una parte dentro di me si ribellò e, noncurante quello che la maestra stava dicendo, mi rivolsi all’ispettrice dicendo:
- Ma io so rispondere.
L’ispettrice venne in mia difesa e disse alla maestra:
- Se la bambina si sente di rispondere, lasciamola parlare.
Ero fiera di me, avevo studiato tutta la storia dei monumenti cittadini, sapevo quando erano stati costruiti, sapevo gli architetti e tutto quello che c’era da sapere e lo dissi tutto d’un fiato, senza mai fermarmi, lasciando meravigliati tutti, soprattutto la maestra e mi presi pure i complimenti dell’ispettrice.
Che cosa potevo sperare di più.
Questa esperienza scolastica ha segnato negli anni la mia vita di studente e anche quando sono stata più grande, non ho mai perso la voglia di studiare e di apprendere, sostenuta da una curiosità di imparare sempre cose nuove e di mettermi in gioco sempre.
Durante la malattia la lettura e lo studio erano state le uniche cose che erano riuscite a darmi la motivazione e la forza di reagire e che mi facevano allo stesso tempo sognare paesi e mondi diversi dal mio, anche perché non dobbiamo dimenticare che a quei tempi la televisione non era entrata ancora in tutte le case ed era difficile immaginarsi i deserti, la giungla, le terre polari e tante altre cose che per un bambino di oggi sono diventati normali perché li vedono in televisione, al cinema, nei cartoni animati.
Mi ci volle un anno intero per guarire, le cure dei medici e l’amore dei miei genitori e della mia nonna mi portarono alla completa guarigione senza lasciarmi strascichi fisici di nessun genere se non una tendenza ad ingrassare dovuta a tutto il cortisone che ero stata costretta a prendere in quell’anno.
Posso dire che la passione per lo studio fu un aspetto positivo di quell’esperienza negativa , ma non posso certo dimenticare anche le altre conseguenze che mi hanno accompagnato negli anni come quella di dovermi coprire di lana per non prendere freddo, di non poter fare il bagno in mare per cinque anni e se uno pensa che abitavo a pochi metri dal mare, si può anche immaginare la sofferenza che tutto questo mi aveva procurato in quegli anni, soprattutto perché i miei genitori erano diventati sempre più iperprotettivi nel timore che potessi ammalarmi di nuovo.
A distanza di anni mi ero abituata alle raccomandazioni di mia madre: non prendere freddo, mettiti la sciarpa, non fare il bagno, asciugati bene i capelli, non tenere troppo le mani nell’acqua, non fare il bagno se l’acqua è fredda e così potrei continuare ancora all’infinito.
Mi sentivo condizionata, prigioniera e più gli anni passavano più rimuginavo dentro di me come poter uscire da quella gabbia e la soluzione la trovai quando, appena adolescente, allo scadere dei fatidici cinque anni, decisi di fare tutto quello che non avevo mai fatto da quando ero bambina.
La prima cosa che mi tolsi fu la maglietta di lana, cominciai ad alleggerirmi in tutti i sensi e soprattutto ripresi a fare il bagno in mare.
Il mare lo adoro in modo particolare, l’ho sempre amato, mi piace il mare d’estate, mi piace il mare d’inverno, mi piace quando è calmo e quando è mosso, mi piace quando è azzurro e trasparente e quando è limaccioso.
Mi chiedo ancora oggi come possa essere riuscita a stare lontana dal mare per tutti quegli anni e spesso ripenso al sacrificio che ho fatto quando potevo solo guardarlo.
Ho vinto allora una sfida con me stessa, ma il mio tribolare non era ancora cessato e forse non finirà mai.
Quando divenni madre, le paure che avevo cercato di allontanare da me, ritornarono per le mie figlie.
Avevo paura per loro e il rischio era quello di condizionarle come mia madre aveva fatto con me per il troppo amore.
Negli anni ho imparato a controllarmi, a non esprimere le mie paure, a non essere una madre apprensiva, ed ora riesco a tenerle nascoste, ma sono ancora latenti dentro di me, così come la voce di mia madre che continua a farmi le sue raccomandazioni.
Scrittura creativa scritta il 29/10/2013 - 10:05
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