L'uomo dalle forbici d'oro
Il mio cruccio sono sempre stati i capelli, caduchi come le foglie dei tigli del viale in autunno.
La calvizie precocissima che aveva lasciato scoperto gran parte del cranio già prima dei vent’anni, mi assillava e faceva sclerare il barbiere quando passavo da lui per farmi rimettere a posto i radi e lunghi capelli il sabato sera poco prima che chiudesse, dopo esserci già stato di buon mattino, perché il solito colpo di vento malandrino scompigliandoli li aveva fatti garrire come uno stendardo al vento; allora lui, sbuffando e sacramentando tra sé, rimetteva mano al lavoro concluso poche ore prima e con geniali giravolte di spazzola, oltre a un consumo industriale di lacca, s’incaricava di ridistribuire i resti di quella che era stata una folta chioma fulva, dentro l’intera area della calotta cranica.
La bottega di Fortunato, ovvero: “L’uomo dalle forbici d’oro”, così sopranominato per le forbici dorate vinte in un gara per parrucchieri in ambito regionale, forbici che aveva incorniciato e orgogliosamente esposte in vetrina, era frequentata da molti giovani; questo per la sua abilità nel taglio e per la costante applicazione nell’aggiornarsi sui tagli che andavano di moda. Era davvero bravo, il cinquantenne Fortunato… bravo, e basta! Perché in quanto a simpatia… beh, lasciamo perdere che è meglio. E’ incredibile come un tipo arrogante e spocchioso potesse avere una così vasta e varia clientela.
Dopo questo “dovuto preambolo”, veniamo ai fatti che mi fecero scoprire un altro e questa volta gradito aspetto del sul carattere: il coraggio di mettersi in gioco per difendere qualcun altro.
Il sabato mattina ci si doveva alzare presto, se non si voleva trovare il pienone da Fortunato. Io, alle otto passate da qualche minuto, ero davanti alla sua vetrina che ammiravo il manifesto attaccato al vetro che reclamizzava un miracoloso prodotto contro la caduta dei capelli. “Sarà poi vero?”, mi domandai.
Afferrai il maniglione in acciaio e spingendolo con decisione entrai. «Fortunato, ho visto la pubblicità…» feci appena in tempo ad esclamare, prima che lui spegnesse il phon e puntandomi gli occhi addosso mi zittisse. Poi senza proferire verbo, indicando con lo sguardo il salottino dove c’era già il mio amico Roberto, mi fece capire come comportarmi e dove accomodarmi.
Senza aggiungere altro andai a sedermi accanto a Roberto. Solo allora Fortunato riaccese il phon e tornò ad occuparsi del cliente.
«Ciao, Roberto» esordii con un tono contenuto.
«Ciao Massimo!» esclamò lui in tono squillante.
Fortunato spense di nuovo il phon e, puntandogli addosso due occhi inquietanti, lo redarguì duramente: «Ehi, ragazzo! A casa d’altri ci si comporta da persone civili, non si sbraita! Hai capito?»
Roberto abbassò il capo e annuì.
«Cos’è? Hai perso la lingua?» insistette Fortunato.
«Scusa… Fortunato», balbettò Roberto.
Fortunato sbuffò. «Proprio non la insegnano i genitori l’educazione, al giorno d’oggi», commentò poi, rivolgendosi al cliente seduto sulla poltrona.
«Per insegnarla bisognerebbe prima impararla, l’educazione. Lasciatelo dire da uno che alla fine di ogni trimestre ci deve discutere, con certi genitori zoticoni, caro Fortunato.», replicò quello con fare saccente: era un vecchio professore di matematica che insegnava alle scuole medie.
Fortunato annuì, riattaccò il phon e terminò di asciugargli i capelli.
Io e Roberto lo guardavamo intimoriti muoversi attorno al cliente. Ad incutere timore non era sicuramente il fisico mingherlino, ma il camice da lavoro nero, come gli occhietti mobili e profondi, il pizzetto da moschettiere e i lunghi capelli raccolti in una coda dietro la nuca che, assieme all’espressione perennemente imbronciata indossata sopra il volto emaciato, gli donavano un non so che di mefistofelico, se vogliamo. Una vera carogna consapevole della propria bravura, che si permetteva, chissà poi perché, di trattare i giovani clienti a pesci in faccia.
Quando spense il phon, io e Roberto riprendemmo a conversare, mantenendo per non disturbare il manovratore, il volume prossimo a quello ecumenico usato da Fortunato mentre, conversando, assestava gli ultimi colpi di pettine all’acconciatura all’umbertina del professor Pieri.
“Sembra una nuvola di fumo sopra la capoccia”, ebbi a pensare osservando i capelli radi e grigi del professore riflessi nello specchio a lavoro finito.
Il professore si alzò dalla poltrona e andando verso la cassa si arrestò davanti a noi. «Allora, giovanotti, cosa fate di bello oggi?» ci domandò.
Stavo per rispondere ma Fortunato, da dietro la cassa, mi anticipò: «Avanti e indietro lungo il corso. I vitelloni, solo quello sanno fare, professore».
Il professore rise di gusto e si diresse alla cassa. Fortunato rimase serio, prese il denaro che gli porgeva il professore e lo salutò: «Buona giornata, professore».
«Anche a te, Fortunato, anche a te», ribatté. Prima di uscire si volse verso di noi. «Anche a voi… vitelloni!» e giù una grassa risata mentre afferrava il maniglione della porta.
Fortunato si guardò allo specchio, prese la forbice e si mise a regolare il pizzetto, mentre Roberto si accomodava sulla poltrona.
Fortunato volse lo sguardo alla propria destra. «Che ci fai seduto lì?» gli domandò con le forbici in mano.
«Tocca a me, è il mio turno», rispose pacifico Roberto.
«Se permetti, lo decido io di chi è il turno», obiettò Fortunato, appoggiando le forbici sul banco.
Roberto sbuffò e si alzò.
«E adesso, dove vai?» domandò allora Fortunato, incrociano le braccia.
Roberto non riusciva più a raccapezzarsi, aprì la bocca per ribattere ma non disse nulla e si limitò a stringersi nelle spalle allargando le braccia.
«Siediti, avanti!» comandò Fortunato, indicando la poltrona: con un fare da boia che indica la sedia elettrica, ebbi a pensare in quel momento.
Quando Roberto gli spiegò che voleva i capelli molto vaporosi, Fortunato ne comprese il motivo. «Dunque tu pensi che gonfiando la chioma come una mongolfiera, sembrerai molto più alto», esordì guardando il cielo plumbeo fuori dalla vetrina.
«Perché, non è così?» domandò timidamente Roberto.
«No!» rispose seccamente. Mostrò tre dita della mano aperte. «Primo perché la statura che conta è quella morale… secondo perché fra poco andrà a piovere e con le prime gocce si sgonfierebbe come un sufflè mal riuscito…» concluse, lasciando Roberto a pendere disperato dalle sue labbra.
«E terzo?» mi sovvenne di chiedergli in automatico.
Fortunato mi dedicò uno dei suoi migliori sorrisi sardonici. «Terzo… né tu, né tanto meno lui avete i capelli adatti alla bisogna!»
«Perché, cos’hanno i nostri capelli?» saltò su Roberto.
Fortunato indicò la mia testa. «Purtroppo, i suoi sono troppo radi…» infierì con fare fintamente desolato. Volse lo sguardo sulla testa di Roberto, fece scorrere una ciocca di capelli tra le dita e sentenziò. «I tuoi troppo sottili, non starebbero su neanche col silicone».
Roberto si toccò i capelli, stava per ribattere a tono quando la porta si spalancò e Antonio entrò trafelato e rosso in volto.
«Ti pare questo il modo di entrare?!» sbottò Fortunato.
«Scusa… scusa ma sto scappando. Se mi becca Sandokan mi ammazza di botte!» si giustificò Antonio. Al che io e Roberto strabuzzammo gli occhi.
Sandokan, al secolo Mario Carloni, era un attaccabrighe di prima categoria, per questo noi ragazzi cercavamo di girargli al largo. Anche Antonio, da quel che ci era dato sapere era solito girargli molto al largo, anche perché era impegnato a girare troppo allo stretto con la sorella del Carloni; per questo motivo, un mese prima, Sandokan aveva minacciato di “spiezzarlo in due”, se lo avesse colto a meno di un isolato da sua sorella. Ma quel sabato mattina, Mario Carloni detto Sandokan, vedendo la sorella controllare l’abbigliamento davanti allo specchio prima di uscire a fare la spesa, aveva mangiato la foglia e l’aveva seguita di nascosto.
«Sandokan? E chi sarebbe Sandokan?» domandò Fortunato, lisciandosi il pizzetto.
In quel preciso istante, un energumeno con indosso una maglietta grigia che pareva dipinta sul possente torace da quanto era stretta, irruppe nella bottega. «Tu! Vieni fuori che ti devo menare, svelto!» comandò con voce baritonale, puntando l’indice contro il tremolante Antonio.
«Ma io… io non ho fatto niente… l’ho incrociata per caso tua sorella… te lo giuro… lo giuro su mia madre, Sandokan» balbettò un’improbabile scusa Antonio.
«Lascia perdere i giuramenti, veri o falsi che siano, e vai a sederti là e aspetta il tuo turno!» s’intromise Fortunato, indicando il salottino dove io e Roberto assistevamo atterriti alla scena.
«Non t’impicciare, piccoletto!» fece Sandokan, gonfiando i poderosi bicipiti e avvicinando il grugno al volto di Fortunato. «Lui ora viene via co me!»
«Non credo proprio», ribatté calmo Fortunato. «Lui ora aspetta il suo turno… e tu, visto che non sei un mio cliente… e per dirla tutta: manco ci tengo a mettere le mani dentro quel cespuglio di rovi. Tu fai il bravo e te ne vai… d’accordo?»
Io e Roberto, che nel frattempo aveva abbandonato la poltrona ed era sgattaiolato nel salottino, ci guardammo terrorizzati: in quel mentre pensammo che Sandokan avrebbe distrutto la bottega del barbiere con noi dentro.
Antonio, approfittando del duello verbale e a colpi di sguardi, quatto quatto venne a ripararsi in mezzo a noi due.
«Vieni fuori un attimo e te lo dimostro come sono d’accordo!» replicò a muso duro, serrando i pugni, Sandokan.
La reazione di Fortunato ci lasciò stupefatti. «Non è mio costume dare spettacolo sulla pubblica via…» cominciò a dire con una calma disarmante. Indicò la porta che dava sul cortile interno. «Ma se proprio ci tieni a farti male… possiamo andare un minuto là dietro. Ti assicuro che poi non ti dovrai vergognare; nessuno vedrà come ti ho conciato… e per quel che mi riguarda, non aprirò bocca. Hai la mia parola!»
Sandokan ascoltava basito quell’uomo, grande e grosso la metà di lui, sfidarlo con una sicurezza disarmante. Nel suo sguardo potevi leggerci ira e sconcerto. Alla fine rimase lì, interdetto senza riuscire a proferire verbo.
Lo sguardo di Fortunato era neutro, non esprimeva tensione, né paura. Una sfinge. «Allora, cosa decidi di fare?», lo incalzò, iniziando a sbottonarsi il camice nero. «Vedi di sbrigarti, eh? Che io ho da lavorare. Mica posso stare alle tue danze!» concluse con un pizzico d’ironia mentre appoggiava il camice sulla poltrona.
Sandokan tentennava ancora. Allora Fortunato intrecciò le mani e fece scrocchiare le dita. «Io sono pronto...» alzando un sopracciglio indicò la porta sul retro, «vogliamo andare?»
«Vai al diavolo, barbiere del cazzo!» berciò Sandokan. Afferrò il maniglione, aprì la porta e, puntando l’indice contro Antonio lo minacciò: «Tu! Gira al largo da mia sorella se non vuoi fare una brutta fine!»
Antonio si rannicchiò in un angolo, mormorando un timido: «Va bene».
Poi Sandokan puntò l’indice contro Fortunato. «Non finisce mica qui…»
«Invece finisce proprio qui. E ti conviene andartene a casa di corsa…» lo interruppe con tono fermo e deciso Fortunato, poi indicò con lo sguardo la strada, «sta iniziando a piovere, tra poco verrà giù il cielo e allora quella maglietta lì ti servirà a poco. Dammi retta, non vorrei che ti beccassi un raffreddore per colpa mia!»
Sandokan mugugnò ancora qualcosa d’incomprensibile e, soffiando dalle narici come un toro infuriato, se ne andò.
Stavamo per complimentarci. Fortunato lo comprese e ci zittì passandoci in rassegna con lo sguardo torvo di sempre. «Non dite niente, se non volete che vi cacci a pedate!» ci intimò mentre indossava il camice. «Non è stato uno spettacolo edificante… non c’è niente di eroico o di cui andarne fiero… perciò, chiudiamola qui! D’accordo, ragazzi?» ci chiese con il fare dispiaciuto di chi è stato costretto dagli eventi a compiere un’azione contraria ai suoi principi.
Antonio annuì senza proferire verbo, mentre io e Roberto ci limitammo a un laconico: «Sì».
«Sotto, Roberto, tocca a te!» esclamò allora Fortunato, battendo con la mano sulla seduta della poltrona. «Vediamo se mi riesce il miracolo di metterti in testa una bella mongolfiera», guardò fuori dalla vetrina: ora la pioggia si era fatta battente. Sospirò. «Lavoro inutile, soldi buttati, tanto appena uscirai si sgonfierà tutto…»
«Come un sufflè mal riuscito», mi sovvenne di concludere in vece sua.
«Bravo!» fece Fortunato, puntandomi contro il pettine e sorridendo serenamente per la prima volta.
E in quel momento, considerando anche quello che lo avevo visto fare, ebbi a pensare che forse non era poi così arrogante e spocchioso… L’uomo dalle forbici d’oro.
FINE
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Ti ringrazio.
Un saluto e un abbraccio, amica di penna e pedale. Ciao Paola.
Molto carina questa storia e come sempre hai saputo caratterizzare bene i protagonisti, dando ad ognuno una personalità ben precisa.
Poi il racconto ha anche un finale quasi educativo, che fa riflettere sul fatto che non sempre la prima impressione ci mostra la verità sulle persone.
Tu rappresenti uno di quegli autori le cui storie leggo volentieri, anche per imparare
Un caro e sincero saluto