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UNA LETTERA

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Lettera a Emma

Dieci anni da allora con scarponi infangati, la schiena che grondava sudore e, io, tua madre e ceste di pesche alcune ancora vuote.
C’era il sole, un sole caldo.
Ti vedemmo arrivare con l’allegria e il sorriso dei tuoi quattordici anni. Non c’è alcuna ombra nel sorriso della fresca gioventù.
Tu non sapevi, noi non immaginavamo.
Non eri venuta per aiutarci, né per lamentarti di quel piccolo dolore.
Così, solo una passeggiata fino al pescheto.
Mangiasti una pesca e il succo scendeva a sporcarti il viso col sapore dolce del velluto, una perfetta simbiosi, un bacio reciproco di bellezza.
Ridevamo dei ponfi lasciati dalle ortiche sulle tue tenere mani.
Un giorno mai divenuto passato, sotto i peschi c’è sempre il tuo sorriso e la tua anima.
E’ un affresco nella memoria dipinto di eternità.
Sai, mi disse tua madre dopo che, saltellando, ti allontanasti, “ è da un po’ di giorni che lamenta un dolore al fianco all’altezza del femore” .
Forse saranno disturbi ormonali legati all’età le risposi rassicurandola.
Ci credevo quando lo dissi.
Dopo alcuni giorni come una lenta e lunghissima eclissi le tenebre avvolsero i cuori a te più cari.
Iniziò un gemellaggio impari tra dolore e speranza. Come si gemella ora la mia vita tra i ricordi felici che leggo nei tuoi occhi e nel tuo ricordo, tra il tuo passato e il tuo futuro e la mia assenza nel tuo presente dove vive il tutto senza passato né futuro.
Non so se ti sei risparmiata più gioia o più dolori, l’unica certezza è la freschezza della tua immagine immortalata nei nostri occhi. È facile parlare con chi sai che non ti ascolta, lo so che è un paradosso ma è così, come è facile parlare anche con chi ti ascolta, il difficile è parlare con chi finge di ascoltarti. Per questo ora parlo con te che non puoi ascoltarmi, parlo con Dio che di sicuro m’ascolta e taccio con gli altri. Sai, in certi occhi vedo l’assenza del presente, del futuro e una corsa all’edonismo, una corsa con tante mete senza una meta, neppure per quella certa. Non capisco tante cose forse perché voglio spiegarle con i miei desideri, senza tenere conto che sono desideri ormai indesiderati, volontariamente chiusi in uno scrigno del quale ho gettato la chiave. Se ora tu mi chiedessi cosa vuoi dalla vita io ti risponderei nulla di più di quello che ho imparato ad avere. Come avevamo cercato, lottato per chiudere la tua vita nella vita! Senza tenere conto che un altro volere, più forte di noi, aveva già deciso che la tua vita aveva bisogno di volare oltre le miserie umane. Noi non capiamo la ragione di chi ha ragione se questa ragione contrasta con la nostra voglia di possedere ciò che amiamo oltre ogni razionalità. Eccoci qua entrambe nell’al di là seppure una delle due ancora cammina sotto le nuvole. Forse dovrei dimenticare come tu certamente hai fatto, il sapore dolce delle pesche mature, dovrei cercare la vita nella vita quella che raccatto raccogliendo le briciole che nemmeno ci sono, inventandole cadute da un pezzo di pane ancora fresco di giornata.
Qui le cose non cambiano mai anzi peggiorano sempre di più perché noi peggioriamo ogni giorno di più. Sempre alla ricerca di quello che non ci serve e a buttare via quello che abbiamo. Mi rendo conto che non può esserci gemellaggio fra il cielo e la terra almeno non fra me e te ma con Dio si.
Con Dio l’uomo può avere l’obiettivo di affrontare i propri problemi e di instaurare con Lui lo stretto legame di paternità e dichiarare con orgoglio una finalità di intenti e di traguardi comuni.
L’uomo in questo trait d’union non dovrebbe perdere di vista la propria debolezza e l’altrui forza al fine di perseguire il proprio bene. Vivere in questo marasma dove nemmeno i giovani riescono a godere della propria gioventù e il potere della bellezza, non sanno che i fiori appassiscono e solo allora desidereranno ammirarli nei loro colori e nei loro profumi che non tornano più. Anche io talvolta mi soffermo, invidiando me stessa, a guardare vecchie immagini di tanto tempo fa quando il mondo nessuno me l’aveva strappato dalle mani, quando lo specchio mi rifletteva solo bellezza e purezza e la mia mente era ferma ad apprezzare come te soltanto il succo dolce che grondava dalle pesche mature ed era lontano il pensiero dell’incanutimento. Quando le giornate non conoscevano nessuna pigrizia come gli uccelli che cantano saltando da un ramo all’altro nonostante la pioggia.
E come facevi tu ridevo di tutto anche se restavo indietro, anche se ero in testa. Non mi preoccupavo della meta del mio correre ma soltanto di correre, né tanto meno di quanto fosse lungo il tragitto forse perché pensavo, come te, fosse tanto lungo. Ora so che tu ti sbagliavi e io no ma non so chi di noi due sia da invidiare, non dipende da noi. Forse ti vedevi a ottanta anni ballare il valzer con il tuo uomo ma vedi può darsi che non si sarebbe avverato perché l’uomo fa molti viaggi qui sulla terra, non gli piace fermarsi in un solo luogo. Forse avresti tinto i capelli, ti saresti ingrassata e messa a dieta, chi può dirlo? Forse avresti peccato di crudeltà verso qualcuno o con te stessa imbrigliando i tuoi sogni nella rete di un altro pescatore per poi invidiare i sognatori liberi. Forse a sedici anni sapevi già cosa fare da grande: nessuno te l’ha mai chiesto perché non era così importante, era importante solo diventare grandi. Sapessi quanti grandi non sanno ancora cosa fare. Avresti scelto fra tante la tua strada o qualcuno l’avrebbe scelta per te? Comunque sarebbe andata la felicità non è di questo mondo viviamo con troppi se e troppi ma. Ci colpevolizziamo troppo o troppo poco o per niente, come ci piace essere adulati anche immeritatamente forse per un senso di accettazione che non riusciamo a scovare in noi stessi e ci accontentiamo di quello degli altri seppure non veritiero. Non c’è niente da fare viviamo della nostra crosta e non del noi stessi. È così difficile mantenersi sano quaggiù. Viviamo senza precauzioni e ci accorgiamo di non aver assunto abbastanza calcio solo quando le nostre ginocchia mancano al nostro sostegno perché partite per sempre. Le scelte che facciamo comunque esse vadano sono scommesse perciò non dovremmo congratularci troppo con noi stessi né tanto meno rimproverarci molto. Chissà come fa la gente ad usare il proprio corpo come fosse il miglior strumento in possesso, a godere solo di esso separandolo dalla mente senza sentire alcun dolore interiore. Qui il tempo trascorre senza accettare consigli ma dispensandoli sottoforma di nostalgia ripescando negli errori del proprio passato e avendo cura di ripulirlo, fare una passata di vernice opaca coprente sulle parti meno trasparenti e più brutte e riciclarlo ad altri con la presunzione che verrà preso sul serio e quindi seguito. Secondo me i consigli bisognerebbe accettarli o quanto meno metterli in conto perché il più delle volte chi ti vuole bene e ti da consigli è perché vede oltre quello che tu vedi a prescindere se quello che stai vivendo fa parte del suo vissuto. Quando non si ascoltano i buoni consigli succede come per le ginocchia senza calcio e cioè perdute irrimediabilmente. A volte penso che a ogni essere umano Dio avrebbe dovuto dare un manuale d’istruzione personalizzato anche se ho la consapevolezza che quel manuale ognuno di noi l’ha impresso dentro ma non lo segue. Il perché non lo seguiamo è da ricercare nella nostra presunzione di agire meglio, di ottenere di più, di essere più felici e non ci rendiamo conto che disubbidienza dopo disubbidienza ergiamo la nostra infelicità come un muro di cemento armato difficile da smantellare. Probabilmente tu sei stata fortunata perché non hai vissuto l’età della disubbidienza, potranno sembrarti crudeli queste mie parole e forse umanamente lo sono ma Dio ti ha voluta con se, Lui sceglie il meglio per se e credo anche donarti la felicità e la vita eterna lontano, dalle brutture e sozzure degli uomini.
Quando giunge l’ora della sera e non si ha più nulla da dire è perché alla prima ora già non c’era nulla da dirsi seppure le parole scorrevano con l’impeto di un fiume in piena dove vi si trovava un senso, il senso dell’incognito, della non conoscenza. Ora è terreno non coltivato, arido, un fiume che scorre muto e con tutto l’impegno possibile non si riesce a scoprire nessun suono, nessun fruscio e nessun filo d’erba su terreno senza concime.
Tutto tace, diventa limpido il senso e il silenzio parla finalmente con il senso compiuto della conoscenza che più non appaga.
Nemmeno gli uccelli volano più quando sono stanchi ma riposano nei loro nidi e non cinguettano instancabili dopo che hanno nutrito la loro carne. Sono come gli uomini, quelli che continuano a cantare lo fanno solo per amore. L’amore, l’amore, ma cos’è poi se non egoismo? Non t’amo più ma che significa se non “ non appaghi più i miei desideri”? L’amore è lontano anni luce dall’amore.
Non sa cosa sia realmente se non in quello della madre col figlio, della radice con l’albero perché l’uno dipende dall’altro. L’amore è sinonimo di “mi servi per stare bene” quando non sto più bene “non mi servi più” e continuiamo a chiamarlo amore. Tu invece ora sei con la pura e vera essenza dell’amore.
Oggi sono stanca ho premuto troppo una rapa per farne uscire del sangue, niente sangue ma tanta stanchezza. Niente comunque a paragone della tua estenuante fatica per lasciare la vita, anche la morte è una vittoria da conquistare col sudore, le lacrime e il dolore. Alla fine però la vittoria è certa
come è certa la vita dopo la morte con o senza patimenti, dipende solo da noi. In questo momento cresce in me la presunzione di sapere parlare di Dio e del paradiso come ho fatto con te nell’ultima notte che hai trascorso qui: ti ricordi? Ti piaceva ascoltare le parole del vangelo, volevi ascoltare nonostante si stesse evaporando la tua anima. Ti ricordi il saluto della farfalla che si posò sul tuo letto?
Sai ora c’è una farfalla appesa alla parete della tua casa, l’ha dipinta per te Andrea. Nessuno qui ha dimenticato e anche se volesse farlo non può perché quella immagine riconduce inevitabilmente a te.
Ma ti stavo parlando della caparbietà o meglio della cretinaggine delle persone cosiddette intelligenti e che premono le rape pur sapendo che dalla rapa non può uscirne nulla ma che è commestibile soltanto cotta. Mi dirai perché allora continuano a premere? Eh! Proprio perché l’uomo è abituato a vivere più di speranze che di certezze, forse la speranza appaga di più, la certezza deve essere monotona, insomma è pallosa. Invece è più adrenalinica l’incertezza che ti da la speranza di ottenere qualcosa, sempre perché, l’uomo è incoerente e terribilmente complicato e stupido. E poi c’è tanta vanità, tanta euforia quando l’uomo deve vendere il proprio sapere e il suo fare che non riesce a vedere quelli che sanno di più ma non sanno vendere. A volte la vita sembra un mercato ortofrutticolo dove ognuno grida la bontà dei propri prodotti e nessuno assaggia, per verificare, i prodotti dell’altro: è una inutile egoistica corsa dove viene annullato il sapore del godimento della vita. Ma di positivo penso che dopo aver faticato tanto alla fine si riesce a capire che è meglio premere un grappolo d’uva magari davanti al pergolato della tua casa, nemmeno tanto vellutato ma di sicuro fresco, dolce e genuino. Tu non hai mai cercato il dolce dall’amaro, non ti sei fatta prendere in giro dall’apparenza, quello che ti circondava era tutto vero e dolce. Gli occhi che ti guardavano erano pieni di orgoglio e di amore e di una voglia di darti l’impossibile.
La luna nel pozzo è solo una delusione perché le mani restano vuote e non puoi carezzarla, puoi solo guardarla finché non svanisce la notte. Quando speri l’impossibile è come vivere perennemente al buio e nel contempo non vivere il buio. Vivere il buio significa alzare gli occhi al cielo e guardare la fioca luce della luna con la consapevolezza che è semplicemente un pianeta lontano da te e stare lontano dal pozzo. Sapessi quante lune si vivono per sopravvivere eppure la luna è solo una ma l’uomo non sa goderne e ogni notte ne cerca una nuova riflessa nel proprio pozzo restando inevitabilmente deluso al sorgere del sole.
Vorrei raccontarti qualcosa di allegro ma ogni giorno è una nuova avventura, ogni giorno qualcuno ti rende felice, qualcun altro ti rende triste: è il gioco della vita! E chissà poi perché ti rendono infelici sempre le persone che ami di più e invece ricevi un sorriso da chi non te l’aspetti e magari non vuoi nemmeno ti sorrida. Non so spiegarti bene le sensazioni che ricevo da questa vita che passa, è come se si aggiungessero in continuazione dei lacci che legano qualcosa di me, lo intrappolano. Cerco di capirne il motivo ma non ci riesco Ogni giorno è come uno strappo e una cucitura col risultato che mi sento rattrappita, le giunture non scivolano. Credo sia difficile vivere, difficile capire gli ingredienti del mio impasto interiore, se solo riuscissi a capire quale sostanza manca per sorridere un po’ di più. Forse mi manca la libertà di essere migliore, la libertà di non contare i giorni andati e sperare in quelli a venire.
I fiori continuano ad aprire i loro petali e ad emanare il loro profumo che impertinente svicola dalle serre e consola l’olfatto dei rari passanti. La gente dovrebbe essere grata a chi coltiva i fiori perché il loro odore rende meno brutti i volti arcigni e corrugati, loro malgrado sono costretti a respirare.
Sono poche le persone che non hanno bisogno di un buon odore per distendere le rughe della non bontà d’animo. Probabilmente non per colpa loro, non sono stati capaci di alleggerire i loro fardelli, di caricarsi di fieno e non di ferro, di godere dei doni gratuiti della natura. L’affanno non ci viene donato alla nascita lo costruiamo noi giorno dopo giorno come fosse una missione con lo scopo di essere infelici ad ogni costo. Quindi quando diciamo la felicità non esiste forse dovremmo aggiustare il tiro dicendo: noi non esistiamo nel senso giusto.
Il senso giusto lo si capisce quando non cerchiamo più appagamento di noi stessi negli altri. Non so se sei riuscita ad ascoltare il detto “in vino veritas” e sai che ti dico? E’ sbagliato, meglio dire “in sogno veritas” e sai perché? Perché anche un ubriaco riesce a nascondere quello che vuole, lo cela talmente bene che nemmeno l’alcool riesce a farlo evaporare mentre durante il sonno non esiste nessuna ratio e quindi i nostri desideri vengono fuori sottoforma di simboli o con personaggi diversi da quelli reali. Quindi a mio parere i sogni sono la bocca della verità. È come se ci facessero tornare indietro a quando non conoscevamo le parole “ non si fa, non si dice, se, ma, questo è bene, questo è male”. Ci rendono incontaminati dai pregiudizi, e il bianco è bianco e il nero è nero. Ci riconducono all’assenza di menzogne per compiacere e quindi compiacersi, all’assenza della finzione e del tornaconto. Da sveglio questo l’uomo non lo fa perché, in qualsiasi contesto, recita un ruolo che esula sempre da essere se stesso. Il neonato è se stesso. Sai a volte non ci resta altro che restare in silenzio e aspettare che l’incognito si dissolva e riuscire finalmente a dipanare, chiarire il presente e vederlo per ciò che è. Essere terra di nessuno a volte ci rende liberi di appartenere solo a noi stessi e ci da la possibilità di far splendere il sole sui nostri grigi nugoli di pensieri. Mi rendo anche conto che talvolta la realtà di ognuno è costruita dalle proprie idee, dai vari bollini ed etichette che si appiccicano a volte anche senza un’accorta e accurata conoscenza.
Ora smetto di raccontarti di qua giù continuerò domani ....ciao Emma.



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Scrittura creativa scritta il 01/06/2019 - 00:05
Da speranza iovine
Letta n.815 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Impareggiabile scrittura. Ben strutturata.

Ernesto D'Onise 01/06/2019 - 17:43

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Impareggiabile scrittura. Ben strutturato.

Ernesto D'Onise 01/06/2019 - 17:42

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Grazie redazione. Mi dispiace per quei cinque minuti ma fa lo stesso. Mi ha fatto perdere tempo la lunghezza. Ah questi limiti.

speranza iovine 01/06/2019 - 09:42

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