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Ciao pa'

Ciao pa'.
Ti scrivo un po’, visto che è da tanto, dal 2 marzo del 1978, che non parlo con te. Da quando cioè te ne sei andato. C’era quell’infermiere che un po’ ti prendeva in giro. “Io sono cristiano cattolico apostolico romano!”, fu la tua risposta secca e decisa ai suoi un po’ macabri scherzi. Sei stato un buon padre, per quanto i tempi te lo abbiano permesso. Tempi lunghissimi di guerra. Tu, giovanissimo migrante dalla Calabria post-pandemia-spagnola, alla Capitale in pieno iniziale fervore fascista. A vent’anni eri già un impiegato prima del ministero del Tesoro, poi degli Interni. In quell’epoca di dittatura, tu, tutto d’un pezzo come sempre, non prendesti mai la tessera del partito, attraversando quei terribili decenni con la serena dignità e maturità che ti venivano dagli insegnamenti di tua mamma e dalla voglia di migliorare che ti covava dentro da sempre. Eri intransigente e al tempo stesso affettuoso e attento. Ma distaccato, in quanto essendovi dovuti sposare tu e mamma dopo la guerra, eri un papà un po’ troppo maturo per un bambino sognatore come me. Come quando dopo una sculacciata in punizione per una qualche marachella, correvo a sdraiarmi sul mio lettino chiudendo gli occhi e facendo finta di dormire. Mi isolavo su quel fazzoletto di spazio domestico. che ritenevo l’unico rifugio dove potessi riprendermi. Come quella mattina quando mi risvegliai solo in casa. Dopo aver girato in pigiama per tutte le camere senza trovar nessuno, aprii la porta d’ingresso facendo risuonare tutto il condominio del mio pianto disperato di bimbo di cinque anni che pensava d’esser stato abbandonato. La signora dirimpettaia sullo stesso pianerottolo mi accolse e mi fece sdraiare sul suo lettone sfatto e ancora caldo, dove mi addormentai grato e consolato. Mia madre intanto, dopo esser tornata dall’accompagnare a scuola mia sorella, ritenne che mi avessero rapito e telefonò terrorizzata in ufficio a mio padre. Dopo un paio d’ore mi risvegliai, e in braccio alla vicina, riapparvi nella vita dei miei, tra ringraziamenti e sommesse giaculatorie per aver fatto passare tanto tempo senza avvisarli. Imparai forse da quella vicenda che non sempre è il caso a decidere e che non si è mai soli, nel cuore del caldo degli affetti dei tuoi cari. Un altro tuo decisivo sia pur morbido intervento fu quando, al termine dei miei esami di maturità da cui ero uscito deluso per la votazione non eccelsa, ti esternai il mio scetticismo di reazione nei confronti dell’impegno nella società. Se mi ero impegnato così tanto, perché ero un vero secchione ante litteram, senza un giusto riconoscimento, a cosa serviva un corso di laurea faticoso, come medicina o ingegneria? Tanto valeva iscrivermi ad una facoltà passepartout come giurisprudenza. E trovare un facile lavoro. Tu lì mi desti ragione, perché una laurea in giurisprudenza “apre tutte le porte”, dicesti. E giurisprudenza fu. I miei primi insuccessi scolastici, le mie prime vere difficoltà nello studio, la frequenza a La Sapienza, in aule-anfiteatro sterminate e distratte, tra i tumulti studenteschi e le ripetute bocciature in diritto privato e commerciale. E forse lì, vedendomi annaspare, perdesti ancor di più fiducia in me. Tanto che, quando, ricordi?, dopo il primo anno ti informai che intendevo cambiar facoltà per iscrivermi a Medicina, dove il mio gruppo di compagni di classe sembrava navigare a vele spiegate, fosti deciso e ancora intransigente nel dirmi di no. Per due ragioni: il costo elevato della nuova facoltà e, vista la tua età, il timore di non potermi finanziare fino al termine degli studi. Fu la prima volta in cui ti ritenni incomprensibile nel tuo sorprendermi. Fui tentato di andar via di casa a trovar lavoro in un bar per mantenermi agli studi, ma alla fine rinunciai al mio sogno. Ecco, quando son divenuto a mia volta padre, ho tentato in tutte le mie possibilità sempre di comprendere e salvaguardare i sogni dei miei figli. Per questo ti dico, dal fondo del pozzo in cui la tua mancanza di fiducia in me mi ha spinto, ti dico: ”Grazie!”, perché quel che conta è far tesoro delle esperienze che t’hanno fatto male e mai ripetere lo stesso errore verso chi ti chiede solo di poter vivere la vita in sintonia con i suoi sogni e aspirazioni. Grazie pa',senza rimpianti, per avermi insegnato a soffrire.



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Scrittura creativa scritta il 15/04/2023 - 14:37
Da bruno palumbo
Letta n.298 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Racconto preciso e dettagliato, in cui metti in evidenza la società del dopoguerra con tutte le sue esigenze del momento. I nostri genitori avevano una visione del futuro dei figli che lasciavo meno libertà decisionale rispetto ad oggi. È vero non hai potuto realizzare il tuo sogno di diventare medico,ma questo ti ha permesso di essere un padre più comprensivo con i tuoi figli, anche se in quel tuo grazie finale scorgo un po' di amarezza. Ciao Bruno e complimenti.

santa scardino 15/04/2023 - 21:53

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