“…Patrizio dice che si deve sempre dire
Ad ogni costo tutto quello che ti pare…”
Immediatamente la memoria è volata indietro nel tempo. A quella sera, quando all’Arena Civica, avevi assistito al tuo primo concerto; al concerto di quel cantante che soltanto qualche giorno prima, sentendolo sulla frequenza di una radio libera, lo avevi bollato come un pazzo scatenato. E lui era lì, sul palco, e da solo era un’intera rock band, armato di chitarra, armonica a bocca , kazoo, tamburello a pedale e una voce partenopea, stridula, piena di versetti e gridolini.
Che concerto!
Da lì a poco avresti comprato tutti i suoi dischi e perfino la chitarra e l’armonica.
Quella sera aveva cantato proprio quel brano che ora stavi riascoltando alla radio:
“…Patrizio dice che si deve sempre dire
Ad ogni costo tutto quello che ti pare…”
Era la canzone che chiudeva il suo primo LP; sì, i dischi si chiamavano così, i CD non esistevano ancora, erano in vinile nero e per ascoltarli dovevi selezionarne la velocità: o 33 giri, o 45 giri, poi passarci sopra lo spazzolino per raccogliere la polvere che immancabilmente, essi, nel loro ruotare attiravano su di sé e ciò nonostante gracchiavano sempre un po’. Erano grandi quei dischi ed era bello mentre li ascoltavi, tenere in mano la copertina di cartoncino per seguirne i titoli o leggerne i testi delle canzoni, mentre oggi i piccoli e freddi CD sono accompagnati da piccoli albumini che per leggere i testi delle canzoni ti ci vuole la lente d’ingrandimento e ti sembra di non avere in mano niente. Però la resa sonora non ha paragoni.
La canzone in questione si intitola “Rinnegato”, non è tra le più famose del cantautore, ma i fans come te, la conoscono bene; sostenuta da un ritmo veloce e trascinante.
E mentre la ascoltavi, iniziavi a pensare che anche tu dovresti dire sempre tutto quello che ti pare. Per esempio che, non che i cantautori di oggi non siano bravi, ma non ti entusiasmano, non li trovi particolarmente impegnati. No, non ci sono più cantautori che mentre cantano, suonano la chitarra e il tamburello. Non ci sono cantautori che stimolino all’impegno sociale e perché no, politico. Non ci sono cantautori che vengano presi a prestito dalla protesta giovanile. Per lo meno, quelli di un certo successo.
E le parole di quella canzone non ti hanno abbandonato neanche la sera mentre guardavi la partita alla TV. Anzi, ti hanno stimolato a dover dire che questo calcio non ti piace più, perché non è più uno sport e le squadre sono aziende che devono conseguire un utile. Il calcio di oggi è fatto di soldi, lusso, partite combinate, doping… E’ finito il tempo del calcio eroico, quello di Italia-Germania 4-3, tanto per intenderci. Quello che il numero sulla maglia identificava il ruolo e non il giocatore, così avevi la certezza che il n° 2 era il terzino destro e il n° 10 la mezzala sinistra e la indossava sempre il giocatore più prestigioso. Erano certezze, appunto, così come era una certezza che la tua squadra del cuore giocasse la domenica pomeriggio in contemporanea a tutte le altre. Oggi questa certezza non ce più e se non leggi i giornali o segui i programmi TV, hai sempre il dubbio: ma giocherà la domenica pomeriggio, o il sabato alle 18 o alle 20.30, o giocherà in posticipo la domenica sera?
Le partite si giocano dal venerdì al lunedì e i restanti giorni sono dedicati alle gare internazionali; ogni sera almeno una partita in TV. Ecco, è questo che è diventato il calcio oggi, uno sport da televisione, uno sport da salotto. Certo ti emozioni ancora quando la tua squadra vince, ma il giocattolo si è rotto, ti ha un po’ stancato; giocare sempre allo stesso gioco, prima o poi stanca, e vedere partite tutte le sere, ormai, ti dà un senso di nausea.
E poi proprio non riesci a capacitarti di come sia possibile che associazioni e organizzazioni nazionali ed internazionali, dai nobili intenti umanitari e sociali, abbinino la propria immagine a uno sport così corrotto e marcio. E di come sia possibile che le società sportive, nelle loro scuole di calcio, trattino i bambini come merce di mercato quantificabile in denaro.
E ti senti un po’ confuso.
La sera dopo, per protesta rinunci a vedere la partita in TV; e allora, con il telecomando stretto in pugno, puoi scegliere tra una fiction alla TV di Stato e un target o un gossip su uno dei tanti Net Work, o magari un bel reality show, a cui poi segue un TG news, i trailers dei nuovi film e per concludere la serata ecco il talk show. Santo cielo! Ma un programma italiano non c’è? Un banale sceneggiato? No, non è più di moda chiamarlo così! Adesso inizi a renderti conto che la tua lingua ufficiale, l’Italiano, è sottoposta ogni giorno ai continui attacchi di quella anglofona, anzi: Americanofona.
Le fiction o i target sono programmi che fanno dormire; ti svegli e c’è il solito giornalista, trasformato in Show man, che sta già conducendo il Talk show. Al programma partecipano pseudo- politici che danno spettacolo e gente di spettacolo che fa politica. Siccome tra i meandri del cervello ti rimbalzano ancora le parole di quella canzone di Edoardo Bennato, lo devi proprio dire: di questi politici non se ne può più! Di questi politici che quando sono all’opposizione contestano ciò che fa la maggioranza, e poi quando tocca a loro di governare, fanno le stesse cose di quelli che c’erano prima; ma non solo: ora chi sta all’opposizione contesta ciò che fa la nuova maggioranza, ovvero è come se contestassero se stessi. E non capisci. Di questi politici che ti vogliono dare lezioni di morale sulla famiglia quando loro stessi sono sposati, separati, divorziati, risposati e di nuovo separati. Ma quando parlano di famiglia, di quale parlano? E non capisci. Di questi politici che dicono che tutte le droghe fanno male. E non capisci se lo dicono prima o dopo che si sono fatti una canna.
Di questi politici che dicono che non si deve fare antipolitica. Ma l’antipolitica per esistere, ha bisogno che esista la politica. Oggi, questi politici fanno politica? No, fanno spettacolo. Quindi non si può dire che la gente di spettacolo faccia antipolitica, perché in realtà, è questa che fa politica.
Intanto il talk show verte sull’argomento dell’islamismo e delle radici cristiane e le tradizioni da salvare; tutti si accalorano a discutere, anche animatamente, attorno alla solita richiesta di un mussulmano di togliere il crocefisso dall’aula in cui si trova il proprio figlio. Ecco che le parole di quella canzone di Edoardo Bennato tornano prepotenti nella scena della tua mente e da buon cristiano, lo gridi, quasi con rabbia: “No! I crocefissi dalle aule non si toccano!” Ma poi ti fermi a riflettere su quella richiesta, da che cosa può essere mossa: forse perché i mussulmani vedono un certo disinteresse, da parte dei cristiani, verso il crocefisso nelle aule e perché nessuno è in grado di spiegare perché sia lì. Poi ti ricordi della domenica precedente, di quando ti sei recato a messa in orario come sempre, e del prete che si è quasi incazzato perché i fedeli entravano a cerimonia ormai abbondantemente iniziata e mentre li richiamava al rispetto della funzione e di chi dice messa un telefonino trillava all’impazzata seguito da veloci passi che si allontanavano e il portone della chiesa che si richiudeva dietro di essi. Subito dopo ha regnato un breve istante di profondo silenzio che sembrava infinito. I mussulmani sono molto più attaccati alla religione di quanto non lo siamo noi; vivendo accanto a noi sicuramente hanno notato un certo nostro disinteresse e una mancanza di rispetto per la nostra religione ed ecco che si sentono di avanzare una, secondo il loro punto di vista, lecita richiesta di togliere i crocefissi dalle aule delle scuole. Noi ci ricordiamo della nostra religione soltanto in questi casi.
Ma tu no! Tu sei cristiano. A Natale prepari il presepe per tua figlia così come lo faceva tuo padre per te. Vai alla messa di mezzanotte e poi festeggi mangiando il cappone e il panettone, quello con l’uvetta e i canditi, non quello con la glassa o ripieno di crema. La domenica delle Palme vai a prendere il ramoscello d’ulivo da mettere accanto al crocefisso sopra la porta d’ingresso. O forse dovresti toglierlo nel caso ospitassi un mussulmano?
Ma sei anche Italiano e fiero di esserlo, un Italiano che il 25 aprile festeggia la liberazione dal fascismo e il 2 giugno quella dalla monarchia.
Poi lentamente le palpebre si abbassano e ti addormenti con la paura che qualcuno voglia portarti via le tue tradizioni.
La mattina dopo, al risveglio, senti di avere nella testa una certa confusione e le parole di quella canzone che si muovono all’interno di essa. Pensi che tutto ciò non sia normale e pensi che forse sia meglio fare un salto dal medico. Lo studio del medico è gremito come al solito. Dopo circa un’ora di attesa tocca a te; senti un po’ di emozione o qualcosa che non riesci a definire, ma lui in due minuti si libera di te piazzandoti in mano un’impegnativa spedendoti da uno specialista.
Esci e ti dirigi verso l’ospedale, imbocchi il viale centrale della tua città e ti sembra diverso.
Lì dove c’era il salumiere ora c’è un kebab, di fronte c’è un Blockbuster, poco più in là ecco un McDonald a fianco di un Outlet Store, poi una Deutsche Bank, poi un Phone center dove fuori sta gente delle più disparate etnie esotiche, ecco un Photo Service, un Edil Service e un bar con un vistoso cartello con su scritto: Happy Hour per far sapere che lì servono aperitivi. Poi un forte odore di fritto ed ecco un ristorante cinese. E non sei più certo che questa sia la tua città, il tuo Paese.
Finalmente arrivi all’ospedale, entri nell’atrio d’ingresso e ti trovi di fronte ad un cartellone indicatore; ti fermi a leggere per orientarti: Day Hospital, Week Hospital, Week Surgery, Triage, Nursery, Morgue, Stroke Unit… Poi noti poco più in là quella che dovrebbe essere la portineria; ti avvicini e chiedi: “E’ la portineria questa?” Quello dall’altra parte risponde: “No, è il Front Office della Reception.” A questo punto senti che è il momento di sciorinare il tuo inglese scolastico: “Dovrei andare al cap.”
“ Il cap? Che cos’è il cap? Forse vorrà dire il CUP, Centro Unico di Prenotazione.”
Ancora rosso di vergogna ti rechi al CUP; sei fortunato, la tua prenotazione è urgente e così ti mandano subito in ambulatorio. Nella saletta d’attesa, seduto accanto a te, un ragazzino ascolta musica con le cuffiette da un minuscolo i-pod che tiene chiuso nel pugno della mano.
Spieghi il tuo problema allo specialista e quello, in tutta tranquillità, ti dice che non è nulla di preoccupante, sei soltanto stressato e hai bisogno di riposo.
Quando esci hai più dubbi di prima: ti domandi come puoi stare tranquillo, riposare con tutto ciò che hai da fare? Hai mille impegni da portare a termine, la famiglia, il lavoro, mille scadenze da rispettare…
Intanto il motivetto di quella canzone è ancora lì, si muove tra i meandri sempre più confusi della tua mente. Pensi che forse sia il caso di affidarti a qualche santo; in tanti lo fanno. Allora prendi in mano il calendario e … e ti incazzi come una bestia ferita, perché anche il calendario non dà più certezze. Ma come? Il giorno del tuo compleanno è sempre stato Sant’Albino e ora non lo è più. Che fine ha fatto Sant’Albino? E’ forse stato degradato dal suo ruolo di santo? Ma c’è di peggio. Prima c’era la certezza che il 21 marzo fosse San Benedetto, così come il 31 dicembre San Silvestro. E invece no! Il 21 marzo non è più San Benedetto e non si può più dire: “A San Benedetto la rondine è sotto il tetto.” C’era la certezza che fosse primavera, magari con qualche giorno d’anticipo o qualche giorno di ritardo, ma era primavera e le rondini facevano ritorno al loro nido di sempre. Forse chi ha avuto questa idea è stato un precursore dei tempi, prevedendo che le rondini sarebbero state una specie in via di estinzione e che le mezze stagioni, come la primavera, non ci sarebbero più state, passando da lunghe estati torride ad inverni altrettanto lunghi e miti.
Insomma non trovi certezze neanche tra i santi del calendario e il tempo ormai è impazzito.
Ormai senti che la confusione nella testa ha raggiunto limiti insopportabili.
Per favore basta! Non mettetemi altra confusione nel cervello.
Ma la frase appena pronunciata ti spaventa. Ti ricorda il testo di una vecchia canzone dei Pink Floyd: “…please don’t put your wires in my brain…”
E anche tu hai paura di finire così: con i fili elettrici nel cervello.
Basta!
E invece non basta! Perché un bel giorno tornando a casa tua moglie in modo categorico e autoritario ti dice: “Fuori!” perché non sa che farsene di un marito musone, che non parla, che non si impegna e che non vuole cambiare.
“Fuori!”
E ora senti che tutta la confusione che avevi nella testa ti implode dentro.
BUM!
Così ti risvegli la mattina dopo che hai perso il treno che ti porta al passo coi tempi che cambiano e ti ritrovi a vagare, come uno zombie, in una metropoli di due milioni di abitanti, dove tutti si muovono freneticamente, dove tutti corrono di qui e di là urtandoti e tu rimbalzi da una spalla all’altra. Ad ogni urto senti nella testa gli echi diffusi di quella implosione che si perdono nei meandri più reconditi della mente.
Ti ritrovi scaricato da tutti, senza un punto di riferimento, senza un orizzonte, senza sapere cosa fai, cosa vuoi, chi sei. Sei solo, in un’immensa, popolosa e brulicante metropoli, ma è come se fossi in mezzo al deserto. Poi metti una mano in tasca. Trovi un documento d’identità e dice che, sì, sei proprio tu. Allora ti chiedi cosa ci fai lì e non capisci, non puoi capire, cosa c’è da capire? Senti l’ansia che ti assale, il respiro diventa frenetico, veloce. Hai paura, ma neanche tu sai di cosa. Senti un gran fuoco dentro il petto e risale su, fino alla gola e ti si secca. Hai sete e…
Cristo!
Sei solo in mezzo al deserto e non hai neanche una borraccia con un goccio d’acqua. Pensi che sia finita. Ti senti irrimediabilmente perso.
Piano chiudi gli occhi e ti rifugi in un nostalgico passato. Travolto dalla malinconia.
Rientri nella tua vecchia casa e trovi tra i pezzi di te stesso, sparsi tra le antiche radici, quel vecchio disco di vinile nero, quello che ha in copertina un grande fiammifero, tipo svedese, rosso fiammante con la capocchia gialla, su uno sfondo bianco. Lo metti sul piatto dello stereo. Gracchia un po’, ma fa niente. Poco dopo partono le note e le parole di: Non farti cadere le braccia
…non farti cadere le braccia
Corri forte ma più forte che puoi
Non devi voltare la faccia
Non arrenderti né ora né mai…
Lentamente riapri gli occhi e riprendi a guardarti attorno, a guardare il mondo intorno, a guardare chi ti circonda, ti guardi allo specchio e senti che la vita forse può tornare a fluire.
Poi arriva la brevissima: Ma quando arrivi treno
Ma quando arrivi treno
Portami lontano
Il testo della canzone è tutto qua. Adesso inizi a pensare che dovresti andare. Salire su quel treno e farti portare lontano, non importa dove, ma senti che su quel treno devi starci.
Poi una sinfonia d’archi introduce ai primi accordi di chitarra e alle parole di: Un giorno credi
Un giorno credi di essere giusto
E di essere un grande uomo
In un altro ti svegli e devi
Cominciare da zero…
Quando ti alzi e ti senti distrutto
Fatti forza e va incontro al tuo giorno
E allora ti rialzi e senti una forza nuova dentro, una forza che prima non conoscevi e mentre ritrovi anche gli ultimi pezzi di te stesso sparsi lì attorno, ecco che parte l’ultimo brano del disco, quello che per tanto tempo ti ha tormentato con quelle parole: Rinnegato
Patrizio dice che si deve sempre dire
Ad ogni costo tutto quello che ti pare…
Eugenio dice che io sono un rinnegato
Perché ho rotto tutti i ponti col passato
Guardare avanti sì, ma ad una condizione
Che tieni sempre conto della tradizione…
Ecco ora sei pronto a salire su quel treno, ad uscire di nuovo senza sentirti uno zombie.
Ora puoi ricominciare, ma non da zero. Così come diceva Massimo Troisi:
Ricomincio da tre, perché tre cose mi sono riuscite nella vita.
Perché le dovrei rinnegare,
tu puoi ripartire da due, le uniche due certezze che hai: tua figlia e il tuo passato. Sì, perché nessuno mai potrà portarti via queste due certezze.
E allora gridi al mondo intero la rabbia che covi dentro e lo dici a squarciagola: “Non sono un rinnegato. Non ho rotto i ponti col mio passato, perché il passato è la mia storia e io sono la mia storia. Rinnegare il mio passato sarebbe come rinnegare me stesso. E non rinnego neppure le mie tradizioni, me le tengo strette!”
Rifugiarsi nel passato potrà sembrare anche una vigliaccheria, una fuga da una vita che stressa, potrà sembrare nostalgia o malinconia, ma se si ripercorrono i ponti che ci legano al passato possiamo ritrovare chi siamo, cosa facciamo, cosa vogliamo, possiamo ritrovare le certezze che ci fanno ripartire e andare avanti.
Ora sei su quel treno che ti porta lontano, neanche tu sai dove e non ti importa, ma sai che su quel treno devi starci, ti porterà a conoscere nuovi mondi, oltre i confini, ma mai fuori dal tempo in cui vivi.
E ogni tanto quel treno tornerà a percorrere i ponti che ti legano al passato.
Perché i ponti col passato sono le fondamenta del futuro.
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Panta rei.
Contraccambio il cordiale saluto.