Nulla era ancora deciso. Questo pensiero gli diede un po' di pace, ma presto si tramutò in un'angoscia che gli si dibatteva insopportabilmente nel cuore.
Accelerò il passo, spinto dalla febbre che gli era penetrata in corpo.
Scendendo il corso vide la sua immagine rifelssa nello specchio esterno di un negozio di argenterie.
Fu tentato di fermarsi e guardarsi fisso negli occhi.
Ma proseguì; era meglio passare avanti con nonchalance: uno qualunque che sfugge ad un altro appena intravvisto, un tempo conosciuto ed amico, ora quasi dimenticato.
E non si ha intenzione di rivederlo, né di rivolgergli la parola.
Lo specchio ritenne per un momento l'immagine di un uomo giovane, i cui occhi blu, carichi di tormento, si muovevano inquieti.
Giunse in Piazza e si diresse verso la riva del mare.
Mare, diga, colline, golfo: un paesaggio di cartapesta reso ancora più opprimente dal colore livido del cielo.
D'un tratto, in mezzo al suo vagare assorto, sentì che l'ora era giunta.
Le case intorno ripetevano un suono cupo e sordo, ingigantendolo.
Imboccò il canale, tetro nel crepuscolo novembrino, costeggiandone una sponda.
Vi erano da un lato i passanti, contro i quali lui si scontrava incurante; dall'altra, una fila di barche immobili sull'acqua, insensibili alla pioggia, che iniziava a cadere fitta.
L'aria era greve e satura di odori: una sostanza pesante gli penetrava a stento nei polmoni e gli procurava un terribile affanno.
La vide, finalmente. Aspettava diritta, longilinea, immobile, con i suoi affascinanti capelli lunghi e lisci, sui primi gradini che portavano al portone di casa sua; né si era premurata di ripararsi.
Le disse poche cose.
E mentre parlava, le parole d'amore struggenti ed appassionate che tante volte le aveva detto, sembravano balzare nell'aria, lì intorno, con lazzi e capriole di satiri maligni.
Imporvvisamente, dalla risposta di lei, si sentì nel profondo del cuore il venefico sentore di una decisione irrevocabile.
“Non posso fare altrimenti, mi hai detto troppe bugie, non hai mantenuto le tue promesse. Ci dobbiamo separare. Addio”.
Odiò quella voce dolce di ragazza indifesa, che d'un tratto era stata capace di dire parole così dure, così lapidarie.
Poche lacrime gli scesero lungo le gote: lente si arrestarono agli angoli di una bocca delicata;
“Perchè? Io ti voglio ancora tanto bene!”. Invano. Il cuore di lei era come un lago scuro e profondissimo; le parole vi si inabissavano quasi senza rumore. Oh la sensazione di trovarsi vile e vergognoso dinanzi a lei!
Sentire la sua tormentata ansia amorosa prendere la forma di una dolce mano supplice che le accarezzava il volto in un'ultima -vana- speranza.
Quanto l'aveva amata.
Lei tese una mano, cattiva, nel suo gesto definitivo. Oh, la crudele tristezza di mani strette ed unite;
mani che si erano accarezzate con accecante passione, ed in ogni carezza vi era una promessa;
mani che si serano parlate a vicenda con tanto affetto e che ora dovevano dividersi per sempre.
Le sentì scorrere come un liquido bruciante e gelido, lungo il braccio fino al cuore.
La seguì con gli occhi velati di tristezza, mentre si allontanava definitvamente e spariva in mezzo alla gente frettolosa.
Vide nel raggio di luce di una lampada le gocce di pioggia che scendevano lente dal cielo: timide bimbe sperdute che si tenevano per mano giù per una china triste.
Gli parve di intuire per la prima volta la presenza di corpi celesti; ma erano in disarmonia, il loro moto era un caos completo.
Discese i gradini che tante volte lo avevano condotto in quello strano nido d'amore, che era la casa di lei; fece alcuni passi sotto la pioggia battente che cadeva sempre più fitta.
Una coltre fumosa di nebbia era intanto discesa e smorzava le luci dei lampioni e qeulle delle insegne dei negozi, dei bar.
Si mosse lungo la riva del canale, senza curarsi di evitare le pozzanghere che incrociava sulla sua strada.
Eleonora. Il profumo delicato di tulipani che svanisce e si sperde tra altri odori confondibili.
Un accordo vibrante, tremante nell'aria, dolcissimo; ormai morente.
“Cosa è successo? Come ho potuto permettere che tutto questo accadesse?”
Si afferrò i capelli bagnati e umidi dietro alla nuca, come per impedire al capo di cedergli sul petto.
Aveva in bocca un sapore amaro, che gli faceva inghiottire le lacrime che ora avevano iniziato nuovamente a sgorgare dai suoi occhi.
Era stanco e spossato, sia nel fisico, che nell'anima: gli pareva di essere appena uscito da una lunga e debilitante malattia ignota.
Raggiunse, tremante, il ponte che attraversava il canale e si appoggiò alla ringhiera di ottone, totalmente esaurito.
Nonostante la cappa insostenibile, percepì un brivido al contatto con il metallo.
Da lontanto la facciata monotona di una imponente chiesa neoclassica, con la sua larga e breve fuga di scalini, si intravvedeva attraverso la nebbia.
D'un tratto quella zona, quasi deserta, si popolò di figure frettolose, gruppi di passanti in movimento disordinato: probabilmente terminavano una monotona giornata di lavoro in chissà quale ufficio della città.
Poi vide un altro gruppo di gente, che invece seguiva con passo pesante una bara: nella penombra cupa si poteva scorgere l'ondeggiare di una croce d'argento trapunta su un nerissimo drappo funebre.
Egli percepiva chiaramente lo scalpiccio, lo sfregamento dei piedi sui gradini di pietra; la salmodiante processione pareva dirigersi verso di lui.
“Chissa chi è il morto...o la morta...?”, pensò. E la sua mente si popolò di assurdi pensieri, di paure inspiegabili.
Le figure svanirono nella nebbia; la sua sensibilità era diventata talmente sottile che lo faceva tremare, anche per i motivi più futili.
Le sue sensazioni percepivano qualcosa di sovrumano e spettrale; a poco a poco la chiesa gli scomparve alla vista.
Fissò gli occhi disperatamente, come per fermarla e rimetterla a posto, mentre si stava immergendo in un mare di oscurità.
Con un tremendo sforzo la rivide ancora, si protese verso quella fumosa immagine, aggrappandosi alla ringhiera. Ma poi scomparve definitivamente, come se una mano l'avesse cacciata in un sacco.
Subito vicino a lui, sull'altra sponda del canale, notò una insegna al neon: apparteneva ad un piccolo bar, uno dei pochi ancora aperti ad un'ora improbabile, in un giorno qualunque della settimana.
Vi si diresse con passo incerto; entrò facendo tintinnare la porta d'ingresso: dentro un uomo beveva solo al bancone; su un tavolino una anziana leggeva un giornale stropicciato.
L'arredamento era oltremodo datato e coperto da una sottile patina gialla; chiese una birra al cameriere, un tipo anonimo in livrea, che gliela servì svogliatamente.
La inghiotti praticamente con un unico sorso; ne chiese un'altra. Poi un'altra ancora. E perché non prendersi un cognac o qualcosa di più forte? La giornata era stata spossante e il ricordo di Eleonora, la sua lontananza, pesavano su di lui come un macigno.
“Come ha potuto farmi questo? Dopo tutto quello che c'è stato fra noi!” ripetè a denti stretti;
Ormai aveva perso il conto di quanti alcolici si era scolato.
Buttò i soldi al cameriere, con noncuranza, lasciandogli persino una mancia inaspettata, data la modesta clientela del luogo.
Uscì barcollando dal locale e percorse un imprecisato numero di strade, piazze, vicoli e salite; finché non giunse, quasi per caso, dinanzi la casa di Eleonora: una luce fioca trapelava dalla finestra della sua camera al terzo piano del palazzo. Quante notti d'amore avevano trascorso insieme.
“E ora chissà chi si è portata su per rimpiazzarmi, quella....” e pensò, completamente ebbro, di suonare al campanello, con insistenza, magari con la folle idea di risentirla, di chiarire quell'incontro fatale avuto due o più ore prima.
“Devo parlarti, Eleonora”, ansimava in preda ad un delirio febbrile.
“C'è ancora speranza per me? Per noi?”
Ma tutto cominciò a confondersi. Le impressioni si succedevano come dirette da una crudele mano fuori controllo; si sovrapponevano, si frammischiavano senza una coerenza o un filo logico.
“Ho bevuto troppo stasera, cosa mi sta succedendo? Cosa sto combinando?
Eleonora, rispondimi! Ma alla fine ho veramente potuto parlare con lei, o vederla?”.
Estenuato si ripiegò sugli scalini della sua casa e in qualche modo, ormai quasi all'alba,giunse in un parco pubblico: lì si distese su una panchina, distrutto, e si addormentò. Il suo sonno fu un tourbillon di pensieri spaventosi, di visioni macabre che avevano come principale soggetto e vittima di atti innominabili, proprio Eleonora.
Quando alla mattina si rialzò, vide i platani del giardino che si stagliavano su un cielo di piombo. Era completamente inzuppato. Coninuava a piovere, forse aveva piovuto tutta la notte. In giro non c'era nessuno; le grigie case intorno avevano le finestre chiuse; solo in una le persiane erano aperte: all'interno si intravvedeva il vuoto.
Si alzò tremolante, in preda ad un profondo sconforto, che non era dovuto certamente all'abuso dell'alcol; i capelli erano fradici e scomposti.
Un orologio, chissà dove, batteva le dieci e mezza.
Camminò verso il centrò città: figure taciturne erano ferme agli incorci, mentre lui non si preoccupava di dare nell'occhio, rasentando furtivamente i muri,.
Era già tanto bagnato che gli sembrò che la pioggia lo ravvivasse.
Divenne più cosciente della vita intorno a lui: la nebbia stava lentamente svanendo e le insegne luminose brillavano sopra i negozi, o sopra qualche facciata; brillavano di una luce convulsa.
Pareva gridassero isteriche il nome di un liquore, la marca di un cappotto, il titolo di uno spettacolo.
Luci verdi, gialle, rosse. Si trasformarono nel suono acuto di trombe petulanti che gli ferivano le orecchie.
Si fermò ad un'edicola: una luce azzurrognola gridava: tabacchi e giornali. Le lettere parevano infisse con chiodi invisibili nell'aria; davanti a lui un uomo distinto sulla sessantina che chiacchierava con il giornalaio: “hai visto che roba incredibile è successa questa notte? Anche i giornali nazionali ne parlano! Non si può più stare sicuri”.
E l'altro, in risposta: “si un delitto efferato, indescrivibile nella sua violenza! Poi infierire in questo modo su una ragazza giovane ed indifesa! Ma in che mondo viviamo, dico io!”.
D'un tratto la fronte gli si imperlò di un sudore freddo, fastidioso: si guardò il palmo di una mano, e scoprì con terrore che era tutto insaguinato.
Urtando l'uomo che lo precedeva chiese in maniera sconnessa una copia del giornale; si allontanò dall'edicola quasi di corsa, sentendosi come braccato da forze invisibili.
Aprì il giornale e sulla prima pagina, lesse il ferale titolo a caratteri cubitali: “ORRIBILE OMICIDIO NELLA NOTTE AI DANNI DI UNA GIOVANE RAGAZZA”.
Un'atroce ed inspiegabile sensazione si impadronì di lui. Continuò la lettura di questo articolo spaventoso; tra le righe lesse chiaramente: “la ragazza, di nome Eleonora, è stata trovata cadavere questa mattina...”
Si mise la mano insaguinata in tasca, e si diresse verso una direzione imprecisata, incespicando sui gradini del marciapiede ed urtando i rari passanti che incontrava...
Accelerò il passo, spinto dalla febbre che gli era penetrata in corpo.
Scendendo il corso vide la sua immagine rifelssa nello specchio esterno di un negozio di argenterie.
Fu tentato di fermarsi e guardarsi fisso negli occhi.
Ma proseguì; era meglio passare avanti con nonchalance: uno qualunque che sfugge ad un altro appena intravvisto, un tempo conosciuto ed amico, ora quasi dimenticato.
E non si ha intenzione di rivederlo, né di rivolgergli la parola.
Lo specchio ritenne per un momento l'immagine di un uomo giovane, i cui occhi blu, carichi di tormento, si muovevano inquieti.
Giunse in Piazza e si diresse verso la riva del mare.
Mare, diga, colline, golfo: un paesaggio di cartapesta reso ancora più opprimente dal colore livido del cielo.
D'un tratto, in mezzo al suo vagare assorto, sentì che l'ora era giunta.
Le case intorno ripetevano un suono cupo e sordo, ingigantendolo.
Imboccò il canale, tetro nel crepuscolo novembrino, costeggiandone una sponda.
Vi erano da un lato i passanti, contro i quali lui si scontrava incurante; dall'altra, una fila di barche immobili sull'acqua, insensibili alla pioggia, che iniziava a cadere fitta.
L'aria era greve e satura di odori: una sostanza pesante gli penetrava a stento nei polmoni e gli procurava un terribile affanno.
La vide, finalmente. Aspettava diritta, longilinea, immobile, con i suoi affascinanti capelli lunghi e lisci, sui primi gradini che portavano al portone di casa sua; né si era premurata di ripararsi.
Le disse poche cose.
E mentre parlava, le parole d'amore struggenti ed appassionate che tante volte le aveva detto, sembravano balzare nell'aria, lì intorno, con lazzi e capriole di satiri maligni.
Imporvvisamente, dalla risposta di lei, si sentì nel profondo del cuore il venefico sentore di una decisione irrevocabile.
“Non posso fare altrimenti, mi hai detto troppe bugie, non hai mantenuto le tue promesse. Ci dobbiamo separare. Addio”.
Odiò quella voce dolce di ragazza indifesa, che d'un tratto era stata capace di dire parole così dure, così lapidarie.
Poche lacrime gli scesero lungo le gote: lente si arrestarono agli angoli di una bocca delicata;
“Perchè? Io ti voglio ancora tanto bene!”. Invano. Il cuore di lei era come un lago scuro e profondissimo; le parole vi si inabissavano quasi senza rumore. Oh la sensazione di trovarsi vile e vergognoso dinanzi a lei!
Sentire la sua tormentata ansia amorosa prendere la forma di una dolce mano supplice che le accarezzava il volto in un'ultima -vana- speranza.
Quanto l'aveva amata.
Lei tese una mano, cattiva, nel suo gesto definitivo. Oh, la crudele tristezza di mani strette ed unite;
mani che si erano accarezzate con accecante passione, ed in ogni carezza vi era una promessa;
mani che si serano parlate a vicenda con tanto affetto e che ora dovevano dividersi per sempre.
Le sentì scorrere come un liquido bruciante e gelido, lungo il braccio fino al cuore.
La seguì con gli occhi velati di tristezza, mentre si allontanava definitvamente e spariva in mezzo alla gente frettolosa.
Vide nel raggio di luce di una lampada le gocce di pioggia che scendevano lente dal cielo: timide bimbe sperdute che si tenevano per mano giù per una china triste.
Gli parve di intuire per la prima volta la presenza di corpi celesti; ma erano in disarmonia, il loro moto era un caos completo.
Discese i gradini che tante volte lo avevano condotto in quello strano nido d'amore, che era la casa di lei; fece alcuni passi sotto la pioggia battente che cadeva sempre più fitta.
Una coltre fumosa di nebbia era intanto discesa e smorzava le luci dei lampioni e qeulle delle insegne dei negozi, dei bar.
Si mosse lungo la riva del canale, senza curarsi di evitare le pozzanghere che incrociava sulla sua strada.
Eleonora. Il profumo delicato di tulipani che svanisce e si sperde tra altri odori confondibili.
Un accordo vibrante, tremante nell'aria, dolcissimo; ormai morente.
“Cosa è successo? Come ho potuto permettere che tutto questo accadesse?”
Si afferrò i capelli bagnati e umidi dietro alla nuca, come per impedire al capo di cedergli sul petto.
Aveva in bocca un sapore amaro, che gli faceva inghiottire le lacrime che ora avevano iniziato nuovamente a sgorgare dai suoi occhi.
Era stanco e spossato, sia nel fisico, che nell'anima: gli pareva di essere appena uscito da una lunga e debilitante malattia ignota.
Raggiunse, tremante, il ponte che attraversava il canale e si appoggiò alla ringhiera di ottone, totalmente esaurito.
Nonostante la cappa insostenibile, percepì un brivido al contatto con il metallo.
Da lontanto la facciata monotona di una imponente chiesa neoclassica, con la sua larga e breve fuga di scalini, si intravvedeva attraverso la nebbia.
D'un tratto quella zona, quasi deserta, si popolò di figure frettolose, gruppi di passanti in movimento disordinato: probabilmente terminavano una monotona giornata di lavoro in chissà quale ufficio della città.
Poi vide un altro gruppo di gente, che invece seguiva con passo pesante una bara: nella penombra cupa si poteva scorgere l'ondeggiare di una croce d'argento trapunta su un nerissimo drappo funebre.
Egli percepiva chiaramente lo scalpiccio, lo sfregamento dei piedi sui gradini di pietra; la salmodiante processione pareva dirigersi verso di lui.
“Chissa chi è il morto...o la morta...?”, pensò. E la sua mente si popolò di assurdi pensieri, di paure inspiegabili.
Le figure svanirono nella nebbia; la sua sensibilità era diventata talmente sottile che lo faceva tremare, anche per i motivi più futili.
Le sue sensazioni percepivano qualcosa di sovrumano e spettrale; a poco a poco la chiesa gli scomparve alla vista.
Fissò gli occhi disperatamente, come per fermarla e rimetterla a posto, mentre si stava immergendo in un mare di oscurità.
Con un tremendo sforzo la rivide ancora, si protese verso quella fumosa immagine, aggrappandosi alla ringhiera. Ma poi scomparve definitivamente, come se una mano l'avesse cacciata in un sacco.
Subito vicino a lui, sull'altra sponda del canale, notò una insegna al neon: apparteneva ad un piccolo bar, uno dei pochi ancora aperti ad un'ora improbabile, in un giorno qualunque della settimana.
Vi si diresse con passo incerto; entrò facendo tintinnare la porta d'ingresso: dentro un uomo beveva solo al bancone; su un tavolino una anziana leggeva un giornale stropicciato.
L'arredamento era oltremodo datato e coperto da una sottile patina gialla; chiese una birra al cameriere, un tipo anonimo in livrea, che gliela servì svogliatamente.
La inghiotti praticamente con un unico sorso; ne chiese un'altra. Poi un'altra ancora. E perché non prendersi un cognac o qualcosa di più forte? La giornata era stata spossante e il ricordo di Eleonora, la sua lontananza, pesavano su di lui come un macigno.
“Come ha potuto farmi questo? Dopo tutto quello che c'è stato fra noi!” ripetè a denti stretti;
Ormai aveva perso il conto di quanti alcolici si era scolato.
Buttò i soldi al cameriere, con noncuranza, lasciandogli persino una mancia inaspettata, data la modesta clientela del luogo.
Uscì barcollando dal locale e percorse un imprecisato numero di strade, piazze, vicoli e salite; finché non giunse, quasi per caso, dinanzi la casa di Eleonora: una luce fioca trapelava dalla finestra della sua camera al terzo piano del palazzo. Quante notti d'amore avevano trascorso insieme.
“E ora chissà chi si è portata su per rimpiazzarmi, quella....” e pensò, completamente ebbro, di suonare al campanello, con insistenza, magari con la folle idea di risentirla, di chiarire quell'incontro fatale avuto due o più ore prima.
“Devo parlarti, Eleonora”, ansimava in preda ad un delirio febbrile.
“C'è ancora speranza per me? Per noi?”
Ma tutto cominciò a confondersi. Le impressioni si succedevano come dirette da una crudele mano fuori controllo; si sovrapponevano, si frammischiavano senza una coerenza o un filo logico.
“Ho bevuto troppo stasera, cosa mi sta succedendo? Cosa sto combinando?
Eleonora, rispondimi! Ma alla fine ho veramente potuto parlare con lei, o vederla?”.
Estenuato si ripiegò sugli scalini della sua casa e in qualche modo, ormai quasi all'alba,giunse in un parco pubblico: lì si distese su una panchina, distrutto, e si addormentò. Il suo sonno fu un tourbillon di pensieri spaventosi, di visioni macabre che avevano come principale soggetto e vittima di atti innominabili, proprio Eleonora.
Quando alla mattina si rialzò, vide i platani del giardino che si stagliavano su un cielo di piombo. Era completamente inzuppato. Coninuava a piovere, forse aveva piovuto tutta la notte. In giro non c'era nessuno; le grigie case intorno avevano le finestre chiuse; solo in una le persiane erano aperte: all'interno si intravvedeva il vuoto.
Si alzò tremolante, in preda ad un profondo sconforto, che non era dovuto certamente all'abuso dell'alcol; i capelli erano fradici e scomposti.
Un orologio, chissà dove, batteva le dieci e mezza.
Camminò verso il centrò città: figure taciturne erano ferme agli incorci, mentre lui non si preoccupava di dare nell'occhio, rasentando furtivamente i muri,.
Era già tanto bagnato che gli sembrò che la pioggia lo ravvivasse.
Divenne più cosciente della vita intorno a lui: la nebbia stava lentamente svanendo e le insegne luminose brillavano sopra i negozi, o sopra qualche facciata; brillavano di una luce convulsa.
Pareva gridassero isteriche il nome di un liquore, la marca di un cappotto, il titolo di uno spettacolo.
Luci verdi, gialle, rosse. Si trasformarono nel suono acuto di trombe petulanti che gli ferivano le orecchie.
Si fermò ad un'edicola: una luce azzurrognola gridava: tabacchi e giornali. Le lettere parevano infisse con chiodi invisibili nell'aria; davanti a lui un uomo distinto sulla sessantina che chiacchierava con il giornalaio: “hai visto che roba incredibile è successa questa notte? Anche i giornali nazionali ne parlano! Non si può più stare sicuri”.
E l'altro, in risposta: “si un delitto efferato, indescrivibile nella sua violenza! Poi infierire in questo modo su una ragazza giovane ed indifesa! Ma in che mondo viviamo, dico io!”.
D'un tratto la fronte gli si imperlò di un sudore freddo, fastidioso: si guardò il palmo di una mano, e scoprì con terrore che era tutto insaguinato.
Urtando l'uomo che lo precedeva chiese in maniera sconnessa una copia del giornale; si allontanò dall'edicola quasi di corsa, sentendosi come braccato da forze invisibili.
Aprì il giornale e sulla prima pagina, lesse il ferale titolo a caratteri cubitali: “ORRIBILE OMICIDIO NELLA NOTTE AI DANNI DI UNA GIOVANE RAGAZZA”.
Un'atroce ed inspiegabile sensazione si impadronì di lui. Continuò la lettura di questo articolo spaventoso; tra le righe lesse chiaramente: “la ragazza, di nome Eleonora, è stata trovata cadavere questa mattina...”
Si mise la mano insaguinata in tasca, e si diresse verso una direzione imprecisata, incespicando sui gradini del marciapiede ed urtando i rari passanti che incontrava...
Opera scritta il 01/04/2016 - 15:34
Letta n.1342 volte.
Voto: | su 1 votanti |
Commenti
Bel racconto
Lorenzo Scampoli 2 01/04/2016 - 20:37
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