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I colori di Sabrina

Non bastò la pioggia a lavare via quella sensazione, anzi, il grigiore di quella mattina fece sì che in lei quella tristezza si ambientasse e prendesse sempre più spazio. Sabrina non sapeva che nome darle, in ufficio, i progetti su cui stava lavorando rimasero esattamente dove li aveva lasciati il giorno prima: quel giorno non esistevano colori, avrebbe lasciato le mura di quella casa spoglie, pensava, come la sua anima grigia e vuota che forse aspettava solo di essere risvegliata.
Pensava di avere tutto: una casa, un marito che la amava, il lavoro dei suoi sogni, eppure sentiva che le mancava qualcosa, un'emozione che la scuotesse da quella statica perfezione. Marco se n'era accorto, lei era convinta di nascondere bene quel vuoto dietro ai soliti sorrisi, alle coccole sul divano davanti ad un film, alle uscite a cena con gli amici, eppure lui lo aveva percepito ed avevano la stessa grande e fottuta paura di guardarci dentro.
Quella sera Marco aveva invitato a cena una ragazza che aveva intenzione di assumere come architetto per la sua impresa edile; Sabrina avrebbe preferito una colica renale pur di non dover affrontare quella cena, la maschera che si era plasmata non avrebbe resistito anche al peso di quei sorrisi di circostanza, eppure non disse nulla a Marco, anzi, cercò di mostrarsi entusiasta e felice quanto lui di questo nuovo acquisto che avrebbe dato un tocco di freschezza al suo team.
A mezzogiorno, Sabrina decise che la sua giornata di lavoro era finita, tornò a casa, nuovamente sotto la pioggia. Una volta arrivata decise che aveva bisogno di rilassarsi con un bagno, ci mise un’ora a preparare tutta la situazione: candele profumate sparse, luci soffuse, la musica di Yann Tiersen come sottofondo e soprattutto una bottiglia di Dolcetto d’alba che finì prima che l’acqua diventasse tiepida. Pensò che forse da ubriaca la cena sarebbe andata meglio e la sua intenzione era quella di continuare a bere fino a raggiungere uno stato di quasi catatonia in cui la tristezza galleggiasse in silenzio per un po’, per tornare forse il giorno dopo insieme ad un nuovo mal di testa.
Il catering arrivò puntuale per le sette, Marco voleva che tutto fosse perfetto e sapeva benissimo che Sabrina non andava oltre la carbonara, ottima, per carità, ma quella sera aveva bisogno di fare colpo.
Sabrina era bellissima, il suo corpo tonico era fasciato alla perfezione da un tubino nero che le arrivava al ginocchio, le spalle erano nude e il seno rotondo e perfetto che Marco le aveva regalato per i suoi quarant’anni si intravedeva dalla scollatura a cuore. Elegante, come sempre, strappò uno sguardo sorpreso a Marco che ancora la desiderava come se non l’avesse mai avuta.
Alle nove, puntuale, arrivò Giulia, questa giovane architetto di 28 anni che si era trasferita a Milano, da Catania, per specializzarsi in architettura d’interni: era bellissima, la pelle abbronzata, due occhi grandi e neri come il buio che fa paura e un sorriso che addolciva i tratti marcati del suo viso; si presentò e quando Sabrina le strinse la mano un brivido improvviso le percorse la schiena e arrivò dritto al suo stomaco, come un colpo che ti coglie di sorpresa alle spalle e che non ti aspetti. Quella ragazza che aveva quasi vent’anni in meno di lei era lì per essere assunta nel suo stesso ruolo, eppure non sentiva nessun fastidio nei suoi confronti, non si mise sulla difensiva, anzi, la mise subito a proprio agio e la cena trascorse tranquillamente, tra discorsi di lavoro e risate. Marco era convinto, Giulia sarebbe entrata a far parte del suo team da subito e vista l’esperienza di sua moglie la mise a lavorare con lei.
Giulia e Sabrina scoprirono un’affinità naturale, quasi istintiva e le discussioni diventavano sempre un momento divertente, perché Giulia aveva un modo unico di trasformare un momento pesante in leggerezza anche solo con un sorriso. Sabrina aveva ogni giorno sempre più voglia di andare in ufficio e quando la sera tornava a casa si trovava sempre più spesso a pensare a lei, ai suoi occhi e quelle immagini le facevano sentire brividi ovunque. Ancora una volta si trovava a provare una sensazione alla quale non voleva dare un nome, ma le andava bene così, perché la strappava alla tristezza dell’ultimo periodo.
Una sera Sabrina disse a Giulia che si sarebbe dovuta fermare in ufficio per terminare un lavoro che avrebbe dovuto consegnare il giorno dopo, Giulia le chiese se aveva bisogno di aiuto ma Sabrina le disse di andare. Giulia prese la sua borsa, la ringraziò, la salutò con un bacio veloce sulla guancia e uscì dall’ufficio; non l’aveva mai baciata, Sabrina era rimasta immobile, trascinata con forza verso pensieri che non faceva da anni, verso un mondo di emozioni che sentiva di aver dimenticato ma che aveva riconosciuto, come fossero state sepolte da anni di routine.
Dopo essere rimasta per un tempo che le sembrò interminabile a fissare quelle emozioni, sentì la porta dell’ufficio aprirsi; vide Giulia entrare con del cinese da asporto, il suo preferito. Giulia appoggiò la borsa e il cibo all’ingresso, Sabrina si alzò, in silenzio, ma con uno sguardo che parlava da solo; Giulia le andò incontro e la baciò, in un istante si ritrovarono a fare l’amore sulla scrivania, per ore Sabrina sentì le mani di Giulia muoversi su di lei, la sua bocca affamata le lasciava segni che si sarebbe preoccupata in seguito di nascondere. Sabrina non avrebbe mai pensato di ritrovare il proprio sapore disperso sulle labbra di qualcun altro, ma forse il bacio di ogni donna portava un arcaico sapore originale, forse quello della famosa mela, Sabrina sapeva solo che la vita era tornata a profumare e la sua anima aveva riacquistato i propri colori.
La storia con Giulia andò avanti per un paio di mesi, fino a quando la ragazza, innamorata, le chiese di lasciare Marco per stare con lei; per quanto le piacesse fare l’amore e sentirsi viva in quelle carezze, Sabrina non avrebbe mai lasciato Marco, sulla bilancia il pacchetto di quella vita apparentemente perfetta vinceva sempre, Marco era la persona che più la conosceva e che la accettava con tutte le sue fisse, come quella di andare a lavoro in autobus per sentirsi meno in colpa verso l’ambiente o quella fastidiosa mania di staccare ogni spina prima di andare a dormire. La storia con Giulia aveva magicamente riacceso anche la fiamma tra Sabrina e Marco e lui, che la conosceva bene, meglio di quanto in realtà si conoscesse lei, aveva capito tutto e accettava, perché non avrebbe amato nessun’altra come amava Sabrina e perché gli costava troppa fatica anche solo pensare di ricominciare da capo con un’altra donna.
Giulia aveva acceso in Sabrina la luce di una risposta che cercava da tempo, quella malinconia che la coglieva di tanto in tanto poteva essere anestetizzata e così fu per altre cinque volte nel giro di un paio anni, i colori che Sabrina aveva perduto e ritrovato si chiamavano Giulia, Manu, Federico, Tommaso e sull’onda di quella gioia rediviva si trovava a pensare a quale nome avrebbe avuto il prossimo colore.
Lasciata la tazza vuota di caffè nel lavandino, scese per prendere l’autobus come ogni mattina, quando una ragazza finì per inciamparle addosso, troppo presa a cercare qualcosa nella sua borsa. La ragazza si scusò e Sabrina, con un sorriso accennato sul volto pensò che quella ragazza era proprio un bel colore.



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Opera scritta il 13/07/2016 - 20:14
Da Denise Villa
Letta n.1131 volte.
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Commenti


Un racconto convincente sulla libertà sessuale della "modernità". La protagonista del racconto trova il suo equilibrio psicofisico in una sorta di promisquità casanovesca. Un saluto

Luciano B. 15/07/2016 - 02:17

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