In quella famiglia, più che notizie piacevoli e rilassanti, chissà perché, principalmente a tavola, proprio nell’ora del pranzo, si riversavano certe discussioni, quelle per intenderci negative più disparate, oserei definirle pure maledette.
Non certo perché quella in esame fosse una parentela disgraziata.
Il motivo si potrebbe spiegare, forse, nel caotico quotidiano parapiglia ostile, vissuto tra quelle quattro mura, che poi si scatenava proprio in occasione di quelle solite conviviali.
In poche parole costituiva, per alcuni componenti, momento sdegnoso tanto atteso per la resa dei conti, proprio per “riversare” accuse, comunicare malumori, ostilità, mugugni, frustrazioni, e perché no, anche occasione di vendette.
Si ho scritto bene, si “riversavano” conflitti variegati in quella tavola imbandita, come se ciascuno volesse vomitare risentimento, malanimo covato nell’animo da chissà quanto tempo e aspettasse quell’occasione.
Alla stessa maniera faceva la padrona di casa quando “riversava” di fretta, sul piatto dei figli, il mestolo ripieno di minestra, riempendolo sino all’orlo, perché poi d’altro non veniva più servito, facendolo a volte trasbordare, imbrattando pure la tovaglia d’unto e di verdure.
Ancora peggio veniva lordata l’atmosfera familiare quando qualcuno di quella figliolanza, rivoltava veleno, con vili accuse contro l’altro, come se stesse versando livore, rabbia, in un’ampolla per poi farlo bere al familiare da distruggere, sopprimere, senza troppa delicatezza, magari proprio al fratello o alla sorella che aveva accanto, gomito contro gomito.
Badate bene che questa non è una storia “noire” alla Hitchcock, nemmeno poliziesca o un thriller.
Costituisce la scena di una delle tante famiglie considerate “normali”, se così si può definire col vostro permesso.
Quel papà seduto a capo tavola, dopo aver assaporato quella gustosissima minestra e avendo appena svuotato per metà il piatto, prese di mira anzi, squadrò per bene, poi fissò a lungo con quegli occhi serrati, quel bicchiere di vino rosso messo di fronte, pieno sino all’orlo, corrispondente ad un “quartino”.
Decise, tutto assorto nei suoi pensieri, che fosse arrivato il momento di tracannarlo in parte, riservandosi di ingurgitarlo completamente alla fine di quel pranzo, che poi, dopo il primo pasto, non è che c’era d’aspettarsi la seconda portata!
Assolutamente no, tranne se si fosse trattato di un giorno festivo o la domenica e quello, decisamente non lo era.
Magari avrebbe preferito prendersi una bella sbornia giacché quella tavola apparecchiata non è che contenesse tutto quel ben di Dio che qualcuno potrebbe fantasticamente immaginare.
Neanche l’ombra della frutta esisteva.
Diciamolo subito a evitare equivoci, che quella tavola era imbandita dell’essenziale. Conteneva bicchieri spaiati, forchette o cucchiai, secondo quello che poteva essere il primo e unico pasto, poi qualche coltello sparso qua e là.
Era arrivato finalmente quel magico momento tanto atteso di pace e di distensione in quella tavola in tal modo imbandita, coincidente col quel religioso silenzio, rotto qua e là, dal ritmato rumore delle posate che battevano sul piatto, nel momento in cui il cucchiaio dei commensali scendeva giù dalla bocca per essere riempito.
All’improvviso, come un fulmine e ciel sereno, come una pugnalata alle spalle, come una sferzata data con accanimento in faccia all’accusato, uno di quei fratelli perfidi, dall’aria giudiziosa e puritana, fece uscire, da quella boccaccia infernale, una semplice all’apparente serafica, incosciente frase, che raggelò tutti i presenti, perché inaspettata, impetuosa.
Come se con un fucile avesse mirato diritto e centrato il cuore del malcapitato, alla stessa maniera, l’incriminato malefico, imprudente accusatore disse:
- Lo sai papà che mia sorella Angelina ha combinato delle impudicizie, delle sozzure con quello lì che conosce, ed io con questa qui non voglio più starci, né intendo vederla.
La devi allontanare papà perché mi fa schifo e ha infangato tutta la famiglia.
Quel padre d’un tratto si fece il viso paonazzo e restò bloccato con cucchiaio sospeso davanti alla bocca mentre quel brodo di traverso cadde sopra i suoi pantaloni macchiandoli.
La madre, si alzò di scatto facendo un rumore con la sedia spinta all’indietro. Prese di corsa la zuppiera e si rifugiò in cucina.
Gli altri fratelli e sorelle, rimasero di stucco, inorriditi; cercavano di superare l’impatto spudorato, indecente.
Ripresero poi a mangiare, come se niente avessero udito.
La povera Angelina, una ragazzetta di appena sedici anni, che non s’aspettava che quelle frasi vergognose, scandalose del fratello venissero spifferate in quel modo da apparire oscene, si sentì dentro l’anima colpita a tradimento.
Davanti a tutti i familiari si senti vergognosamente sporca, come se in quel momento fosse diventata la donna da marciapiedi, la pubblica peccatrice da mettere alla gogna.
Diventò rossa in viso, poi gialla e pallida.
Voleva morire folgorata in quel momento abietto, per quel turbamento caduto come un macigno non solo sulla sua testa ma interamente sul suo corpo di giovanetta da sfracellarla, distruggerla completamente.
Desiderava con tutta se stessa sprofondare in una fossa infernale,
Quelle frasi vergognose e repellenti la mortificarono talmente da odiarsi con tutte le sue forze.
In cuor suo però si sentiva innocente.
Non disse nulla e quel boccone di minestra che l’era rimasto in bocca, si trasformò in un morso di veleno.
Fece in tempo a rigurgitarlo confusamente sul piatto. Poi rimase ferma, seduta sulla sua sedia come se una scarica elettrica l’avesse folgorata.
Quel vile fratello accusatore aveva finalmente soddisfatto a modo suo la coscienza e si sentiva finalmente risollevato.
Nessuno in quella tavola apparecchiata osò più parlare da quel momento in poi, mentre la povera Angelina tentava, con tutta se stessa, di convincersi inutilmente di non aver udito, come se la testa le avesse fuso completamente il cervello per quelle disonoranti rivelazioni.
Si alzò di corsa e si chiuse a chiave nella sua stanza.
Cercò d piangere ma non le riuscì.
Che pena, che disgrazia si sentiva a addosso!
Voleva morire e ordinò inutilmente al suo cuore di battere così forte da scoppiare.
Si mise a pensare ansimando per la sofferenza umiliante; non lo faceva per riflettere sul contenuto di quell’infame accusa ma unicamente perché si sentiva così ferita e mortificata da cercare qualche modo di porre fine all’oltraggio, al disonore ricevuto davanti a quei familiari che sicuramente, da quel giorno, l’avrebbero considerata come una disonorata, una puttana.
I giorni passavano e Angelina cominciò davvero a sentirsi male, ad accusare dolori, contrazioni allo stomaco, bruciori e senso profondo di nausea, non certo per aver fatto un atto sessuale con suo amico con il quale aveva semplicemente cominciato a conoscere i primi impulsi innocenti, sfiorando vicendevolmente il corpo con le mani tremolanti e con delicatezza.
Era un acuto dolore il suo, procurato da quel senso profondo di vergogna, di scombussolamento interiore che la distrusse; la facevano sentire ancor più abietta nei confronti di quei familiari che pur non parlando, esprimevano con gli occhi, con i gesti e quant’altro l’avversione rabbiosa.
Era evidente che la tenevano vergognosamente alla larga, perché oramai ritenuta sporca, contaminata, peccatrice, immorale, corrotta.
Sembrava che tutti in quella famiglia la tollerassero semplicemente, non intendendo più aver nulla a che fare con lei.
Così, pochi giorni dopo, proprio in occasione del pranzo, mentre tutti si sedevano al solito posto, pure Angelina si accomodò in maniera composta nel suo, ma con la testa bassa.
Uno dei fratelli alla sua destra e un’altra delle sorelle alla sua sinistra, si scostarono subito di qualche centimetro da lei, quasi a voler prendere le dovute distanze per non essere contaminati da quell’indegna peccatrice, ritenuta infetta della peggiore malattia.
La tavola era imbandita con i soltiti bicchieri, le forchette o i cucchiai, secondo il pasto del giorno, poi un boccare d’acqua, la solita bottiglia di vino rosso che il papà si apprestò a riempire… quando di scatto, e facendosi seria ma serena in viso, Angelina lentamente scostò la sedia, si alzò, camminò pacatamente e si diresse verso il balcone.
La madre si fece serie in visò. Ebbe un brutto presentimento e spaventata, ancora con la zuppiera in mano, disse:
- Che stai facendo Angelì!
Siediti che la tavola è imbandita e dobbiamo pranzare tutti assieme.
Te lo ripeto, mettiti al tuo posto per favore.
Angelina non ascoltava più.
Aprì l’imposta di quel balcone e si gettò.
Scaraventò per terra dal terzo piano.
Attorno a lei, dall’alto, si vide in una pozza piena di sangue.
A modo suo, Angelina finì di soffrire, non sentendosi più addosso, quell’opprimente, assillante, incancellabile vergogna familiare, sul quel suo corpo innocente di ragazzina di appena sedici anni.
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Il giudizio, l'ottusità colpiscono uomini e donne ma forse, le donne, qualche volta in più...
Bello.